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Gaeta nella descrizione dei viaggiatori del “Grand Tour” di Alfredo Saccoccio

Posted by on Lug 17, 2022

Gaeta nella descrizione dei viaggiatori del “Grand Tour” di Alfredo Saccoccio

   Uno scrittore stregato dall’Italia, luogo di incanto, di poesia, di pace e di romanticismo, fu Hans Christian Andersen. Solo pochi addetti ai lavori  conoscono il romanzo “L’Improvvisatore” di Hans Christian Andersen, che fu l’inizio della fortuna  e della fama dello scrittore di Odense, che riversò in esso le molteplici sensazioni ed emozioni accumulate nel suo viaggio in Italia, tra il 1833 ed il 1834, intrapreso a scopo di formazione culturale, grazie al sussidio assegnatogli dal re Federico VI di Danimarca, che gli elargì  una lunga serie di sussidi con cui Hans Christian si mantenne, spianandogli il cammino sulla via della celebrità.

Tale viaggio, dei 29 lunghissimi e a volte tragicomici viaggi per il Vecchio Continente, lasciò una traccia rilevante nella sua opera letteraria e permise al famoso autore di fiabe, il re Mida della favolistica mondiale, di trovare se stesso artisticamente, quale disegnatore, un aspetto quasi ignorato della sua attività culturale, meritevole di recupero per la pregnanza espressiva degli schizzi, eseguiti a matita, di fine fattura, che prelude a Van Gogh, dai quali traspare una nostalgia per il mondo incantato, di cui è sostanziato L’Improvvisatore, il più famoso dei cinque romanzi dello scrittore danese, una storia parzialmente autobiografica, corredata da osservazioni sulla plurisecolare vicenda storica, sui monumenti e mondi antichi, sugli usi, sui costumi, sul carattere delle popolazioni, sulle tradizioni e sulle feste nel romantico Ottocento; osservazioni acute, grazie agli estri e alla curiosità del Nostro, a cui si deve, assieme al Goethe, la più eloquente ed ispirata descrizione dell’aura mitica che avvolgeva il Bel Paese e delle particolarità spirituali del popolo italiano.

   Questo inesauribile, animatissimo flusso di impressioni italiane è espresso, oltre che con ricca vena creativa, con grande spontaneità, essendosi l’Andersen abbandonato agli impulsi della sua natura e alla poesia della sua anima di eterno fanciullo, piena di slanci, di inquietudini, di incertezze. Durante la permanenza nel nostro Paese, fecondo in ogni senso, il fulgore abbagliante del sole italiano, la flagranza della campagna, il paesaggio pittoresco, tutto colori, avvinse lo strano lungagnone venuto dal profondo Nord: fu conquistato dai cieli italiani, soffusi di quell’aura luminosa che è tipica delle regioni meridionali, e dai paesi ancora schiettamente eredi della classicità, impregnati di una presenza soprattutto simbolica. Le esaltanti visioni della nostra Penisola, in cui convivono, incontrastate, la storia, l’arte e la letteratura, gli fecero vibrare profondamente le corde del cuore e scrivere pagine palpitanti: per il letterato danese l’Italia era il forziere di tutti i gioielli del mondo, un lacerto di “paradiso terrestre”, di cui sente l’armonia, la purezza, la misteriosa santità, l’intensa umanità, il valore perenne, che unisce il mondo di ieri e quello del suo tempo. Essa era un fulgido sogno, una favola.  Tanto più che egli veniva dalle brume del Nord. Dinanzi alla tipica luce celeste degli orizzonti italiani, dinanzi alle infinite, profumate essenze mediterranee, dinanzi  a tanta pittorica bellezza, che gli fece scrivere: “tutto è come una pittura”, l’animo di Andersen  esultava, credendo di trovarsi nel giardino incantato di Armida, di tassiana memoria.  Egli si tuffa nell’ affascinante, luminosa, morbida natura della fruttifera Campania, a contatto con la vegetazione meridionale della penisola.

