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GARIBALDI FU FERITO…di Vincenzo Giannone (Aspromonte – 1862)

Posted by on Mag 2, 2023

GARIBALDI FU FERITO…di Vincenzo Giannone (Aspromonte – 1862)

 

Che cosa accadde sull’Aspromonte nel 1862?

Per conquistare Roma, Garibaldi aveva deciso di ripetere “l’impresa dei Mille” contro il parere del Governo, di Vittorio e di Napoleone III. Quando nel giugno del 1862 giunse a Palermo, tenne un discorso alla folla dei palermitani nel Foro Italico. Il giorno dopo, tutti i giornali furono sequestrati e il testo integrale del discorso non fu pubblicato. Tra le altre cose, Garibaldi aveva detto:

L’Italia bisogna domandare al padrone della Francia [Napoleone III], all’uomo del 2 dicembre, a colui che si è macchiato del sangue del popolo di Parigi bisogna domandare che sgombri Roma. Perché lui occupa Roma indebitamente. Non è vero che stia lì per proteggere il santo Padre, il cattolicismo, le religioni di Cristo. Menzogna, menzogna, è lì perché è un tiranno. Perocché vuole contentare la sua libidine di dominio, per fomentarci il brigantaggio, per essere in una parola il capo (qui lo scoppio degli applausi impedisce di sentire due o tre altre parole del Generale). A lui dunque che è il principale autore della sciagura d’Italia, a lui dobbiamo dire che sgom­bri Roma, non con parole, non con proteste scritte, che bisogna parlare nello stesso modo che parlavano i Palermitani del Vespro […].

Però debbo prevenirvi che siccome il nostro governo non è forte abbastanza per farsi rispettare dall’uomo del due dicembre, bisogna che il con­tegno del popolo italiano sia eminentemente parte per gittare nella bilancia una diplomazia i nostri ferri bene arrotati…

Secondo Garibaldi, Napoleone III (che era stato l’artefice della nascita del Regno d’Italia) «era il principale autore della sciagura d’Italia!» Che dire?

Il 9 e il 10 marzo Garibaldi aveva presieduto a Genova un’assemblea dei rappresentanti delle Associazioni Liberali d’Italia. In quell’occasione fu deciso di istruire il popolo alle armi per prendere Roma e Venezia. Narra il deputato Celestino Bianchi:

La mattina del 9 marzo tutte le strade che avvicinano il teatro Paganini in Genova erano imbandierate a festa, ed una folla immensa di cittadini stava gremita sui balconi delle case e per le vie, attendendo il passaggio di Garibaldi, che doveva recarsi all’adunanza dei Comitati di Provvedimento. […] Trecento rappresentanti erano intervenuti a quell’ assemblea e le più cospicue notabilità della sinistra parlamentare vi avevano preso posto; Mordini, Crispi, Campanella, Montanelli, Cuneo, Brofferio, Saffi, Guerrazzi, Corte, Cedolini, Dolfi […].

Garibaldi prese la parola, il suo discorso fu vivo e pieno di fuoco. Egli dimostrò la necessità di armare l’intera nazione senza indugio, ed espresse il suo contento di trovarsi in mezzo ad una assemblea il cui scopo fosse principalmente l’armamento del popolo, solo mezzo con cui si potesse sperare l’acquisto di Roma e di Venezia…

Il ministro Rattazzi, per un impegno assunto con l’imperatore, pur volendo, non avrebbe potuto sostenerlo in quella impresa. Alle interpellanze del governo, Napoleone aveva risposto: «Siate padroni in casa vostra: il governo francese s’umilierebbe cedendo ad un ribelle». Il 3 agosto, rispondendo all’interpellanza del deputato Giuseppe Ferrari, Rattazzi dichiarava:

