GIUSEPPE GARIBALDI, QUESTO SCONOSCIUTO!
Un po’ di luce sull’omertà degli storici
Recenti trasmissioni apparse sulla televisione di stato, forse sull’onda neorisorgimentale perseguita dal Presidente Ciampi, hanno riportato in auge, per esempio con Piero Angela, tutto quanto di più stucchevole, oleografico, falso, propagandistico ruota intorno a Garibaldi, attingendo e diffondendo la più trita congerie di luoghi comuni lontana dal vero quanto può esserlo la leggenda dalla storia.
E l’offensiva e’ continuata ultimamente con la presentazione di Luigia di Sanfelice, in una scontata ed ormai condannata dalla storia, apologia del giacobinismo che sulla punta delle sciabole e delle baionette, portò in tutta europa, a spasso, quella dea assetata di sangue che fu chiamata libertà e che assieme ad eguaglianza e fraternità seminò le nostre terre di lutti e rovine.
E mentre in tutto il mondo storico si riapre il discorso sulle insorgenze, Vandea, Le Pasque Veronesi del 1797, i viva maria in toscana, le insorgenze ferraresi del 1799 e del 1802-1809, il sanfedismo nel 1799, la nostra televisione di stato ancora ciancia di Luigie e di Eleonore.
E fossero solo quelle!
Su uno dei più tragici periodi della storia d’Italia, il Risorgimento, la storiografia ufficiale (quella scritta dai vincitori, per intenderci) non ha mai accettato critiche o controprove e da circa 140 anni a questa parte ha diffuso su di esso un giudizio a senso unico, che ancora oggi troviamo riportato sui testi di storia adottati nelle scuole.
Ma da un, po’ di tempo a questa parte qualcosa sta cambiando.
Alcuni storici, infatti, spregiativamente chiamati revisionisti, adottando un metodo di indagine serio, pacato ed equilibrato, stanno mostrando l’altra faccia della medaglia di tanti avvenimenti storici, smascherando menzogne e sfatando molti miti, e fra questi quelli creati nel periodo risorgimentale. Considerando che, come dice Roberto de Mattei (nella presentazione a “Nova Historica”) il revisionismo, fin dai tempi di Erodoto e di Tucidide, è il serio tentativo di ogni storico di rileggere il passato, nel senso di verificare e nel caso di correggere ed aggiornare le ricostruzioni. Bisogna naturalmente fare attenzione e capire che chi si propone per principio di rivendicare le ragioni dei vinti contro quelle dei vincitori rischia di far propria, capovolgendone la direzione, la faziosità degli avversari.
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Stasera parleremo della figura di Giuseppe Garibaldi, uno dei cosiddetti padri della Patria e presunto eroe dei due mondi.
Scherza coi fanti e lascia stare i santi.
A Garibaldi mancò poco che non fosse santificato, anzi per il popolo italiano, per molto tempo santo lo fu senz’altro. E per questo di Garibaldi non si poteva dir male, e neanche scherzarci su.
La sua aura semidivina lo proteggeva e proteggeva anche quelli che erano in contatto con lui: Bixio, Anita, Tukory, il suo cavallo che per definizione era bianco, cioè il cavallo dei buoni.
Non esiste nell’immaginario collettivo italiano persona più fulgidamente eroica, disinteressata, pura, santa, di Garibaldi.
Ma così come il Manzoni a posteriori si chiede di Napoleone se la sua fu vera gloria, oggi alcuni storici, o storiografi, o giornalisti se lo chiedono per Garibaldi.
E spulciando le carte, i documenti, quanto è stato già scritto, i monumenti all’Eroe dei due mondi disseminati nelle varie città d’Italia cominciano a diventare cenotafi vuoti non solo del cadavere ma anche della gloria. Forse un giorno ci si chiederà a quale ubriacatura collettiva si deve l’innalzamento agli altari di un personaggio che molte volte non fu né santo né eroe, né coraggioso né condottiero, anzi se non fosse Garibaldi, alcune volte il suo comportamento sarebbe stato definito da pusillanime.
Quello che la Resistenza è per la sinistra, ed il Risorgimento per i filo Sabaudi, Garibaldi lo è stato per il popolo italiano: il Mito con la maiuscola.
E guai a metterlo in discussione.
Forse per sempre.
Egli essenzialmente fu un mito costruito, un’icona riuscita con quelle immagini da balletto Excelsior, che non tiene conto di alcuni aspetti che gli storici revisionisti stanno mettendo in luce, aspetti che appannano la luce e la purezza dell’Eroe…..
Se mi si consente l’anacronismo, antico epigone di Che Guevara, non ebbe di questo l’aspetto affascinante né la morte prematura
Mai parlar male di Garibaldi, dicevamo; Modello di eroismo e generosità, disinteresse e altruismo. Conquistò un regno e si ritirò a Caprera.
Con mille uomini vinse un esercito di 25.000. Per tutta la vita combatté per gli oppressi. Sempre raffigurato biondo e a cavallo, “con la camicia rossa e i pantalon turchin”, come dice l’Inno a lui dedicato.
Ogni suo gesto era “sacro”, come quando, in un vagone ferroviario circondato da ammiratori, dovette fare pipì: “Celatosi per un momento, ricomparve in mezzo a tutti, calmo e bonario”, riportò un giornale.
Le lapidi e le vie a lui dedicate sono migliaia. Ogni sua azione, anche se banale entrava nella storia. Disse cose memorabili anche in momenti in cui ogni mortale, avrebbe ritenuto non fossero adatti per dire frasi storiche; e la sua biografia è infarcita di slogan tipo “Obbedisco”, “Nino qui si fa l’Italia o si muore” “O Roma o morte”.
La cosa che di più impressiona è in quanti posti ha dormito, mangiato, lanciato proclami.
Non credo esista paese o città in Italia, ove non vi sia almeno una lapide che certifichi “Garibaldi ha dormito qui” o “da questo balcone l’eroe dei due mondi lanciò il fatidico grido “O Roma o morte”.”