    Quella del brutto anatroccolo è un’irresistibile attrazione, una fascinazione, una sorta di voluttuosità sensuale per il cielo luminoso, per le vestigia di un grande passato, per il quale affluì in Italia, per secoli, un pellegrinaggio di artisti, venuti come fedeli dell’Islam alla  Mecca, e di giovani uomini benestanti del Nord Europa, che intraprendevano il Grand Tour, il viaggio di conoscenza attraverso l’Italia, dopo aver terminato gli studi classici e umanistici, oltre a re,  a regine, a  principi, a papi, a beati, a cardinali, a vescovi, a generali, a sir, a conti, a musicisti, per vivervi in piena luce. I suoi riflessi li affascinano, il suo sole li quetano. Essi vanno a caccia della felicità sulle spiagge, nei giardini, nei palazzi, nei siti archeologici, nei musei, nelle chiese, nei castelli.

    Il poeta “beveva” quest’atmosfera solare, che pervadeva ogni fibra del suo essere, “a lunghe sorsate”, come scrisse alla sua amica Henriette Wulff, una fanciulla gobba ed inabile: “posso bere un’aria mai gustata prima, mangiare grandi grappoli d’uva e udire le dolci voci che mi fanno sciogliere il cuore. Non provo nostalgia, semmai tristezza al pensiero di dover lasciare questo paradiso!”. Per Andersen l’Italia aveva avuto in dono una cornucopia di frutta e di fiori, che profumavano l’aria, mentre alla Danimarca era toccato soltanto una zolla d’erba e qualche macchia di rovo.

   Di fronte allo “splendore del sole” mediterraneo e alla luminosa atmosfera del Sud, il celebre favolista (per lui la vita è una fiaba e questa fiaba è condotta dall’inizio alla fine dalla Provvidenza divina) sentiva l’impotenza della sua rappresentazione grafica, incapace di rendere le vivide e variegate immagini che vedeva. Un benessere profondo lo invase nel viaggio da Roma verso Napoli, in cui restò avvinto da Gaeta, cittadina di grande importanza strategica. Ecco come l’allora ventinoovenne romanziere, nel suo dettagliato diario, descrive (lo fa con gli occhi di un artista, con vivida immaginazione i occhi di un artista, con vivida immaginazione) la cittadina tirrenica. Da questa descrizione spira benessere. La felicità di quell’ora e la suggestione profonda della storia si fondono con il mare azzurro e lucente, con il profluvio di limoni, prossimi alla maturazione, e di fiori. Ne “L’Improvvisatore” Andersen accenna alla piccola altura di Gaeta, la cui sommità è coronata di rovine antiche. Egli era “come abbagliato dalla maestosa  bellezza di questo quadro”.

   Il distacco di Andersen dall’Italia, che segnò una svolta radicale per la sua ispirazione poetica, fu doloroso. Il viaggio era stato uno dei ricordi più significativi della sua vita, un  piccolo squarcio di serenità in mezzo alla tragicità allucinante della sua  strana vicenda personale.   

   Un  viaggiatore sensibile a certe atmosfere fu Friedrich  Johann Lorenz Meyer, figlio di un commerciante di vini di Amburgo, che, varcate le Alpi nel  1783, a soli 23 anni, sente che ha raggiunto una terra privilegiata, il paradiso dei sensi, il cui ricordo non lo lascerà più. Meyer si lascia inebriare dalla primavera precoce e crede di vedere la vita trionfare della morte. Il dottore in diritto, laureato all’università  di Goettingen, che doveva soggiornare 5 mesi nella nostra Penisola, che viaggia con occhi ricchi di curiosità, spesso sfidando l’insalubrità di luoghi infestati da paludi e da erbacce,“gusta” il paesaggio italiano, che trasuda misteri e il fascino delle vestigia romane. Nel libro “Darstellungen  aus Italien” (“Rappresentazioni dell’Italia”), in venti capitoli,  pubblicato a Berlino nel 1792, la natura italiana, la cui bellezza è considerata come eccezionale, prende un posto di rilievo e suscita in lui delle effusioni liriche, delle confidenze più o meno velate, risvegliando nei connazionali il desiderio d’Italia, la terra fatata, la terra promessa, che scaccia lo “spleen” ed offre il meraviglioso a cuori vagabondi.