… Io più d’ogni altro sono disposto a riconoscere e riconosco i servigi importantissimi che ha prestato quell’egregio cittadino all’Italia… [Garibaldi] appunto per questo egli deve essere il primo, il più di ogni altro geloso dell’osservanza della legge, poiché quanto più gran de è un uomo, quanto più gran di sono i servigi che egli ha prestato al paese, tan to più egli ha l’obbligo di dar e l’alto esempio di rispettare le leggi e le istituzioni che ci reggono. (Segni di assenso). Or dunque, se il generale Garibaldi esce dalla legalità; se il generale Garibaldi vuole arrogar si il diritto d’istituir e un esercito, e la facoltà di parlare in nome della nazione, e vuole coi suoi atti compromettere le sorti del paese, o signori, allor a anche il generale Garibaldi rientra nelle condizioni comuni, ed egli è soggetto al pari di ogni altro alle disposizioni della legge. (Bene! Bravo!).

Rivelatrici sono le valutazioni del deputato Bianchi il quale ricostruendo gli antefatti d’Aspromonte scrisse:

Il dipingere con neri colori, più di quello che fosse in realtà, lo stato del paese, poteva essere in certo modo dannoso, è vero, ma non lo era molto più il velare, il nascondere questa trista condizione? […]

Tanto dai ministeri antecedenti come da quello di Rattazzi erasi considerato in pratica il nuovo acquisto delle Due Sicilie, non come avvenuto di voto e per volontà di popolo, ma per atto di conquista; errore fatalissimo, perché sparse la diffidenza fra governanti e governati.

Ecco un’altra verità detta da un influente liberale del Regno d’Italia: il nuovo acquisto delle Due Sicilie era il risultato non di voto e per volontà di popolo ma per un atto di conquista.

Il 20 Giugno, Garibaldi era stato a Torino per parlare con Rattazzi e De Pretis, che avevano (si dice) tentato di convincerlo a rinunciare all’impresa… ma poco tempo dopo l’eroe partì da Genova per Palermo, dove (si narra) il prefetto e amico Giorgio Trivulzio Pallavicino era disposto ad aiutarlo.

Garibaldi giunse a Palermo il primo agosto, accolto festosamente dalla popolazione. Andò alla Ficuzza, l’antica cascina reale distante dalla città circa 43 km e vi stabilì una specie d’accampamento.

Intanto, Vittorio Emanuele per “scoraggiare” la spedizione (e giustificarsi pubblicamente) aveva pubblicato il seguente un proclama:

Italiani –

Nel momento in cui l’Europa rende omaggio al senno della nazione, e ne riconosce i dritti è doloroso al mio cuore che giovani inesperti, illusi, e dimentichi dei loro doveri, e delle gratitudini pei nostri migliori alleati facciano segno di guerra il nome di Roma, quel nome al quale intendono concordi i voti e gli sforzi comuni. Fedele allo Statuto da me giurato, tenni alta la bandiera dell’Italia fatta sacra dal sangue, e gloriosa dal valore dei miei popoli. Non segue questa bandiera chiunque viola le leggi, e manomette la libertà e la sicurezza della Patria, facendosi giudice de’ suoi destini. Italiani, Guardatevi dalle colpevoli impazienze, e dalla improvvida agitazione. Quando l’ora del compimento della grande opera sarà giunta, la voce del nostro Re si farà udire tra voi. Ogni appello che non è il suo è un appello alla ribellione, alla guerra civile; la responsabilità ed il rigore delle leggi cadranno su coloro che non ascolteranno le mie parole. Re acclamato dalla nazione conosco i miei doveri, e saprò conservare integra la dignità della Corona, e del Parlamento per avere il dritto di chiedere all’Europa intera giustizia per l’Italia. Torino 3 agosto 1862.

«Allorquando fu presentato a Garibaldi il proclama del Re scriveva il Diavoletto di Trieste il 12 agosto 1862 – lettolo attentamente e non senza qualche commozione, egli ebbe a dire: questo è un atto diplomatico [alias fatto apposta]». Difatti, sapendo che non era la vera espressione dei sentimenti di Vittorio Emanuele, Garibaldi ignorò il proclama così come aveva fatto del 1860, prima dello sbarco in Calabria nell’agosto, allorché, dopo aver letto la lettera del re (quella ufficiale e non quella privata e confidenziale) rispose di non volere e di non potere ritirarsi dalla via che aveva intrapresa.