La storia, come sempre scritta dai vincitori, ci ha consegnato questo cliché oleografico, utile per la retorica risorgimentale, ma inautentico e artefatto. Che alcune opere revisioniste hanno messo in dubbio.
Ma non capovolto.
In un paese di briganti romantici come l’Italia, figure come quella di Garibaldi non possono che entusiasmare. Così come entusiasma la figura di Anita, che Garibaldi vide dalla nave mentre lavorava sul molo, seguì sino alla sua casa e strappò al marito: “Vidi quella giovane. Tu sarai mia!”. La legge del contrappasso rimetterà le cose a posto: nel 1860 Garibaldi era fidanzato con una giovane comasca. Cadendo da cavallo s’era fratturato una gamba ed era costretto al letto, non immobile, dato che Giuseppina andava a confortarlo: “Non potevo trovare luogo più adatto per curare la ferita”. Ma dovette rinunciare alle nozze, perché la ragazza era incinta. Non di lui, ma per fortuna di un garibaldino, sempre in famiglia, comunque.
Meglio allora partire per le Due Sicilie.
I 1056 uomini che lo accompagnarono erano, come sempre succede in questi casi, una mescolanza di eroi e di mariuoli. Basterebbe pensare al colonnello Nino Bixio, che si rese responsabile della morte, di 700 siciliani, oltre che con fucilazioni di massa, anche per sua mano.
Vediamo ora di capire le ragioni del mito Garibaldi attingendo a varie pubblicazioni: Francesco Pappalardo con “Il mito di Garibaldi”, Nello Borsellino, con “Garibaldi e i mille …guai”, Lorenzo del Boca con “Maledetti Savoia”, con Indro Montanelli “Garibaldi”, con Angela Pellicciari “I panni sporchi dei Mille” e poi con Dennis Mack Smith, con Jasper Ridley, con Dumas, Giuseppe Cesare Abba, ancora Montanelli con “Figure e Figuri del Risorgimento” etc. articoli vari di Granzotto, Montanelli, Socci, Pasinetti, Feltri, etc.
La formazione giovanile di Garibaldi
Giuseppe Maria Garibaldi, il cui nome è legato come un’icona a una lunga serie di vicende della nostra storia — non solo le sue imprese personali, ma anche quelle animate da spirito garibaldino, come Domokos, in Grecia, nel 1897, le Argonne, in Francia, nel 1914-1915, la Resistenza e le elezioni politiche italiane del 1948 —, è senza dubbio uno dei pochi personaggi a essere stato oggetto insieme dei miti del Risorgimento e dei miti sul Risorgimento. Infatti, la sua fama non soltanto ha rappresentato un fattore coagulante della Rivoluzione italiana, il cosiddetto Risorgimento, ma è anche utilizzata tuttora per accreditarne il preteso carattere popolare, essendo convinzione diffusa che a lui si debba «la più autentica partecipazione di popolo alla costruzione dell’unità nazionale», come scrisse il Presidente Sandro Pertini nel suo messaggio alle Camere, il 2 giugno 1982.
Garibaldi nasce il 4 luglio 1807 a Nizza — città del Regno di Sardegna, ma in quel periodo capoluogo del dipartimento delle Alpi Marittime dell’Impero Francese di Napoleone Bonaparte.
Il padre, capitano marittimo di seconda classe, lo avvia all’attività marinara, probabilmente la più adatta al suo temperamento romantico, incline ai viaggi e alle fantasticherie. La madre, molto devota, desidera vederlo consacrato al sacerdozio e dunque la sua educazione viene affidata a tre precettori, due dei quali ecclesiastici: «I miei primi maestri — scrive nelle sue memorie — furon due preti; e credo l’inferiorità fisica e morale della razza italica provenga massime da tale nociva costumanza». Era l’apertura delle ostilità: quando il ragazzo sarebbe divenuto uomo, avrebbe definito la Città Eterna «la capitale della più odiosa delle sette» e il trono del Pontefice un «seggio di serpe».
In religione non avrà mai idee ben definite, ma solo sentimenti, e questi piuttosto contraddittori. Il panteismo, il sincretismo, le utopie sansimoniane lo attireranno successivamente, senza riuscire a fissarsi nel suo pensiero.
L’ostilità di Garibaldi al cattolicesimo, non è dovuta a ragioni politiche, ma è la manifestazione di un’avversione ben più profonda. Egli, tuttavia, non riuscirà ad andare oltre la contrapposizione dei princìpi del Vero a quelle che definiva menzogne del Vaticano e, come del resto gli altri laicisti dell’Ottocento, non disporrà mai di una dottrina organica; ma «[…] il fascino del liberatore — osservava Spadolini nel 1951 — non permetterà di scorgere la mediocrità del suo pensiero, la vacuità della sua dottrina, l’inconsistenza della sua fede, in tutto adeguata alle “società atee” che gli affidavano la presidenza onoraria e a cui egli rispondeva con immancabili messaggi di speranza».
La nascita del mito
Il mito garibaldino, fondato su una sublimazione delle doti dell’«eroe» e su una trasfigurazione fantastica della sua personalità, è anche un’ideologia che ha inciso direttamente sulle vicende storiche. Ciò è vero sia sul piano militare, dove Garibaldi, nel corso della sua vita avventurosa, ha animato minoranze temprate e fedeli, disposte a battersi ai suoi ordini in qualsiasi situazione, sia sul piano politico, perché egli ha ispirato, nei due decenni successivi all’Unità, alcune significative esperienze organizzative e culturali, dal garibaldinismo al radicalismo, dal libero pensiero all’anticlericalismo, dal mutualismo operaio alla prima Internazionale.
L’audacia del combattente, l’austerità della vita, la semplicità dei modi, il disprezzo per gli intrighi della diplomazia hanno favorito senza dubbio la nascita di questa leggenda, alimentata dallo stesso protagonista, nel corso degli anni sempre più incline alla teatralità ma capace sia di controllare la sua tendenza all’avventura e all’individualismo, sia di sacrificare le suggestioni repubblicane al raggiungimento degli obbiettivi della Rivoluzione.
