Alta Terra di Lavoro

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Francesco Petrarca su Mont Ventoux di Alfredo Saccoccio

Posted by on Giu 10, 2024

Francesco Petrarca su Mont Ventoux di Alfredo Saccoccio

   Adesso che i “giganti della montagna” hanno ripreso a percorrere l’Europa in bicicletta, per dare la  scalata alle Alpi e agli Appennini, sino a quel Mont Ventoux che nel nome fa paura, ma solo nel nome, andiamocene anche noi lassù, in compagnia di messer Francesco Petrarca, che ne fu il precursore.E proprio  di questi giorni. Aveva l’età medesima di questi ragazzi, almeno dei veterani, trentadue anni.

Non andava in bicicletta solo perché non le avevano ancora inventate, ma a piedi. E se l’andare  in bicicletta sarà più faticoso, ci sono oggi le belle sttade asfaltate e levigate, che tirano su la gente come scale girevoli, dove a quel tempo non c’erano strade né belle né brutte, forse solo qualche rado sentiero, appena tracciato tra sassi e sterpi dal piede dei pastori, poi cancellato da nuovi sassi e sterpi, che il  vento caccia, turbina e ammucchia, il terribile vento del Gardo e di Provenza, che prende d’infilata i lunghi fiumi e dà nome al monte.

   Federico Mistral,  che era un grande camminatore, volle, anche lui, salire quassù,per cercare un ambiente al suo “Calendal”,  ma poi fece giuramento di non tornarci più. Quando lo invitarono a una seconda scalata,  preferì starsene al piano. Un granello di follìa si divertì sempre a giocarein Petrarca, il quale, di tutto curioso, volle anche conoscere la cima del monte di tutti i venti, e da lassù contemplare l’ampio scenario che altri monti più grandi,e il piano e i fiumi e il mare sotto gli occhi gli aprivano. Egli scrisse, il 26 aprile 1336 (qualcuno preferirebbe ritardarla di molti anni, assegnandola al 1352),, una lettera all’amico filosofo, teologo e astrologo Dionigi de’ Roberti, forse ripresa per ritoccarla, perfezionarla, aggiungendovi riflessioni religiose e morali che erano nell’indole sua.

   Il poeta ne ne sta ancora ad Avignone, dove, nella chiesa di Santa Chiara,il 6 aprile 1327, Venerdì Santo, incontrò lo sguardo di Madonna Laura, che sarebbe, per alcuni,una ipostasi letteraria, essendo Laura solo frutto di immaginazione del poeta toscano. Determinato ad andarsene, a fuggire, e già si  cercava un rifugio, che presto troverà in Valchiusa, dentro la ferrigna rupe a picco, da cui sgorgano, zampillano , spumeggiano e cantano, in cascatelle innumerevoli, le chiare, fresche acque della Sorga. Francesco non amava la fosca città papale, Anzi la odiava, come di rado l’uomo può odiare la città in cui si nutre, studia, coltiva amicizie, ama le belle donne e scrive poesie. Per Avignone coniò sostantivi e aggettivi di sdegno e di schifo, che neanche Dante per il Vaticano e Firenze o Pisa, fogggiandoli nel suo  latino, stampo ciceroniano :sentina di tutti i vizi, lurida, immonda cloaca, il cui fetore ammorba il mondo e, dunque, contamina, per la sua stretta vicinanza, l’innocente purezza della campagna.

   Per uscire dall’immonda cloaca, bisognava anche uscire dall’adiacente campagna contaminata e salire tra i venti che spazzano via il gran fetore. Il Ventoso dista da Avignone circa quaranta chilometri.

   Per non andare da solo, si cercò tra gli amici e conoscenti un compagno, ma nessuno gli parve adatto all’impresa: uno troppo pigro e lento, un altro troppo spiccio e salterello; questo di umor triste e caca dubbi e pesantone, quello sventato e ciarliero e stecchito. Si confidò con il fratello Gherardo e, il fratello,di minor età , d’animo mite e obbediente, accettò. Si mossero insieme. Due servi li seguivano, appena due. Di solito messer Francesco ne   aveva “soltanto sei”, ma ora, avendone rispediti quattro in Italia, non gli restavano che quei due, i quali seguirono i loro padroni a Carpentras e di lì forse a Malaucène, Poi se ne perde la traccia.A Malaucène i pionieri pernottarono.