A poche miglia da Palermo, al campo della Ficuzza Garibaldi radunò circa 4000 uomini. Il Prefetto Pallavicino diede le dimissioni e Rattazzi inviò a Palermo il generale Cugia con pieni poteri. Ciò nonostante, il 18 agosto Garibaldi era a Catania, padrone della città. Fu proclamato lo stato d’assedio e Cugia fu sostituito dai commissari straordinari Cialdini e La Marmora.

Il 24 agosto l’eroe dei due mondi partì da Catania sulle navi Abbattucci e Dispaccio con circa 3000 uomini; «ciascun soldato s’ebbe due pacchi di cartocci e cinque franchi in tanti pezzi da cinque centesimi: ciascun ufficiale cinquanta franchi dell’egual moneta». Quasi 1500 uomini rimasero a terra senza imbarco. Le due navi erano zeppe di uomini che «si urtavano, si calpestavano, passavano l’uno sull’altro. L’aria in sottocoperta era soffocante, gli abbaini del legno erano chiusi, perché il carico straordinario lo affondava nell’ac­qua fino alla loro altezza». Il giorno dopo sbarcò sulla spiaggia di Pietro-Falcone a due miglia da porto Melito. Terminato lo sbarco alle 11.00, i volontari si avviarono festosamente verso Reggio, dove l’aspettavano dieci piccoli battaglioni piemontesi, dei quali due di bersaglieri. Intanto, Cialdini era giunto a Messina il mattino del 27 con l’ordine di inseguire Garibaldi «senza dargli mai posa, se cercasse sfuggirli di attaccarlo, e distruggerlo se accettasse il combattimento. Prevedendo anche la possibilità di una completa vittoria, gli ordini erano di non venire a patti e di non accordar altro fuorché la resa a discrezione».

Dal sindaco di Melito, Garibaldi aveva avuto rassicurazioni che avrebbe trovato abbastanza viveri (come nell’agosto del 1860) … e i garibaldini passarono la notte digiuni a Santo Stefano. Il giorno seguente, dopo otto ore di marcia, i volontari giunsero a Reggio e sostarono fuori dell’abitato. Un gruppo di cittadini influenti andò incontro a Garibaldi per invitarlo a non entrare in città perché «l’atten­deva la milizia regolare di non meno di 7000 uomini» e lo convinsero a prendere la via dei monti, dove avrebbe avuto tutto ciò che gli occorreva. «Il Generale, di cui è nota la facile credulità – scriveva nel 1863 Francesco Zappert – non mise un istante in dubbio e le assicurazioni e le novelle de’ pseudo-deputati di Reggio». Narra Celestino Bianchi:

Il Generale Cialdini, recatosi in Reggio il giorno avanti allo sbarco di Garibaldi, aveva fatto radunare il Municipio, e gli aveva dichiarato, che nel caso probabile e forse imminente della venuta dei ribelli, doveva essere obbligo precipuo dei maggiorenti del paese di inculcare ai cittadini, sotto pena di sottostare al bombardamento, la più perfetta tranquillità ed un contegno passivo. Al Colonnello Emilio Pallavicini [genovese, da non confondere con Giorgio Pallavicino] aveva destinato un corpo di soldatesche col­l’obbligo d’operare energicamente contro i volontari, perseguirli senza posa, circondarli, costringerli a cedere e schiacciarli anche mediante un combattimento.