Lo storico Romano Ugolini ha dimostrato che Garibaldi non s’iscrisse alla Giovine Italia nel 1833, non incontrò Mazzini prima del 1848 e non figurò in primo piano nella sollevazione di Genova, prevista insieme all’invasione della Savoia da parte di elementi mazziniani. Imbarcato nella città ligure per svolgere il servizio di leva in marina, egli ha, invece, un ruolo marginale nella cospirazione, forse soltanto come spettatore imprudente, per di più compiendo l’errore di disertare dopo il fallimento della insurrezione. La giustizia sabauda, clemente con i pentiti, è rigorosa con gli assenti e Garibaldi, quattro mesi dopo la fuga, è condannato a morte in contumacia per il reato di cospirazione contro lo Stato. Per i cospiratori, però, diventa l’eroe di Genova, colui che aveva subito la condanna per tener fede a un impegno preso, e si trova personaggio a ventotto anni, senza che egli avesse fatto nulla per meritare la parte del protagonista.
La sua partecipazione alle guerre nel Sudamerica troverà nella stampa e nella corrispondenza degli esuli la cassa di risonanza necessaria per farne conoscere le imprese in Europa, mentre la sua presenza durante la difesa della Repubblica Romana, nel 1849, favorisce la diffusione del mito nei paesi anglosassoni; Le vicende della Repubblica Romana, che fanno svanire le speranze di una riforma religiosa dell’Italia, sia nella forma moderata di una trasformazione del cattolicesimo in senso evangelico, sia nella forma più rivoluzionaria di una distruzione del Papato, alimentano un odio violento contro il «papismo» e un grande entusiasmo verso Garibaldi, esaltato come spada divina contro il Pontefice.
Non è un caso che la prima redazione delle sue memorie sia stata curata, già nel 1850, da un pubblicista americano, Theodore Dwight, suo focoso ammiratore — che ne altera fantasiosamente la personalità, trasformandolo appunto in una specie di eroe protestante venuto a debellare la tirannide papale —, e che esse siano state date alle stampe a Londra e a New York, nel 1859. Da quel momento, nelle numerose edizioni delle Memorie non si contano le amputazioni, le omissioni e le deformazioni del testo, così come l’edizione nazionale degli scritti di Garibaldi ha lasciato cadere i documenti che meglio illustravano i contenuti del suo anticlericalismo e ne ha sfocato l’appartenenza alla massoneria. Tuttavia, è lo scrittore francese Alexandre Dumas a elaborare le memorie garibaldine, sviluppandone le potenzialità con la narrazione di episodi del tutto inventati, che avevano però la caratteristica di essere verosimili e di rispondere alle attese del pubblico. Alla fine del 1859, Garibaldi, indiscutibilmente il più lucido fra gli uomini politici della sua epoca nell’utilizzazione delle comunicazioni di massa, affida al romanziere il manoscritto delle sue Memorie, gli consegna un lasciapassare per la Sicilia e gli fa attraversare l’isola con un fotografo, che immortalerà uno alla volta quasi tutti i Mille. Altrettanto abile si mostra lo stesso Garibaldi, innanzitutto nella stesura delle sue memorie, dove elabora una verità finalizzata al mito che di sé andava disegnando.
La conseguenza, secondo lo storico inglese Raymond Grew, è che oggi «[…] non è difficile farsi una immagine più ampia e più moderna di quasi tutte le figure del Risorgimento eccetto che di Garibaldi. Centinaia di monumenti e migliaia di panegirici hanno fissato una ben precisa visione della sua personalità, al punto che oggi la nostra mente è difficilmente sensibile a modificazioni dovute alla evidenza di alcuni documenti o alle argomentazioni di una più moderna interpretazione».
Corsaro e guerrigliero in Sudamerica
Giunto in Sudamerica sul finire del 1836, dopo la fallita insurrezione mazziniana di Genova, Garibaldi ha la possibilità di combattere per i repubblicani della provincia del Rio Grande do Sul insorti contro il governo imperiale brasiliano. Nel giugno del 1838 guida la piccola marina riograndense, al comando di «quella classe di marinai avventurieri — come scrive egli stesso nelle sue memorie — conosciuti sulle coste americane dell’Atlantico e del Pacifico sotto il nome di “Frères de la côte”, classe che aveva fornito certamente gli equipaggi dei filibustieri, dei bucanieri, e che oggi ancora dava il suo contingente alla tratta dei neri». Alle azioni di pirateria seguono, quando la flottiglia viene distrutta, operazioni terrestri durante le quali i suoi uomini si distinguono anche per le rappresaglie contro i civili, come quella a danno della cittadina di Imiriù, che non voleva saperne di essere «liberata». Vi sono scene di saccheggi e assassinii da parte della truppa ubriaca, uno spettacolo allucinante — scrive Garibaldi —, al punto che «impossibile sia narrarne minutamente tutte le sozzure e nefandità» e solo «con minacce, percosse, ed uccisioni si pervenne ad imbarcare quelle fiere scatenate». Durante una scorreria lungo le coste brasiliane il giovane corsaro incontra Anita che, pur essendo già sposata, non esita a seguire lo straniero.
Rifugiatosi a Montevideo nel 1841, prima che la rivolta del Rio Grande do Sul fosse spenta dai brasiliani, Garibaldi riprende le armi e si schiera con il presidente golpista José Fructuoso Rivera (1778-1854), capo dei liberali colorados, sostenuto dal Brasile e dall’Inghilterra, la quale mirava al controllo dell’estuario del Rio de la Plata, indispensabile per la difesa del proprio monopolio commerciale. Non è estranea a questo impegno la sua iniziazione massonica, avvenuta nel 1844 a Montevideo, prima presso la loggia dissidente denominata Asilo della Vertud, quindi presso la loggia Les Amis de la Patrie, riconosciuta dal Grande Oriente di Francia. In Sudamerica, infatti, era palese la coincidenza fra movimenti liberali e organizzazioni massoniche: i moti per l’indipendenza erano sorretti dalle massonerie d’Inghilterra e degli Stati Uniti, interessate non solo a sottrarre l’America Meridionale all’egemonia «clerico-reazionaria» degli Stati iberici, ma anche ad attirarla nell’orbita economica anglo-americana.