    Molti viaggiatori,  in epoca precedente, non l’avevano vista: rinchiusi nelle loro carrozze, essi chiacchieravano  con i loro compagni. De Brosses e il suo piccolo gruppo di Borgognoni rivaleggiavano senza dubbio in tratti spirituali rileggendo gli autori antichi: durante la traversata delle Pianure Pontine la lettura di Orazio aveva più importanza dell’osservazione diretta. Le relazioni di viaggio non menzionavano che paesaggi amabili, fertili, a proposito dei quali ci si sentiva a proprio agio ad evocare testi antichi: sponde del Clitunno, ricche pianure d’Italia settentrionale e di Campania… Si gustava non lo spettacolo della natura abbandonata a se stessa, con ogni sua esuberanza e sua fantasia, ma ciò che si chiamava una “nobile disposizione” e degli effetti che sembrano dovuti all’arte del giardiniere. Tutti gli stranieri  ammiravano la strada da Fondi a Gaeta, di cui Guyot de Melville, in “Voyage historique d’Italie”, Le Haye, 1729,T. II, p. 181, scrisse: “ Non c’è passeggiata o viale, per quanto ben conosciuta possa essere, che  si avvicina alla bellezza di questo cammino”.

   Il Meyer, forse sotto l’influenza del filosofo Jean-Jacques Rousseau, si tuffa nella deliziosa  natura. Egli pensa di sognare, quando arriva in questa contrada, che gli appare come un vero e proprio paradiso, un dono divino. Si meraviglia davanti  a tanta profusione di doni, inimmaginabile per un nordico:  vegetazione esuberante, fiori sconosciuti, giardini senza recinto, boschi d’aranci cresciuti in piena terra… La convinzione spesso espressa da Meyer nel 1792: “Poeti, dove sono le parole? Pittori, dove sono i colori che ci tracceranno una immagine di queste meraviglie?”.  

  Qualche critico, tanto in Germania che in Francia, rimprovererà all’autore, canonico protestante, di fare, in questa descrizione, troppo spazio all’entusiasmo e al sentimento, ma  tutti i suoi contemporanei sono unanimi: non c’è in Europa, e forse neanche nel mondo, contrada dove la natura si mostra più generosa. Carl Friedrich Benkovitz, in una giornata di novembre, la più bella del suo viaggio, pensa di sognare quando giunge in questa zona credendosi tuffato in piena mitologia, nella sfera delle ninfe, dei satiri e delle driadi. Cfr. “Reise von Glogau nach Sorrent”, Berlin, 1803, t. III, p.177. Come scrive Elisabeth Chevallier, egli “si compiace  di immaginare che ha ritrovato il tempo felice dell’antichità, quando la terra e gli uomini erano ancora in tutta la loro giovinezza, e su cui regnava Saturno”. Già gli scrittori dell’antichità parlarono di questa parte della Campania, ora Lazio, la più ricca e la più pittoresca del Bel Paese, come di una plaga magica, felice e fertile. Fra molti altri, Plinio (libro I, canto 5) e Floro (libro I, canto 16) dicono che “là cominciano ad innalzarsi le collinette che producono in abbondanza i vini più celebri! È là che Bacco e Cerere si disputano l’onore di spandere i più grandi favori! La Campania è la contrada più bella, non solo dell’Italia, ma di tutta la terra. Nessuna conosce un cielo più dolce – vi fa nascere i fiori due volte nel corso di una stessa annata; nessuna offre un suolo più abbondante, un mare più ospitale!”. Insomma, un “locus amoenus” dell’eterna primavera.  

   Fra’ Leandro Alberti (1479-1552), in “Descrittione di tutta Italia”, opera uscita nel 1550, contenente i siti, le origini, le signorie delle città e dei castelli, i costumi dei popoli, le condizioni dei paesi, gli uomini famosi, i monti, i laghi, i fiumi, le fontane, i bagni, le miniere, le opere meravigliose  prodotte nella Penisola dalla natura, dimostra il suo acuto spirito di osservazione di uomini e di cose. Il raffinato viaggiatore dell’Italia  della prima metà del Cinquecento percorse la Penisola dal 1525 al 1536.. L’autore bolognese, domenicano,  osserva  “vaghi  giardini appresso il corvo lito del mare sotto Gaeta, pieni di naranzi (sic!), limoni e d’altri simili frutti, irrigati da chiarissime acque”, cose molto piacevoli.