   Il tremendo cacume, che i cronisti sportivi dipingono a colori di inferno dantesco, la fatica suprema del Tour de France, visto da Carperntras ha l’aspetto della montagna più pacifica e docile che possa vedersi. Nemmeno una vetta ritta e ardita, ma soltanto un ondulato e  declinante pianoro, che va a confondersi laggiù nell’informe massa alpina . Neve, in cima non se ne vede fuorché d’inverno, e sui fianchi la massa boschiva presto si  dirada e cancella, Il resto è aridità e in quella aridità fatta di pietrame e sterpo, senza ombra d’albero né fiore di prato né fresco alito d’acqua sorgiva che non ristagni prima di scorrere, sta il suo volto ostile. Nemici al viandante sono il sole e il vento, contri i quali inutilmente egli cerca riparo e sollievo. Quello che pareva  un dolce pianoro diventa un duro roccione e la sua apparente continuità nelle Alpi è una illusione ottica, perché il monte riemerge davvero unico e monumentale sulla pianura  circostante.

   Malucène, un villaggio di quattro o cinquemila montanari, è posto a 750 metri di altitudine, sul versante ovest. Si l’ comincia, per altri 1200 metri,l’arrampicata. L’aria frizzante e il bel sole del giovane aprile riempì di letizia l’animo dei due scalatori, e di vigore nelle ginocchia, e di respiro i polmoni. Andarono. Primo inciampo : un vecchio, vecchissimo  pastore cercò di dissuaderli dall’andare innanzi. Cinquantanni prima egli era salito, ma non ne aveva riportato che delusione e le ossa rotte (come poi, tra cinque secoli, il Mistral). Altri non c’erano stati prima di lui, né dopo. A che fare ? Né pascolo né legna lassù.Tornassero indietro.

   I poeti sono anche per questo, che ostacoli e consigli di prudenza servono solo a farli più ostinati nella loro ostinazione. I due giovani ed intrepidi alpinisti seguitarono per la loro strada. Seguitarono a cercarsi una strada, che non c’era. E più il buon vecchio pastore li inseguiva con le sue grida perché tornassero indietro, più quelli affrettavano il passo. I due gli lasciarono quanti abiti avevano pesanti e ingomranti.

   Ben presto, però, cominciarono i guai. Gherardo, più svelto, meno affaticato da gravi pensieri, con i piedi sopra la terra, trovò presto la via giusta e si incamminò, a gran passi, verso la vetta. Francesco, a passi moderati, com’era suo costume,  volgendosi di qua e di là , curioso di ogni aspetto della natura, il capo nelle nuvole e in petto la musica delle sue dolci rime, se ne andava per i sentieri più lunghi e tortuosi, aggirando il monte, scendendo anziché salire risalendo, ridiscendendo, perdendosi tra forre e dirupi.

   Da lassù il fratello lo chiamava a gran voce e rideva, Si fermò ad aspetttarlo, ma lui faceva del suo meglio per sbagliare direzione e disorientarsi. E sbagliando, disorientandosi, ritrovandosi ogni volta più basso, faceva le sue meditazioni sulla vita beata, che, invece,  sta  in alto. Ecco, salire bisogna di virtù in virtù (di colle in colle) verso la divina perfezione. Faticosa è la strada, ma certa : basta levare gli occhi al ciel oe seguire con i piedi gli occhi. Troppo la sua  vita se n’era andata errando tra piaceri terreni e bassi. Ora era tempo di  sollevarsi, anima e corpo, verso la beatitudine. Questo pensiero valse a ridargli lena. Perse del tempo,  lasciò il fiato, ma infine trovò, anche lui, la scorciatoia per raggiungere il fratello e la vetta. Questa vetta di metri 1912,  i montanari chiamavano allora “il Figliolo”. Come oggi la chiamino i ciclisti, non sappiamo. Ivi i due fratelli riposarono alquanto e si ristorarono con le provviste portate nel sacco. Ripreso fiato, il poeta volse  gli occhi verso l’Italia, che non poteva vedere, sbarrata dalle Basse e Alte Alpi, ma la salutò a gran voce con quel grido che tutti ricordate. Dall’altra parte, laggiù verso il sole, gli parve di scorgere il ma Tirreno, che è anche il mate d’Italia. Ma  forse, se Dio non gli aveva donato una vista miracolosa, era soltanto un’illusione, un desiderio. E Francesco pregò il fratello che lo lasciasse solo a meditare. Tirò fuori il suo Sant’Agostino che si portava sempre in tasca, lo aprì alla pagina che gli si confaceva ;”Gli uomini vanno a mirare le altezze dei monti, le onde enormi del mare, le lunghe correnti di fiumi, la distesa dell0ceano, il girar delle stelle, ma abbandonano se stessi”. Gherardo lo lasciò solo  perché voleva, anche lui, star solo,  con le meditazioni   sue, le quali erano meno letterarie di  quelle del fratello maggiore, ma ascetiche e sincere, come si vedrà fra poco.