Nel marzo del 1843 Garibaldi è comandante di tutta la marina uruguayana e allestisce una nuova flotta, i cui equipaggi — ammette — sono composti in buona parte da avventurieri, «quasi tutti disertori da bastimenti di guerra. E questi devo confessarlo erano i meno discoli. Circa agli americani, tutti quanti, quasi, erano stati cacciati dall’esercito di terra per misfatti e massime per omicidio. Dimodocchè , essi erano veri cavalli sfrenati». La composizione della ciurma — secondo lo studioso Salvatore Candido, per molti anni direttore dell’Istituto italiano di cultura di Montevideo — «rendeva inevitabili i saccheggi e gli atti di violenza che di lì a poco la stampa di Buenos Aires avrebbe rinfacciato al nemico», anche perché i reparti da sbarco «erano costretti ad agire spesso con rapidità e ferocia per rompere la resistenza spesso frapposta dai contadini e dai custodi del bestiame», che evidentemente non avevano nessuna intenzione di «collaborare» con gli invasori. Le azioni dell’«eroe» suscitano le proteste anche dei mercanti inglesi e francesi e del console degli Stati Uniti d’America a Montevideo, che esercitano pressioni sulle autorità locali perché richiamino il guerrigliero nella capitale, come è stato sottolineato dallo storico inglese David McLean, attento agli aspetti meno noti della presenza garibaldina in Sudamerica e alle critiche rivolte al nizzardo.
L’8 febbraio 1846 Garibaldi conduce duecento uomini della Legione Italiana, da lui allestita insieme con altri, allo scontro di San Antonio, che gli procurerà grande fama e che rappresenta, insieme all’incontro con Anita, l’evento sudamericano più conosciuto in Europa. Egli la considererà sempre una delle sue vittorie più significative: «In realtà — nota Ugolini —, fermi restando il valore dimostrato dalla Legione italiana e l’indiscutibile abilità di Garibaldi, non si può che parlare di uno scontro e non della battaglia di San Antonio; quanto alla vittoria essa fu assegnata a Garibaldi dalla propaganda più che dal campo».
In seguito Garibaldi, deluso nei suoi ideali di cosmopolitismo dalle crescenti beghe all’interno del partito colorado, manifesta la volontà di rientrare in Italia, dove stavano maturando grandi eventi, e il 15 aprile 1848 salpa da Montevideo con sessantadue legionari.
La Repubblica Romana
Il 21 giugno, Garibaldi sbarca a Nizza alla testa dei suoi legionari e il 14 luglio è nominato generale dal conte Gabrio Casati, presidente del governo provvisorio lombardo, che gli affida il comando di un migliaio di uomini, in maggioranza — scrive lo studioso inglese Jasper Ridley — «gente che aveva disertato od era stata dichiarata fisicamente inabile al servizio militare presso gli eserciti sardo o lombardo; e per quanto non fossero veri e propri criminali, come i marinai montevideani, al fuoco si mostrarono meno coraggiosi e meno fidati di questi».
Dopo avere conosciuto finalmente Mazzini — che si unisce ai volontari ma non reggerà alle fatiche e si rifugerà presto in Svizzera — Garibaldi marcia su Monza, dove apprende che il re Carlo Alberto di Savoia ha abbandonato Milano senza combattere dopo la sconfitta di Custoza. Decide allora di condurre la guerriglia per proprio conto, ma non tutti lo seguono: Un silenzio glaciale accolse le sue parole e poco dopo molti volontari presero la via della vicina Svizzera». Anche il contegno degli abitanti della zona non è particolarmente caloroso: «Un abitante solo, di qualunque classe — commenta il nizzardo — non si riuniva a noi, e difficilmente incontravansi guide». A Varese impone una contribuzione che indispettisce la popolazione. La sua prima campagna in Italia si riduce a un piccolo successo, a Luino, e a un piccolo rovescio, a Morazzone. Alla fine di agosto, dopo aver tenuto in scacco forze nemiche superiori numericamente ma impreparate alla guerra per bande, esausto e abbandonato da gran parte dei suoi, ripara in Svizzera e poi a Nizza.
Eletto deputato al parlamento subalpino, il 24 ottobre riparte con settantadue volontari alla volta della Sicilia — ribellatasi al governo napoletano —, ma gli avvenimenti romani lo inducono a cambiare programma. Infatti nella Città Eterna il 15 novembre viene assassinato Pellegrino Rossi, da poco nominato ministro dell’Interno e delle Finanze. I settari, ormai padroni della piazza costringono il Papa Pio IX a rifugiarsi a Gaeta, presso l’ospitale Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie. Garibaldi, che il 21 gennaio 1849 sarà eletto deputato della nuova Costituente Romana nel collegio di Macerata, riunisce circa quattrocento militi in una rinata Legione italiana, che secondo lo storico inglese George Trevelyan, era composta anche «da alcuni farabutti che Garibaldi aveva ammessi sotto l’illusione caratteristica che combattendo per l’Italia ogni morbo morale si sarebbe risanato: punto su cui alcuni di quei galantuomini finirono con il disingannarlo». Molti moderati diffidano dei legionari, anche a causa delle scorrerie da loro compiute nelle campagne per procurarsi i viveri, e alcune città chiudono le porte al loro passaggio. I garibaldini vagano fra l’Umbria e le Marche, fermandosi infine a Rieti per alcuni mesi.