   Jean-Jacques Bouchard, abate e dottore in “utroque”, parigino, ci ha lasciato un diario eccezionale sui mesi di soggiorno tra le dolci spiagge del regno e le squallide prigioni, dove fu rinchiuso, per alcuni giorni, sotto l’accusa di spionaggio. È il “Voyage dans le Royaume de Naples”, rimasto inedito fino al 1976, steso in terza persona, apparso in “Journal”, a cura di Emanuele Kanceff, in  2 volumi, così vivace per versatilità di interessi, curiosità, notizie. Gli scadimenti bozzettistici e di maniera non nuocciono alla libertà dell’entusiasmo sincero, all’originalità dello sguardo.

   Il Bouchard, ventiseienne, qualificatosi cittadino romano e vestito da principe romano in lutto, e Domenico Campanella, nipote del filosofo di Stilo, viaggiano insieme. Essi partono dalla Città Eterna, il 13 marzo 1632, per trascorrere la Pasqua a Napoli. Il viaggio in Italia del Bouchard durò ben otto mesi. Nel testo l’autore si cela sotto lo pseudonimo di Oreste.

   A Gaeta, grazie alla compiacenza di un gentiluomo spagnolo, Jean-Jacques potette non solo visitare la città, dove non si riceveva allora alcun straniero, ma anche la fortezza. Il Bouchard vi vide, in una rientranza della muraglia, tra due iscrizioni, una francese e l’altra spagnola, un armadio dove si teneva, all’impiedi, vestito alla francese, con gli stivali e gli speroni, il cadavere mummificato del gran Conestabile Carlo di Borbone, i guanti e un bastone in mano,  una gorgiera al collo.

   Nella sua visita a Gaeta, nome che risveglia nell’animo tante memorie poetiche e storiche, egli potette ammirare la posizione del golfo, “dal curvo lido”, come scrisse Giovenale, nella Satira XIV, e le rive mollemente baciate dal mare aperto verso ponente e mezzogiorno e verso settentrione e levante. La città gli parve molto bella, dotata di belle strade, di belle piazze e di begli edifici. Era voce corrente, inoltre, che a Gaeta, soprattutto nel borgo, ci fossero le più belle donne di tutta l’Italia.  

   Ampio e dettagliato reportage di un lungo viaggio in Italia, alla fine del XVII secolo, è il “Nouveau voyage d’Italie” di François-Jacques Deseine, Paris, Couterot, voll. 2, in cui è contenuta una descrizione esatta di tutte le province, le città e i luoghi considerevoli del Bel Paese. Nel libro, edito nel 1699, di pagine 642, il Deseine visita e descrive città, paesi, località e piccoli centri, dal Piemonte alla Sicilia: Torino, Vercelli, Milano, Mantova, Pisa, Firenze, Massa, Carrara, Rimini, Roma, Napoli, Siena, Perugia, Palermo, Catania, Gaeta, Bergamo e molte altre località, tra le quali la Repubblica di S. Marino.

    Mola e Gaeta possono vantare una campagna “dove sono i più bei giardini dell’Italia, da dove si trasportano molti frutti a Napoli, e a Roma, soprattutto aranci”, e dove pascolano “Bufali che sono una sorta di buoi neri più forti, e più cattivi dei buoi ordinarii”.

   Quasi due secoli prima, nel 1590, Cesare Vecellio, nipote del sommo pittore cadorino Tiziano, ma influenzato da Paolo Caliari, detto il Veronese, pubblica a Venezia “Degli habiti antichi e moderni di diverse parti del mondo”, con numerose incisioni. Riportiamo la descrizione del costume di Gaeta: “Le donne di questa città sono belle, ma però non troppo ricche, et portano in testa certe tovagliette che cuoprono loro tutto il capo et ancora le spalle. Hanno alcune vesti  di mezza lana o di panno fino in terra, le quali cingono con alcuni asciugatori di tela di lino. Sopra esse, di dietro, cingono un panno rosso ò pavonazzo, con una lista di velluto di colore; in fine d’esso, davanti, portano un grembiule di tela bianca, lavorato, di seta nira ò rossa assai bene; et sopra delle spalle vestono un casacchino di panno pavonazzo ò rosso, con maniche, et è lungo mezza quarta sotto la cintura”.