Il 28 mattina, dopo essere stato a Catania, Cialdini tornò a Reggio. Garibaldi, attaccato dal colon­nello Carchidio che fece circa 40 prigionieri, fuggì sull’Aspro­monte. Il colonnello Emilio Pallavicini si scontrò con la retroguardia dei garibaldini; duecento volontari furono fatti prigionieri e spediti a Reggio. I piemontesi riportarono otto feriti, quattro morti e dieci prigionieri, Garibaldi due feriti e un morto. Ciò nonostante, l’eroe invitto continuò la marcia verso la vetta dell’Aspromonte, inseguito da 1800 bersaglieri del Pallavicini. (Non tutti i volontari avevano potuto imbarcarsi e più di settecento rimasti a Catania erano stati fatti prigionieri.) I garibaldini erano stanchi, affamati, senza scarpe, senza cappotti, intirizziti dal freddo e dalla pioggia che cadeva a dirotto; alcuni avevano anche la febbre e al mattino seguente ne furono trovati 20 senza vita; «era un esercito disfatto prima della battaglia». Era finito il tempo dei miracoli, questa volta l’eroe “invitto” non aveva trovato ufficiali piemontesi compiacenti, disposti a cedere come i borbonici, e un comitato rivoluzionario pronto a sostenerlo come nell’agosto due anni prima. Cialdini aveva minacciato di bombardare Reggio e l’avrebbe fatto senza tanti complimenti… Era uomo di parola.

Dei 3000 volontari partiti con Garibaldi, n’erano rimasti circa 1500 e dopo quattro giorni di marcia giunsero a Santo Stefano il 28 agosto. Qui scoprirono che la guida li aveva ingannati ed era scomparsa. Alle tre di notte, mentre la pioggia cadeva ininterrottamente Garibaldi partì per raggiungere il piano detto Forestale d’Aspromonte, dove avrebbe dovuto trovare armi e viveri; ma non trovò nulla e nessuno venne in suo soccorso. L’eroe che con “mille uomini” aveva conquistato il regno delle Due Sicilie era stato abbandonato da tutti!

Il generale piemontese Pallavicini giunse a Santo Stefano alle 8 e mezzo del mattino. Per due scoscesi sentieri, divisi in due colonne, i soldati piemontesi giunsero contemporaneamente in vista dell’accampamento dei garibaldini, «posto sopra la cresta di un’erta collina, a levante del piano di Aspromonte». Una colonna ebbe l’ordine di attaccare di fronte, l’altra sul lato sinistro e alle spalle per impedire loro la ritirata. Garibaldi, sorpreso, disse al suo capo di Stato Maggiore: «Vedrete che non ci attaccheranno, non sono che manovre»; e diede l’ordine di non sparare, ma Pallavicini non agì come il generale borbonico Landi a Calatafimi che suonò la ritirata per favorire l’eroe, e senza alcuna esitazione attaccò l’accam­pamento dei volontari. Verso le ore 14.00, i garibaldini furono circondati da destra, da sinistra e alle spalle. Narra Bianchi:

I primi ad aprire il fuoco furono i bersaglieri, a cui rispose la brigata Corrao, composta tutta di siciliani, nuovi affatto ai combattimenti e che, vedendosi assaliti, si valsero delle loro armi come per naturale istinto di difesa. Il centro però del corpo dei volontari non sparò un tiro e lasciò che le milizie regolari si avanzassero a pochissima distanza dall’accampa­mento: questo esempio venne imitato anche dai garibaldini che avevano dapprincipio opposta resistenza, e che incerti e titubanti fra il dover battersi o no, non sapevano che cosa fare nel critico frangente in cui si trovavano, e cessarono ogni opposizione, dando così tempo alla truppa di circondarli.

Il fuoco durò circa un’ora. Ferito al piede destro «da una palla conica», Garibaldi ordinò di cessare il fuoco. Il mito dell’eroe invitto si era frantumato davanti a un gruppo di bersaglieri comandati da un ufficiale deciso a non sostenerlo in questa impresa. L’era dei miracoli di Garibaldi era finita! I bersaglieri riportarono 24 feriti e 5 morti; i garibaldini 7 morti e 22 feriti.