Da Rieti Garibaldi si reca a Roma per alcuni giorni e si pronuncia subito per la repubblica, proclamata nella notte tra l’8 e il 9 febbraio 1849. Luigi Napoleone Bonaparte, l’antico carbonaro ora presidente della Repubblica Francese, spinto dall’opinione pubblica cattolica del suo paese e ansioso di precedere l’intervento austriaco, decide d’intervenire in soccorso del Pontefice e invia un contingente di truppe, agli ordini del generale Oudinot, che sbarca a Civitavecchia il 24 aprile. Un primo assalto alla città viene respinto dai difensori, fra i quali anche Garibaldi, che però il 19 maggio, a Velletri, si salva a stento dalla carica di un reggimento della cavalleria napoletana inviato in difesa dei territori della Santa Sede — «essendomi passati cavalieri e cavalli sul corpo, io n’ero rimasto contuso al punto di non potermi muovere» —, anche se nella propaganda rivoluzionaria quello scontro diventa una grande vittoria dei garibaldini e una disfatta dell’esercito borbonico.
Rientrato a Roma, Garibaldi, che difende il settore più esposto all’assalto dei francesi, ha l’occasione di mettersi in mostra e diventa il simbolo della resistenza, nonostante gli errori tattici commessi nella «giornata» del 3 giugno, che costarono la vita a molti legionari, e l’abbandono della linea del fronte, sia pure per una sola notte, dopo un severo contrasto con il comandante in capo Roselli. Tiepidamente aiutati, o non aiutati affatto, dai romani — a parte il folto gruppo di trasteverini, guidati dal loro capopopolo Ciceruacchio, i repubblicani si difendono strenuamente, ma non possono contrastare la superiorità francese. Roma capitola il 3 luglio e Garibaldi si ritira con i suoi uomini verso l’Italia settentrionale, sperando nel sostegno popolare ma dimenticando che la Legione aveva incontrato quasi sempre ostilità nelle campagne.
«Mossomi da Tivoli verso tramontana per gettarmi tra popolazioni energiche e suscitarne il patriottismo — racconterà anni dopo —, non solo non mi fu possibile riunire un sol uomo, ma ogni notte […] disertavano coloro che mi avean seguito da Roma». L’Appennino viene attraversato due volte, ma la popolazione non rispondeva agli appelli, anzi era dichiaratamente ostile. A Montepulciano i garibaldini sono accolti a fucilate, ad Arezzo trovano le porte delle città sbarrate e la guardia nazionale in armi. Il numero dei disertori aumenta di giorno in giorno e Garibaldi lamenta che lo abbandonino soprattutto gli ufficiali, fra cui i vecchi compagni di tante battaglie: «I gruppi dei disertori scioglievansi sfrenati per le campagne e commettevano violenze d’ogni specie. […] codardi nell’abbandonare vilmente la causa santa del loro paese, scendevano ad atti osceni e crudeli cogli abitanti». Stupito del mancato sostegno popolare, egli ne addossa le colpe, come sempre, ai sacerdoti: «[…] ho veduto i preti stessi, col crocifisso alla mano, condurre contro di noi i nemici del mio paese.[…] Collo stato depresso dei cittadini, come dissi, e quello ostile della campagna in mano ai preti, ben precaria diventava la condizione nostra, e presto noi sentimmo gli effetti della reazione rinascente in tutte le province Italiane».
Di fronte a questa reazione inattesa del popolo italiano, che ancora una volta si stringeva a difesa delle proprie tradizioni religiose e civili, Garibaldi deve congedare i resti del suo esercito e riparare altrove, in attesa di tempi per lui migliori, perdendo anche la moglie Anita, la cui fine rimane avvolta nel mistero.
A tale proposito S. La Salvia, nel suo libro “Garibaldi” riporta che “l’autopsia del cadavere parlerà del rinvenimento di un corpo femminile che presenta la trachea rotta ed una lividura circolare intorno al collo, segni non equivoci di morte per strangolamento”
La spedizione dei Mille
Allo scoppio della cosiddetta seconda guerra d’indipendenza, cioè la guerra dell’Impero Francese e del Regno di Sardegna contro l’Impero d’Austria, nell’aprile 1859 Garibaldi è al comando, con il grado di maggior generale dell’esercito sabaudo, del Corpo dei Cacciatori delle Alpi, costituito da circa tremila volontari, in gran parte veterani degli assedi di Roma e di Venezia nel 1849.
Dopo la fine della Repubblica Romana il nizzardo si era recato prima a Tangeri, dal novembre 1849 al giugno 1850 — ospite del console sabaudo Giovanni Battista Carpenetti, presso il quale aveva cominciato a stendere le sue memorie —, quindi a New York, dove aveva intessuto relazioni con le logge statunitensi. Ritroviamo l’avventuriero il 15 ottobre del 1851, quando gli fu affidato da un certo armatore genovese Pietro Denegri il comando della nave Carmen, alla fonda nel porto della Concia (Perù) per il trasporto di schiavi cinesi (coolies) nelle isole Cinchas (Perù), dove esistevano giacimenti di guano (sterco di cormorani). Il Garibaldi successivamente, il 10 gennaio del 1852 si recò, con un carico di quello sterco, a Canton (Cina), da dove riempì la Carmen di schiavi cinesi che scaricò nelle isole Cinchas, dove quei poveri coolies venivano brutalmente utilizzati per la raccolta del guano.
In seguito viaggiò con vari carichi da Lima a Boston, poi da Baltimora a Londra e, infine, dopo essere rimasto alcuni giorni a New York, si recò nel febbraio del 1854 a Londra con la nave Commonwealth.
Da Londra il negriero Garibaldi si recò a Newcastle e da qui proseguì per Genova dove giunse il 10 maggio del 1854.
Fu così che Garibaldi, con il denaro ricevuto per il trasporto degli schiavi cinesi, si comprò mezza isola di Caprera.
Uno studioso americano, Basil Lubbock, nel suo libro «Coolies ships and oil sailors», Boston, 1935, citato da P. Fortini, ibidem, pag. 120, ecco che cosa riferisce circa l’inferno delle Chinchas: «Le crudeltà delle Chinchas sono appena credibili e pochissimi cinesi riuscivano a sopravvivere piú di qualche mese …; chi non si suicidava in un modo o nell‘altro, periva per il lavoro eccessivo, il polverone respirato, la deficienza di cibo adatto». Altro che Buchenwald o Auschwitz. Dov’era il cuore «generoso» dell’eroe dei due mondi quando vi si recò?
