Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Giovanni Vico

Posted by on Gen 12, 2022

Giovanni Vico

Ignoto eroe siracusano che, per trovarsi dalla parte “sbagliata”, pagò con la vita il suo tentativo di risparmiare a Siracusa la tragedia del 1837

Tra i tanti eroi sconosciuti perché vittime del colpe­vole oblio cui vengono relegati dalla sistematica distor­sione della verità che da sempre viene praticata nel mondo (la parte (lei vincitori nei confronti (lei vinti, merita pienamente di essere collocato il siracusano cavaliere Giovanni Vico, “gentil persona, zelante del suo mini­stero, e perciò rispettato dai buoni, temuto e non amata dai cattivi”.

La storia della vita di questo eroe possiamo com­pendiarla nei fatti luttuosi e tuttora per nulla chiariti dell’estate del 1837, quando Siracusa insorse contro la tirannide del Borbone, ritenuto, in quell’occasione a torto, e forse anche in virtù di una macchinazione poco limpida (se non francamente infame), la causa del colera che, per la prima volta nella storia, colpiva la Sicilia.

Essendo allora il Vico commissario di polizia, e quindi rappresentante del governo borbonico, nulla ci dicono gli storici liberali della sua vita: purtroppo per lui, stava dalla parte “sbagliata”. Cercherò dunque di perorare la sua causa analizzando gli ultimi giorni del­la sua vita, un periodo sicuramente molto breve ma più che sufficiente a dimostrare i suoi altissimi meriti.

Sembra ormai definitivamente assodato che alcuni liberali siciliani (e quindi anche siracusani), in buona o in cattiva fede, avessero scelto l’idea di sollevare il popolo alla rivolta, facendogli credere che il colera altro non fosse che un veleno somministrato dai funzionari e dagli impiegati borbonici per ordine del re Ferdinando II.

A Siracusa, in quel tempo, l’avvocato Mario Ador­no e il sindaco barone Pancali, pur tra gravi disaccordi personali, ebbero l’onore e l’onere di dirigere il partito liberale: troppo focoso il primo, più riflessivo e pru­dente il secondo.

Col moltiplicarsi delle morti per colera (veleno del governo, secondo l’altra “verità”), il popolo comincia­va a perdere la testa ed era pronto ad esplodere alla

prima scintilla.

In quella situazione estremamente ingarbugliata e pericolosa, mentre alcuni soffiavano sul fuoco e altri si barcamenavano o addirittura scappavano, il commissario Vico fu probabilmente il solo a dimostrare senso di responsabilità e chiarezza di comportamento: stette al suo posto e fece fino in fondo il proprio dove­re; rifiutò le ambiguità che venivano praticate un po’ da tutti, borbonici e liberali; contrastò coraggiosamente i pregiudizi e le menzogne che perturbavano l’ordine pubblico, cercando in ogni modo di prevenire quegli “atti ferini” che erano ormai nell’aria e che purtroppo, partendo dal suo assassinio, finirono puntualmente col verificarsi.

Il 14 luglio operò un’irruzione in casa (lei sindaco, nel tentativo, fallito, di sorprendere i congiurati. II

Pancali se ne lamentò presso la massima autorità pro­vinciale, il barone Vaccaro, che svolgeva provvisoria­mente le funzioni di intendente del Val di Siracusa, e questi, pilatescamente. rimproverò il Vico per il suo eccesso di zelo. I1 15 si registrarono i primi tumulti e il 16 i ricchi e le autorità cominciarono a fuggire, ab­bandonando il popolo ignorante e superstizioso alla mercé del contagio reale o dell’avvelenamento presunto operato da fantomatici quanto perversi “untori”.

Tentando di arginare la marea montante, il 17 il Vico, sfidando la collera popolare, e cercando di far preva­lere la ragione, costrinse i gendarmi a rilasciare un montanaro di Buccheri che era stato arrestato come primo presunto avvelenatore. Credo che gli si debba attribuire il mandato di cattura nei confronti dell’av­vocato Adorno, data l’assenza dei suoi superiore che erano già fuggiti o lo stavano facendo, e la paura e l’ambiguità (lei pochi rimasti.

Arriviamo ora al fatale 18 luglio, data d’inizio della disgraziata sommossa e, purtroppo, degli efferati mas­sacri di parecchi innocenti, primo fra tutti Giovanni Vico.