   Il medico e scrittore scozzese John Moore nel libro “A view of Society and Manners in Italy¸ with anecdotes relating to some eminent characters”, London, W. Strahan, 1783, voll. 2, dà ampio risalto agli usi e costumi delle varie popolazioni incontrate nel corso del suo viaggio. L’uomo di lettere analizza, con grande obiettività, il modo di vivere della società italiana del XVIII secolo. Egli percorse l’Italia con lo spirito non dominato da preconcetti, con l’abito di un perspicace e quasi sempre imparziale osservatore.

   L’opera è redatta in forma epistolare con brio e con garbo (il viaggio è relazionato tramite 82 lettere). Una parte del secondo volume interessa Napoli e dintorni. Autore mancante alla Raccolta Fossati Bellani e perfino al Graesse. Cfr. D’Ancona e Pine-Coffin, che ritiene il Moore “one of the most sober and well balanced views of Italy published in the eighteenth century”. Lo scrittore visita Napoli nel 1775, lo stesso anno di Donatien-Alphonse-François de Sade e di Carlo Antonio Pilati di Tassullo, un anno prima di Jean-Marie Roland de la Platière.

   Il Moore, che è accompagnato dall’ottavo duca di Hamilton, Douglas, si mostra  critico sulla “Montagna Spaccata” di Gaeta, dove ai visitatori  “immediatamente viene mostrata una grande fenditura in una roccia come la cosa più notevole del posto, e viene detto che essa fu tagliata miracolosamente in questo modo alla morte di nostro Signore. Allo stesso modo viene ad essi mostrata sulla stessa roccia qualcosa come l’impronta di una mano, con il seguente racconto…Nulla è più ingiurioso per la Verità che cercare di giustificare questa leggenda…Certo noi sappiamo dal Nuovo Testamento che le montagne si aprirono alla morte di nostro Signore; ma, poiché nessuna di esse vi viene nominata, è presuntuoso immaginare che ad aprirsi siano state proprio quelle che vediamo divise in due parti”.

   Nel 1813 l’inglese John Chetwode Eustace (1762-1815), prete cattolico ed antiquario, aveva pubblicato a Londra “A Tour through  Italy…, viaggio fatto nel 1802. Egli, per andare dall’Urbe a Napoli, percorse l’Appia, descrivendo le città di Terracina, di Fondi, di Mola di Gaeta e di Minturno. Eustace espresse uno scetticismo sulla cosiddetta “tomba di Cicerone”. …La cosa più bella e importante bella e importante che si vede dalla città di Mola è la fortezza di Gaeta, che sormonta un promontorio roccioso dai bianchi tornanti…s’incontrano diverse resistenze per procurarsi il permesso d’ingresso, poi, essendo stati riconosciuti come Inglesi, ci fu consentito d’entrare, fummo condotti dal governatore, fummo accolti da lui gentilmente, e finalmente potemmo visitare la fortezza in ogni sua parte senza ulteriori problemi”.

   Il nobile britannico James Fall in “Memories of My Lord Drumlangrig’s and his brother Lord William’s Travels Abroad for the space of three years beginning September 13 th 1680”, Edimburgo, 1931, così descrive Gaeta: “andammo in barca per il Mediterraneo per vedere Gaeta, fortezza che appartiene al re di Spagna. Nel castello ci fecero vedere il corpo del duca di Borbone, dritto, con gli abiti che aveva quando fu   Sul finire del XVII secolo, precisamente nel 1688, lo scrittore francese  François-Maximilien Misson (1650?-1721), Consigliere al Parlamento di Parigi, scrisse “Nouveau Voyage d’Italie”, edito nel 1691 a La  Haye, opera in tre volumi, in forma epistolare. 