Il lugubre racconto di Pino Fortini cosí continua «Ma per arrivare a questo … placido sito o nelle piantagioni, il coolie doveva passare attraverso un altro inferno, quello del trasporto marittimo
I diabolici metodi dell‘ufficiale peruviano alle Chinchas e dei suoi dipendenti furono ben presto noti nel mondo a mezzo delle navi che andavano a caricare guano, cosicché, nel 1858, il «reclutamento« dei cinesi per quelle isole fu impedito dall‘intervento delle grandi potenze .. Non si può non ricordare che fra tutti i capitani nostri che navigarono in questo traffico, sotto bandiera italiana (??) o peruviana, uno si distinse di mille cubiti per l‘umanità sua; un capitano dalla rossa cappelliera: … Giuseppe Garibaldi».
Il quale venne, vide … chiuse gli occhi su quella terrificante tragedia umana e ci mangiò sopra, perché quelli erano tempi in cui la coscienza, la cultura bianca accettava come normale quell’ignobile rivoltante attività. Vedete dunque da che razza di briganti noi del Regno delle Due Sicilie fummo liberati. E da che pulpito tuonava lo schiavista Lord Palmerston, il losco figuro che infangava il Reame nelle cancellerie d’Europa, il comparone, con altri suoi connazionali, portoghesi, spagnuoli, francesi, americani, liguri (tra cui molto attivo il famigerato Denegri ed altri suoi corregionali i cui nomi possono essere degustati nel libro del Fortini) e piemontesi, i trafficanti di carne umana, tra i quali si trovava a suo bell’agio il cosiddetto eroe dei due mondi, che, prudentemente, nella sua autoagiografia tace riferimenti scottanti sui suoi viaggi alle Chinchas e a Canton. «All’andata trasportava guano […] — racconta lo storico Giorgio Candeloro —, al ritorno trasportava cinesi per lavorare il guano: la schiavitù in Perù era stata abolita e il guano non voleva lavorarlo più nessuno. Insomma, un lavoretto un po’ da negriero».
Alla luce di questi selvaggi precedenti si chiarificano le stragi di Bronte, Biancavilla, Siracusa, Pontelandolfo, Casalduni, Montefalcione, Auletta, Scurcola Marsicana, Pizzoli, Fiammignano.
Tornato in Italia, egli assume un ruolo di protagonista autonomo nei confronti di Mazzini, criticandone le sterili azioni terroristiche — quale l’assassinio del duca di Parma e Piacenza, Carlo III di Borbone — e insurrezionali, come il moto milanese del 6 febbraio 1853. La mancata partecipazione popolare ai numerosi tentativi insurrezionali organizzati dai mazziniani rafforza in Garibaldi la consapevolezza dell’isolamento della minoranza risorgimentale e della necessità di «rannodarsi intorno alla bandiera del Piemonte» — come scrive a Giuseppe Valerio, console sardo negli Stati Uniti — per realizzare in tempi brevi l’unificazione rivoluzionaria dell’Italia. La formula «Italia e Vittorio Emanuele», con la conseguente accettazione momentanea della monarchia quale alleato — «in Piemonte vi è un esercito di quaranta mila uomini, ed un re ambizioso» —, viene proclamata da Garibaldi come l’unica valida per accelerare l’unificazione e la laicizzazione del paese: «se sorgesse una società del demonio, che combattesse dispotismo e preti, m’arruolerei nelle sue file». La sua scelta di campo si rileva un fattore decisivo nel realizzare la convergenza temporanea delle due correnti rivoluzionarie, quella «legalitaria» e sabauda del conte di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna, e quella insurrezionale e repubblicana, rappresentata soprattutto da Mazzini, in vista della guerra all’Austria.
Nel corso del conflitto Garibaldi si distingue con i Cacciatori delle Alpi a Varese, in uno scontro difensivo, e a San Fermo, dove sconfigge gli austriaci, ma è fermato nella battaglia dei Tre Ponti, in Valtellina. Anche in questo caso l’accoglienza popolare non è entusiastica e il federalista Carlo Cattaneo, l’anno seguente, ricorderà «Como che nel 1859 riceve Garibaldi vittorioso a porte serrate e in silenzio sepolcrale». Complessivamente sul piano militare il contributo sabaudo è poco significativo agli occhi dei francesi: il tardivo o mancato intervento delle divisioni Fanti e Durando a Magenta, lo stentato successo di San Martino, il ritardo del parco d’assedio, la mancata occupazione di Rocca d’Anfo, avevano suscitato commenti severi nel quartier generale imperiale. Napoleone III, insoddisfatto del sostegno militare fornito dall’alleato e deluso della mancata insurrezione italiana, che avrebbe dovuto non solo giustificare politicamente il suo intervento ma anche contribuire al buon esito di una lotta che restava invece affidata agli sforzi dell’armata francese, dopo la vittoria di Solferino conclude con l’imperatore Francesco d’Asburgo Giuseppe l’armistizio di Villafranca, l’8 luglio, e «gira» la Lombardia a Vittorio Emanuele II di Savoia.
L’anno seguente, mentre le truppe sabaude occupano il Granducato di Toscana, le Romagne pontificie, i Ducati di Parma e di Modena, Giuseppe Garibaldi, il repubblicano convertitosi alla causa della guerra regia, appare come l’uomo adatto per guidare una spedizione che offra al regno sardo l’occasione e l’alibi per intervenire nel Mezzogiorno d’Italia e, nello stesso tempo, per dare all’operazione una parvenza di legittimazione popolare.