Nel rapporto inviato al Generale Cialdini, Pallavicini scrisse:

La colonna di sinistra col 6º battaglione bersaglieri in testa, e dopo vivo fuoco, prese la posizione alla baionetta alle grida di Viva il Re! Viva l’Italia! mentre il lato sinistro era pure attaccato dai nostri. Rimasto ferito il Generale Garibaldi e suo figlio Menotti, circondati da ogni lato i rivoltosi, ogni resistenza fu resa inutile; allora i garibaldini fecero segnale di cessare il fuoco […].

Non posso tacere che durante il primo attacco un’energica resistenza fu opposta dai nostri oppositori, né io ho potuto a meno di compiangere che quel valore fosse spiegato in opposizione al potere legittimamente costituito, e contrariamente all’interesse della patria.

Dopo aver chiesto il cessate il fuoco dei rivoltosi, il generale Pallavicini inviò a Garibaldi il capo di Stato Maggiore per intimargli la resa in nome del Re. «Questi irritato rispose che non si sarebbe arreso mai, e diede mano al suo revolver; ma trattenuto da suoi che lo circondavano ordinò che […] fosse disarmato e tenuto prigioniero». Ugual sorte era toccò al maggiore Giolitti ma per l’intervento di Nullo e Corte furono restituite le armi a entrambi gli ufficiali piemontesi e lasciati liberi. Allora Pallavicini si recò personalmente da Garibaldi per comunicargli che le istruzioni ricevute erano di «attaccare, battere il Garibaldi e farlo prigioniero». Nullo e Corte pregarono Pallavicini di «nascondere lo scontro avvenuto per celare all’Europa lo scandalo di una lotta civile» [o forse per nascondere la sconfitta di Garibaldi?] al che questi rispose che era «impossibile perché troppi erano i testimoni del fatto, e i feriti ne erano troppo chiara prova».

Il mattino seguente Garibaldi fu portato a Scilla per essere imbarcato sul Duca di Genova, mentre egli avrebbe voluto essere ospitato su una nave inglese. Durante il percorso si mantenne sempre silenzioso, ma quando vide gli abitanti di Scilla che l’osservavano durante il suo passaggio, disse loro: «Non riconoscete più il vostro Generale?» Narra Pallavicini: «Nessun grido seguì a tale domanda».

Quando il maggiore chiese ai rivoltosi perché avessero seguito Garibaldi dopo il proclama del re, molti risposero che non lo sapevano perché era stato tenuto loro nascosto; altri dissero di aver creduto che fosse tutto combinato col Governo; qualcun altro sostenne che «Garibaldi li aveva ingannati e che da due giorni si erano avvisti dell’inganno».

Due anni dopo l’accaduto, Massimo D’Azeglio scrisse all’amico Panizzi a Londra:

Io ho sempre amato e ammirato Garibaldi. Quando fu rotto a Cesenatico, trattavo la pace con l’Austria, e incaricai i Plenipotenziari di salvarlo potendo. Poi gli feci dare una pensione, che accettò per la madre e rifiutò per sé. Io penso con te ch’egli è una delle più elette nature che Iddio abbia create: ed altrettanto è amante della patria, ardito ed audace, di fondo onesto ed umano, generoso, schivo d’ogni cupidigia, ch’egli ha reso servigi eminenti, cacciato il Borbone, insomma per una che ne dici in sua lode io ne dirò cento. Ma dopo tutto questo permettimi d’aggiungere che nes­sun merito, nessun servigio dà diritto ad un cittadino di collocarsi al di sopra delle leggi del proprio paese, e violarle; e persistere nel giudicare questa violazione giusta e rispettabile. A nessuno è permesso costituirsi in permanenza arbitro della pace e della guerra, fautore di continui torbidi che espongono il paese a spese, a inquietudini e pericoli. Nessuno ha diritto col pretesto di tentar l’impossibile d’accendere fra i cittadini la guerra civile. L’ottimo Garibaldi, natura schietta e senza malizia, è stato, lo so, spinto dai birbi, che avean bisogno d’un capo audace e che non avesse paura come Mazzini. Per questo l’hanno inebriato d’incensi e d’adulazioni che avrebbero tolto il cervello al cavallo di bronzo, non che a lui. […] Dopo Aspromonte mi fecero l’onore di chiamarmi con altri nel Consiglio de’ Ministri, che doveva decidere la sorte di Garibaldi. Io dissi: Sottoporlo ad un giudizio come ogni cittadino. E dopo la condanna, grazia del Re immediata. Ma siccome nelle tasche della camicia rossa doveva essere rimasto un certo pezzo di carta, ec. ec. Si pensò meglio di dargli l’amnistia, ch’egli rifiutò, dicendo che avea fatto quel che dovea, ec. ec., e così finì.