Quel giorno piazza Duomo si era trasformata in una bolgia infernale: alcuni presunti avvelenatori erano stati catturati dal popolo inferocito ed erano stati lega­ti ai pilieri, davanti alla cattedrale. Saputo il fatto, l’im­pavido commissario si recò sul posto e, vedendo che il popolo inveiva pericolosamente contro i malcapitati, intervenne con l’intenzione di richiamare tutti alla ragione, di liberare quei poveri innocenti e di impedire, in ultima analisi, lo scatenarsi della pazzia collettiva che era già nell’aria. Forse qualche liberale temette che quell’intervento potesse mandare in fumo la rivolta che maldestramente si tentava di far scoppiare già da alcuni giorni.

Rimasto solo e serrato sempre più dai più facinoro­si, fu prima dileggiato e strattonato e poi colpito alla testa con un bastone: cercò di allontanarsi ma qualcu­no gli lanciò una fune tra i piedi facendolo stramazzare; gli venne inferta una coltellata a un fianco e fu quindi legato al piliere sotto la statua di san Pietro; finalmente fu ucciso con un colpo d’archibugio sparato da un calzolaio. In tal modo veniva instaurato un macabro rituale che si sarebbe ripetuto subito dopo nei confronti dei quattro malcapitati che il Vico aveva inutilmente tenta­to di salvare, e, successivamente (la tanti altri innocenti accusati dell’inesistente veneficio. L’ultimo atto (lei barbaro spettacolo si sarebbe registrato, nello stesso luogo ed esattamente a un mese di distanza, con la fucilazione di Ilario_ Adorno, ritenuto dai borbonici, a torto o a ra­gione, il principale responsabile della sommossa, del figlio Carmelo e del calzolaio che aveva sparato al Vico.

Non sappiamo se il commissario, in punto di morte. abbia pronunciato qualche frase famosa, di quelle che in casi (lei genere vengono fatte passare alla storia: gli storici liberali, quelli della parte “giusta”, non ne hanno registrate.

Nel giro di poche ore, con la splendida facciata del Duomo a far da scenario ad un raccapricciante palcoscenico di terrore e di morte, venivano massacrati l’intendente Andrea Vaccaro messinese, e l’ispettore di polizia Antonino Li Greci col figlio maggiore Francesco percettore delle imposte, entrambi siracusani: essendo rappresentanti del potere borbonico, come il Vico, sono stati finora considerati figli di un dio minore e quindi non meritevoli della minima attenzione. Altri innocenti presunti avvelenatori furono successivamente trucidati in erodo più o meno spontaneo, mentre i capi liberali, ai quali sicuramente la situazione era sfuggita di mano, si baloccavano ricercando gli inesistenti veleni tra gli oggetti sequestrati ai presunti avvelenatori, e intavolando un “regolare” quanto “brillante” processo a loro carico.

La ricerca dei veleni ebbe buon esito una sola volta. il 21 luglio (anche se oggi sappiamo che si fece ricorso a un trucco). Il processo non arrivò alla sua normale conclusione perché fu interrotto bruscamente per una causa che si potrebbe definire di forza maggiore: infatti tutti gli innocenti detenuti in attesa di giudizio, comprese le mogli e i figli di alcuni “sbirri”, furono “spontaneamente” prelevati dal carcere e ferocemente massacrati dal “popolo bruto” e naturalmente anonimo, appena qualche giorno prima dell’arrivo (lei marchese Del Carretto il quale dagli stessi “sperava trarre utili rivelazioni”. E forse ne avrebbe sentite di belle!

In ogni caso, tanto per non sbagliare, il marchese, appena arrivato a Siracusa, cominciò a bastonare spietatamente a destra e a manca, aggiungendo sconsideratamente danno al danno.

Tuttavia bisogna dire che la sua feroce e sproporzionata repressione diventa assurda e incomprensibile se si minimizzano, si travisano o addirittura si tacciono gli avvenimenti che la precedettero. Ma la verità va sempre ricercata, anche quando si sospetta che possa essere sgradevole.

In chiusura mi premetto di formulare la richiesta di erigere un piccolo monumento anche alla memoria dello sconosciuto eroe siracusano cavalier commissario Giovanni Vico, che, anche se stava dalla parte “sbagliata”, si adoperò fino all’estremo sacrificio nel tentativo, purtroppo vano, di evitare alla sua città la tragedia di quella calda e torbida estate del 1837.

Corrado Appolloni

Marchese F. S. Del Carretto. (Da una stampa del 1850).
Le colonne di granito egiziane alle quali furono legate e giustizia­te decine di innocenti nell’estate 1737. Sono quasi certamente quelle abbandonate fra l’erba alta (nel giardino della comunità Rinascita di Villa Ortisi
Ferdinando II

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.