I preparativi dell’operazione militare sono a cura della Società Nazionale, che si occupa del reclutamento dei volontari, molti dei quali già tempratisi nel Corpo dei Cacciatori delle Alpi, e mette a disposizione le armi necessarie, non ferrivecchi arrugginiti, come si crede comunemente, ma un migliaio di fucili dello stesso tipo di quelli in dotazione all’esercito sardo. La Società Nazionale provvede anche ai finanziamenti, ai quali si aggiungono fondi riservati, come quelli indicati dallo studioso Giulio Di Vita, che utilizza fonti inglesi, secondo cui Garibaldi avrebbe ricevuto tre milioni di franchi francesi in piastre d’oro turche, somma molto ingente a quei tempi. Gli arsenali Ansaldo forniscono le munizioni, il genovese Gerolamo «Nino» Bixio si accorda con la società Rubattino per il noleggio di due bastimenti e il mazziniano Rosolino Pilo parte alla volta della Sicilia per aprire la strada ai garibaldini. Non indifferente sarà anche l’aiuto discreto fornito dai fratelli massoni, come lo stesso Garibaldi riconoscerà nel 1862, esprimendo al Supremo Consiglio del Grande Oriente d’Italia di Palermo la sua gratitudine «per l’appoggio che essi mi diedero, da Marsala al Volturno, nella grande opera dello affrancamento delle provincie meridionali».
Subito dopo la partenza dei Mille il medico Agostino Bertani mette in moto la macchina dei comitati di soccorso a Garibaldi — che si trasformeranno nel gennaio del 1861 nei comitati di provvedimento per Roma e Venezia —, che avrebbe permesso di sostenere la spedizione per l’intera campagna, raccogliendo altri fondi, armi e soldati. Il vercellese Carlo Pellion conte di Persano, comandante di una divisione navale sarda e poi vice-ammiraglio, proteggerà con discrezione il viaggio dei volontari, così come farà con le successive ventuno spedizioni, che nei tre mesi seguenti portano in Sicilia circa ventiduemila uomini, in buona parte soldati dell’esercito sardo congedati apposta o fatti disertare. «Più che dai contingenti isolani — ammette Garibaldi — i Mille furono aumentati da varie spedizioni posteriori, partite dal continente». Il coinvolgimento totale del governo sardo sarà sottolineato anche dall’ex cospiratore Giuseppe La Farina, nella seduta della Camera del 16 giugno 1863: «La spedizione di Sicilia è uno degli atti più audaci e più rivoluzionari che sieno compiuti nell’età moderna. Si era in pace col re delle Due Sicilie, non vi era dichiarazione di guerra, vi erano ambasciatori che andavano e venivano da Napoli a Torino, ed in questo momento il partito capitanato dal conte di Cavour aiutò la spedizione con tutti i mezzi: e mentre l’Europa grida […] mentre tutta la diplomazia non ha che un grido di riprovazione contro quest’atto ultrarivoluzionario, il conte di Cavour continua a dare aiuti alla spedizione di Sicilia».
L’episodio più celebrato del Risorgimento, l’unico che potrebbe rivendicare i caratteri di epopea popolare, si configura dunque come un’operazione di pirateria, compiuta da un gruppo di uomini armati non aventi alcuna legittimazione giuridica e condotta contro le più elementari norme del diritto, con l’obbiettivo di ribaltare le istituzioni legittime di uno Stato sovrano da sempre riconosciuto dal consesso delle nazioni e benedetto dalla suprema autorità spirituale.
Lo sbarco principale avviene a Marsala, l’11 maggio, ed è facilitato dalla presenza nel porto di navi da guerra britanniche, il cui comandante, ammiraglio George Rodney Mundy, ingiunge alle unità napoletane prontamente accorse di non aprire il fuoco fino all’avvenuto reimbarco dei suoi marinai, provocando un ritardo irreparabile nella entrata in azione dei partenopei. «La presenza dei due legni da guerra inglesi — ricorda Garibaldi nelle sue memorie — influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro: […] ed io, beniamino di cotesti Signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro protetto».
A Calatafimi si verifica il primo scontro, che fornisce il modello alle successive battaglie: i soldati borbonici si battono con valore e destrezza contro un nemico numericamente inferiore, ma i loro capi, la cui carriera era dovuta più all’anzianità che al merito, privi di reale esperienza bellica e troppo vecchi per quel compito, non sanno quasi mai essere all’altezza delle situazioni. Non mancano certamente comandanti valorosi, ma la loro intraprendenza è vanificata dalla prudenza eccessiva dei superiori. Sintomatico è il comportamento dell’anziano generale Ferdinando Lanza, inviato in Sicilia con i poteri di alter ego del sovrano, che durante la battaglia per Palermo si affretta a chiedere una tregua a «Sua Eccellenza» Garibaldi, prima che le proprie posizioni fossero seriamente intaccate. La resa di Palermo, seguita logicamente a quegli episodi, desta stupore e sensazione nel mondo intero, genera un’ondata di sfiducia che si aggiunge alle insistenti voci di tradimento, accresce la fama d’invincibilità di cui gode Garibaldi e disarma la volontà di resistenza della sgomenta corte napoletana.
Dopo la vittoria il Generale, che il 4 giugno aveva denominato Esercito Meridionale le sue truppe, si trova con pochi soldati e pochissime armi, costretto a sciogliere anche le squadre di «picciotti» per la loro indisciplina. Ma il 10 giugno partono alla volta della Sicilia i 2.500 «volontari» di Giacomo Medici: «Medici è arrivato con un reggimento fatto e vestito […] — scrive il 21 giugno il memorialista Giuseppe Cesare Abba —; quaranta ufficiali coll’uniforme dell’esercito piemontese formavano la vanguardia». Questi soldati dell’esercito regolare, travestiti da volontari e adeguatamente equipaggiati, marciano su Milazzo e su Messina con altri reparti giunti via mare nei giorni seguenti. Ai primi di agosto il regno borbonico appare perduto. Comitati insurrezionali si formano nelle province continentali, il panico invade coloro che appaiono maggiormente legati alla monarchia, e la diplomazia europea, favorevole al Regno di Sardegna o timorosa, non muove un dito in sua difesa. Il 19 agosto l’esercito garibaldino, rinforzato dai «volontari» inviati dal Regno di Sardegna, sbarca in Calabria, favorito dall’inattività quasi totale della marina napoletana, il cui comandante generale, Luigi di Borbone, conte de L’Aquila, era stato allontanato da Napoli nei giorni precedenti a causa dei sentimenti liberali professati pubblicamente. Gli ufficiali assistono passivamente alla disgregazione della Real Marina, mentre marinai e sottufficiali esprimono la loro disapprovazione, tumultuando apertamente. I «galantuomini» e i grandi proprietari terrieri, di fronte all’impotenza delle autorità borboniche, armano i propri uomini e danno il via all’insurrezione, spianando la strada all’armata garibaldina, nella prospettiva della conservazione o del miglioramento delle loro posizioni.