   A notte fonda, se ne tornarono alla capanna di Malaucène,dalla quale, all’alba, erano partiti. Sani e salvi e allegri, come due fringuelli, con meraviglia  e rispetto del vecchio pastore.

   Quando, a mente pacata, volle raccontare l’eroica avventura all’amico filosofo, messer Francesco sentì il bisogno di calcare le mani  nelle riflessioni sui trascorsi della sua prima giovinezza , che gli parevano turpitudini esecrande e vergogne : “Non ami ciò che solevo amare, dirò meglio che l’amo ancora ma meno; e anche così mentisco, l’amo ma con vergogna e tristezza: ecco che finalmente  ho detto la verità. Perché è proprio  così:amo ciò che vorrei non amare, che vorrei anzi odiare; amo ma di malanimo, costretto, addolorato, triste e piangente”.  E gli tornava in mente il verso di Ovidio: “Odero, si potero; si non, invitus amabo”.

   Poi, disceso a valle, rientrato nella sua stanzetta, e meglio quando dalla fetente cloaca avignonese si trasferì nello odorato eliso di Valchiusa, laSaggezza se ne usciva, la notte, dalla porta appena dischiusa,  ed entrava a tenergli compagnia la Grazia:” Con lei foss’io da che si/parte il sole, /e non ci vedesse altri che/le stelle,/solo una notte e mai non fosse l’alba”.

   Il fratello Gherardo non sapeva scrivere sì dolci versi, né snocciolare  riflessioni così sagge, ma di lì a poco si fece frate davvero, chiudendosi nel convento di Montrieux . Era stato anche lui innamoratissimo di giovane, bella donna, che vide morire.

   Il cantore di Laura vive da intellettuale  (oltre che da poeta) il travaglio di una epoca di transizione, ossia  di una epoca in cui i vecchi valori religiosi si oppongono ancora con una certa forza ai nuovi valori laici.

   L’intellettuale ha, quindi, una dignità professionale, che occorre difendere, richiedendo pubblici riconoscimenti, per affermare l’autonomia e la dinità della professione intellettuale. Petrarca sostiene una lunga lotta  per essere incoronato poeta.

   La personalità petrarchesca è complessa in quanto gli slanci umanistici, lo sforzo di rivivere il mondo classico con animo moderno non riescono[R1]  a cancellare le sopravvivenze medioevali, pur presenti in lui. Egli è come  sospeso fra un mondo nascente e un mondo in declino. Nel “Secretum” il dramma dell’animo petrarchesco è personalizzato da Agostino e dallo stesso Petrarca, alla presenza della muta Verità. La scelta di un interlocutore ideale come Agostino è significativa. Questi, anche se nel dialogo è il custode  della tradizione cristiana, fu, a suo tempo, testimone del tramonto del mondo pagano e della ascesa del mondo cristiano. In lui, perciò, Petrarca, che , primo viaggiatore col gusto del “Gran Tour”,trova un interlocutore non sordo alle sue ragioni, che sono poi quelle dei tempi nuovi. L’amore  per Laura Noves, sposata con un avo di De Sade, suo mito sempreverde come un glorioso “lauro”, il desiderio di gloria e di ricchezza turbarono, un tempo, anche l’animo di Agostino. Il dialogo, come ogni vero dialogo, non ha conclusione. Petrarca, fine intellettuale, qual era, sembra presagire che i valori cristiani , anche  se formalmente rispettati, verranno svuotati e  traditi nella loro sostanza.

   La poesia petrarchesca riespone in altri termini il dramma dell’uomo di cultura, Nel “Canzoniere” l’irrisolta dialettica di amore sacro e di amore profano dà vitalità alla poesia. Si sa, infatti, che la “logica” della poesia è diversa da quella del pensiero, Petrarca rende con grande forza poetica i contrasti del suo animo: da un lato, la piena partecipazione alla vita di questo mondo, dall’altro il costante anelito a distaccarsi dalle cose effimere e vacue per attingere la pienezza dell’altro mondo, del regno di Dio.

   Petrarca, dunque, pur spiritualmente sensibile ai tempi nuovi nei suoi vari aspetti (l’amore, la gloria, la riscoperta del mondo classico con i valori mondani  ad essa connessi)  rimpiange di non aver saputo levarsi in volo, pur avendo le ali, per dare forse non bassi esempi di posterità . La celebre  epistola alla posterità (“ Posteritati”) e la tarda “senile” a Giovanni Boccaccio sono importanti testimonianze non soltanto di una travagliata esperienza intellettuale, ma anche di una complessa esperienza storica, svoltasi fra due civiltà.


 [R1] Epocs in cui i vecchi valori religiosi

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