   Per capire la rilevanza del libro, la guida più “classica”, presa come riferimento da Goethe e da Montesquieu, basta ricordare la disperazione del de Brosses, quando la polizia dello Stato Pontificio glielo sequestrò. Questa guida della Penisola, di un’Italia dei bei paesaggi, delle rovine e degli aranci, conobbe una fortuna europea, con numerose edizioni, e fu la precorritrice del Baedeker o del Joanne. Essa è in realtà un libello anticattolico, ricco di pregiudizi anticlericali, antipapista, dei più efficaci, un antipellegrinaggio che inventaria fino allo smarrimento le prove della superstizione popolare incoraggiata dalle élites. La scrittura del viaggio, allora, mette la religione alla prova. Lungi dal verificare la pertinenza di un luogo, essa si studia  di sciogliere  i legami fallaci che incatenano le coscienze.  

   Frank Lestringant dell’Università di Parigi-Sorbona (Parigi IV), che continua i suoi lavori sugli ugonotti viaggiatori, in una conferenza del 6 febbraio 2001, dal titolo “Un protestant en Italie: François-Maximilien Misson”, tratta di un autore che fu il “Baedeker” del XVIII secolo per l’Italia dei viaggiatori francesi, ma anche di quelli europei, poiché il suo libro fu pubblicato da Henry van Bulderen e tradotto in diverse lingue. Il paradosso è che questa opera, il capolavoro del Misson, destinata ai viaggiatori nell’Italia cattolica, fu redatta da un protestante ferocemente ostile alla Chiesa di Roma. Figlio di un pastore della cittadina di Sainte-Mère-Eglise in Normandia, Misson si destinava alla dignità di pastore e fece gli studi a Ginevra. La Revoca dell’Editto di Nantes, ad opera di Luigi XIV, nel 1685, lo esiliò in Inghilterra, dove rinunciò a una carriera ecclesiastica e dove divenne il precettore di un giovane aristocratico britannico, il conte d’Arran, un’isola montuosa presso la costa scozzese, sul fiume Clyde, con cui viaggiò per tre anni attraverso l’Europa. Le lettere inviate  nel corso di questo “Grand Tour” sono la materia riscritta del “Nouveau  Voyage”. Si conosce meno il seguito della vita di Misson. Fu strettamente immischiato, nei primi anni del XVIII secolo (1707-1708), nella confessione dei Profeti: questi ugonotti venuti dalle Cevenne a Londra predicavano l’Apocalisse imminente. Essi furono tradotti davanti alla giustizia e condannati. Misson prese la difesa di quegli esaltati, quasi analfabeti, nel “Theatre sacré des Cévennes”, in cui forniva un incartamento dell’affare ispirato ad una dottrina. Screditato, l’ugonotto Misson morì nella miseria e nella disperazione, nel 1721.

   Questi ultimi anni rischiarano di una luce nuova la sua vivace guida d’Italia, che inizia in Olanda con l’evocazione dei Rifugio ugonotto intorno alla personalità assente-presente di Pierre Bayle, il filosofo francese, morto a Rotterdam, capo dei “Nuovi scettici”, che riconosceva nel mondo l’esistenza di un principio del male in lotta con quello del bene. Lo scetticismo bayliano ispira la critica delle superstizioni cattoliche, di cui il “Nouveau Voyage” tiene il registro. Nella sua prefazione, Misson insiste sull’originalità della lettera per esprimere il viaggio: discontinuità del racconto, “stile libero e familiare”, stile digressivo (che consente le digressioni), discorso che ricusa la “descrizione”, procedimento retorico abituale che esaurisce l’argomento. Si tratta di “rimettere sul tappeto” con una funzione nuova dello sguardo quello che gli altri viaggiatori hanno detto. Egli esalta la “diversità” e il rifiuto del catalogo convenzionale della letteratura viatica-opere d’arte antiche, belle arti, ecc.. Misson non si priva neanche di criticare l’Italia e gli Italiani, di cui denuncia le imposture (sgonfiare il pallone gonfiato). La sua critica del cattolicesimo prende la forma di una messa in parallelo con il paganesimo antico, di cui la Chiesa “romana” sarebbe la replica; la “favola” ecclesiastica non è che falsa credenza e superstizione: la Papessa Giovanna, le catacombe (poco  o per niente cristiane). Lottando contro i “pregiudizi”, Misson prende delle posizioni che si vanno a ritrovare nella disputa degli antichi e dei moderni. Egli è evidentemente “moderno”. Prende la difesa tattica dei quietisti, i cui seguaci predicavano il fiducioso abbandono mistico, l’intima fusione del cristiano con Dio, condannando l’intolleranza dei cattolici. Misson non esita neppure ad attaccare i viaggiatori anteriori – tattica classica – il cui archetipo è il mentitore Marco Polo, ma prova a giudicare razionalmente quando interviene il meraviglioso. Se l’inganno non è provato, occorre lasciare il proprio spirito in sospeso (le resurrezioni). Come nel proponimento del “Theatre sacré des Cévennes”, occorre accontentarsi dei “fatti ingenuamente raccontati” e “giuridicamente attestati”.