«Ma siccome nelle tasche della camicia rossa doveva essere rimasto un certo pezzo di carta…», ossia c’era un biglietto scritto da Vittorio Emanuele, Garibaldi scampò all’arresto e fu graziato. Già dal 1859, Vittorio Emanuele aveva condotto all’infuori del Governo una sua politica personale e segreta con Garibaldi e Mazzini. Ora che Cavour era morto e che il nuovo ministro Rattazzi non era un ostacolo al pari di Cavour, Vittorio Emanuele si era nuovamente adoperato segretamente affinché la rivoluzione non si spegnesse e tornasse utile alla monarchia. Dando seguito alle spinte rivoluzionarie, mazziniane e unitarie, Vittorio Emanuele avrebbe acquisito una maggior gloria, una maggiore potenza e amore della parte rivoluzionaria del popolo, e Garibaldi era l’uomo utile all’attuazione dei suoi piani unitari intanto che Mazzini aveva rinunciato al principio repubblicano per il trionfo dell’unità nazionale. Nel 1880, l’ingegnere Demetrio Emilio Diamilla-Müller, così commentò la leggendaria popolarità acquisita da Garibaldi in quegli anni:

Le sue gesta felici da condottiere nella campagna del 1859 avevano accresciuta a fama di straordinario valore ch’egli aveva recato seco dalle lontane prove nelle guerre dell’America meridionale e cui non avevano scemata le sue sconfitte di Lombardia e di Roma del 1848 e 49. La mirabile spedizione nell’Italia meridionale, che con tanta facilità aveva spazzato via il trono borbonico, era venuta a dargli un’aureola di miracoloso presso il popolo, una confidenza e un’esaltazione di sé stesso, da fargli credere pos­sibile, giusto, assennato tutto quello ch’egli pensasse e che volesse; e torbidi ingegni o volontà irrequiete che gli si eran messi dintorno riuscivano troppo facilmente a persuadergli di volere quello che a loro piaceva. In lui stava rivolta l’attenzione universale, in lui la speranza di tutti, la sua parola era verbo di Messia; n’era offuscata la dignità regia, scemata l’autorità del governo costituito, egli s’atteggiava ad autorità indipendente, uguale alla monarchica, superiore alla costituzionale.

Scorreva le città esaltando i popoli, chiamandoli a nuove prove all’infuori dell’azione governativa, dichiarando e tentando l’armamento delle tur­be, acclamato, portato in trionfo, salutato salvatore d’Italia e quasi diremmo semidio. La monarchia cominciava a diffidarne, ne impermaliva, lo temeva, ma non avendo né forza né coraggio da rimetterlo a posto, lo accarezzava; i repubblicani speravano poterlo far agire a loro vantaggio, e Mazzini confidava che per lui sarebbe avvenuto il trionfo della rivoluzione e la costituzione nuova dell’Italia col popolo e pel popolo. Egli, minore della sua popolarità, al disotto della strepitosa grandezza della sua fama, non doveva esser nulla né per gli uni, né per gli altri, né per sé stesso, che pure pretendeva far tutta una parte da sé, e non voleva consentire a questi né a quelli.[1]


[1] Estratto da: VINCENZO GIANNONE, La Garibaldite, Aleliographic editore, Scafati 2020.

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