    A Gaeta il Misson visitò la tomba di Carlo di Borbone, Conestabile di Francia; il mausoleo di Lucio Munazio Planco; la cattedrale di S. Erasmo, la cui torre sarebbe stata fatta costruire dall’imperatore Federico Barbarossa, per penitenza dei suoi peccati, dove gli fu mostrato il celebre candelabro per il cero pasquale, il vaso dionisiaco in marmo di Paro, dell’ateniese Salpione, opera finissima d’arte neo-attica, e la statua di marmo di un vegliardo, che dovrebbe rappresentare Esculapio, il dio della medicina; la   “montagna spaccata”, di cui ricordò la leggenda, secondo la quale questa si fendette alla morte di Gesù sulla croce; il convento della  Trinità.

   Il poeta inglese Joseph Addison sul fenomeno della fenditura della roccia, che lasciò perplessi i più eminenti geologi mondiali, lasciò scritto in “Remarks on Several Parts of Italy” (Osservazioni su alcune parti d’Italia) , London, 1705: “le leggi naturali, fisiche, geologiche rimangono sospese. Le fratture di questa rupe non sono il prodotto di  terremoto ordinario, che ne avrebbe separati i diversi strati seguendo le vene che li distinguono e spezzando i  loro legami nei punti più deboli. Qui è tutt’altro. Il masso è diviso diagonalmente, e non sono i punti più deboli, quelli aperti: la violenza maggiore è nei punti più vivi e consistenti”. Molte pagine del volume contengono tratti di vita vissuta cogliendo lo spirito, i costumi degli abitanti. 

   Michel Guyot de Merville in “Voyage historique d’Italie”, pubblicato a La Haye, nel 1729, in forma epistolare, descrive la campagna di Mola disseminata di aranci e di limoni, che fanno sembrare il tratto di strada fino a Gaeta come un’ “aiuola”. L’autore  francese deve aver letto il libro dei connazionali de Rogissart e di Havard, che consideravano la zona un vero e proprio Eden. Per Guyot de Merville, nessuna passeggiata o altro poteva appressarsi alla bellezza di questa strada. “Se i caratteri degli abitanti corrispondessero alla bellezza dei paesi, questo sarebbe il luogo più delizioso del mondo, e potremmo considerarlo come il vero paese di cuccagna”, così si esprime lo scrittore e commediografo francese, che soggiornò a Gaeta per circa tre mesi, nella primavera del 1720.
   In questa opera egli fa un’accurata relazione sul governo, sui costumi, sulle feste civili e religiose, sugli spettacoli e sulle curiosità delle città visitate. Il critico e filologo pisano Alessandro D’Ancona riporta questo “lavoro” come anonimo, ma un’antica nota manoscritta ai risguardi l’attribuisce al Guyot de Merville, calvinista ginevrino, che ne fu anche l’editore. Il libro di Michel Guyot de Merville, persona dotata di una fantasia incandescente, è seminato di un buon numero di buoni componimenti fuggevoli di poesia e di pasquinate ingegnose, da uomo di teatro, che hanno rapporto con la storia del tempo. 

   Il primo presidente del Parlamento di Digione, Charles de Brosses (niente a che vedere con il filetto di manzo ai ferri), che intraprese il viaggio tra il 1739 e il 1740, rivela in “Lettres familières écrites d’Italie en 1739-40” che, essendo nervoso per il comportamento dei doganieri e di un cardinale, una volta cameriere, che si era impossessato, a viva forza, di tutti i cavalli di sosta, se ne andò in barca a Gaeta pernottandovi e ammirandone le fortificazioni e il  porto. 

  Carles de Brosses (1709-1777),  indipendente e frondista, dunque votato all’esilio, Mola di Gaeta è un “paeze (sic!) di Dio  habitato da diavoli”. Similmente agli antichi abitatori, i Lestrigoni, i doganieri mettono a soqquadro i bagagli e Fini, cardinale spogliato, dopo aver pagato 40 carlini, si impadronisce dei cavalli, per cui Charles se ne va in barca a Gaeta, distante circa tre leghe, munita di una notevole piazzaforte.

  Scorrendo le pagine di “Lettres familières écrites d’Italie en 1739-40”, tomo II, anno VII della Repubblica, opera postuma, uno dei più gustosi libri sull’Italia del Settecento, con osservazioni sotto forma epistolare, troviamo, da parte dell’autore, un’ammirazione viva, palpitante, di un Paese reale, saldamente unito sotto il segno dell’arte, della bellezza, della musica, utilizzando i cinque sensi per comprendere appieno l’Italia, per la quale la sua ammirazione si rinnova ad ogni attimo, stregato, com’era, dal  Bel  Paese.

   Sono pagine guizzanti per brio ed intelligenza quelle del magistrato, un erudito molto stimato dallo Stendhal, che lo considerava un mito come Mozart e Cimarosa nel campo musicale, allo stesso livello del Correggio in quello della pittura.  Fu de Brosses a fare del “Grand Tour”, prima di Winckelmann e di Goethe, più che un’indispensabile tappa alla formazione del perfetto gentiluomo, una prova iniziatica ed un rito di passaggio.  Per questo motivo, il suo diario, 58 tessere che formano il libro, rappresenterà, agli occhi di Beyle, un autentico archetipo esistenziale e un antidoto salutare contro la volgarità contemporanea.

   Questo francese, dalla solida formazione erudita, “savante”, tipica dell’alta magistratura transalpina, con una forte rete di relazioni, non ricercava tanto, come fine ultimo, la verità, ma il proprio diletto. Questa è, almeno, l’impressione che il de Brosses ci offre di sè a trent’anni, prima di diventare l’illustre “presidente”, all’epoca del suo celebre “tour” italiano, tra il 1739 e il 1740,  trentacinque anni dopo Addison. Da una decina d’anni  celebri filosofi, quali Montesquieu e Berkeley, avevano attraversato la penisola.  Lo sguardo che anima quest’uomo sensuale ed edonista appare vivo, spregiudicato, inquieto, curioso e mobilissimo, per cui il diario della sua esperienza ci regala un prezioso caleidoscopio di notizie e di immagini sulla vita italiana nel XVIII secolo, in un’Italia aristocratica, nel fiore della decadenza, ma ricca di una suprema gioia di vivere, tra belle donne, belle arti e belle note musicali.

   Egli, però, non disdegna di descrivere, come il 2 novembre 1739, all’amico Blancey lo squallore della campagna, deserta ed abbandonata. “non un marmo, non una casa, e non prendetevela con Romolo. Ho avuto torto di dare la colpa a lui nella mia lettera precedente; la terra è la più fertile del mondo, e produrrebbe tutto quello che uno volesse, se fosse coltivata. Mi direte: e perché non lo è? Vi si risponderà: a causa dell’insalubrità dell’aria che fa morire tutti quelli che vi vengono ad abitare” in sparsi tuguri. Della via Appia, però, diceva che era il “più grande, più bello e pregevole monumento che ci resti dell’antichità”, opera “al di sopra di tutti quelli fatti dai Romani, o da altre antiche civiltà”.    

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