Circondati da un ambiente ostile, affascinati e insieme intimoriti dalla fama di Garibaldi, sconcertati oltretutto dalla sua tattica poco ortodossa, gli ufficiali borbonici finiscono per capitolare senza opporre resistenza, mentre i soldati, dispersi dalla viltà dei comandanti, rifiutano di aderire alla causa garibaldina e, sbandati o a gruppi, marciano prima su Napoli e poi su Gaeta per rispondere all’appello del re. Anche a Napoli, all’arrivo del Generale, le truppe, lasciate libere, preferiscono raggiungere il re sul Volturno: «Al tramonto — scrive l’ammiraglio inglese Mundy, presente alla scena — le truppe reali lasciarono la città e si misero in marcia verso Capua. Fu data loro ogni opportunità per disertare i ranghi e passare nelle file della rivoluzione, ma pochi se ne avvalsero. C’era un’ostinata e sprezzante determinazione negli sguardi e nel contegno di quegli uomini che non costituiva certo prova di simpatia per la causa del Dittatore Garibaldi».
Di fronte al successo inatteso di Garibaldi il conte di Cavour rompe gli indugi e decide di riprendere l’iniziativa, sia per riconquistare la direzione del movimento unitario, subordinando definitivamente l’azione del nizzardo alle direttive di Torino, sia per salvaguardare il nucleo centrale del territorio pontificio, condizione indispensabile per non creare imbarazzi a Napoleone III, sia per proteggere le proprietà dei «galantuomini», divenuti precipitosamente annessionisti. L’11 settembre, le truppe sarde invadono gli Stati della Chiesa, difesi da migliaia di giovani accorsi dall’Europa cattolica, i quali mostrano fra l’altro che la gioventù europea non era sensibile soltanto alle sirene dei richiami rivoluzionari. Nonostante il loro eroismo le ardite ed eterogenee unità papaline del generale francese de Lamoricière vengono sopraffatte a Castelfidardo, nelle Marche, dalle forze preponderanti del generale Enrico Cialdini. Questi, il 12 ottobre, invade anche il Regno delle Due Sicilie: attaccato alle spalle e stretto fra due eserciti, il giovane re Francesco II di Borbone deve ritirarsi su Capua e poi su Gaeta, dopo avere invano tentato di forzare, all’inizio di ottobre, le linee nemiche sul Volturno, validamente difese da Garibaldi.
Mentre il prestigio militare di Garibaldi raggiungeva il culmine, la sua politica, volta a proseguire la guerra fino alla conquista di Roma, si rivela irrealizzabile, sia per la condizione di debolezza del suo esercito sia per l’opposizione del re e del conte di Cavour. Il nizzardo è costretto a valutare realisticamente la sua inferiorità militare e politica, accettando dunque il plebiscito di annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna, dopo aver chiesto invano di essere nominato governatore civile e militare del Mezzogiorno per un anno e con pieni poteri. Il 26 ottobre «cede» il Mezzogiorno d’Italia a Vittorio Emanuele II e si ritira a Caprera, pago di avere compiuto nel migliore dei modi la sua parte nella Rivoluzione italiana.
Francesco II invece resiste ancora nella fortezza di Gaeta, confortato dal Pontefice che lo esorta a non cedere all’ingiustizia e a sostenere fino all’ultimo i suoi diritti. La guarnigione borbonica, colpita da un’epidemia di tifo e sottoposta a un micidiale e continuo bombardamento, non vacilla, incoraggiata anche dall’eroico comportamento della regina Maria Sofia, che si presta fino al limite delle forze, animando i combattenti sugli spalti, sprezzante del pericolo, attivissima e pietosa nei servizi d’infermiera. Tuttavia, cedendo alle pressioni degli inglesi, il 19 gennaio 1861 l’imperatore francese richiama la flotta, che proteggeva Gaeta dal mare, e consente di fatto alle navi di Persano di partecipare alle operazioni contro la fortezza. Con il sopraggiungere del blocco navale ogni resistenza diventa impossibile e Francesco II accetta l’ennesima offerta di capitolazione, che viene firmata il 13 febbraio.
Il 17 marzo è proclamato a Torino il regno d’Italia, ma la resistenza antiunitaria delle popolazioni meridionali non si spense facilmente. Negli anni successivi al 1860 la resistenza si presenterà con forme molto articolate, di cui offrono testimonianza l’opposizione condotta a livello parlamentare, le proteste della magistratura, la resistenza passiva dei dipendenti pubblici e il rifiuto di ricoprire cariche amministrative, il malcontento della popolazione cittadina, l’astensione dai suffragi elettorali, il rifiuto della coscrizione obbligatoria, la diffusione della stampa clandestina e la polemica condotta dai migliori pubblicisti del regno. La resistenza armata, però, è il fenomeno più evidente, che coinvolse non soltanto il mondo contadino ma tutta la società del tempo nelle sue strutture e nei gruppi che la componevano. Il cosiddetto brigantaggio è stato un fenomeno composito, manifestazione del contrasto fra due mentalità, fra due differenti impostazioni culturali, che ha indotto il politologo Ernesto Galli della Loggia a parlare di «una diversità etico-antropologica così radicale da farne il punto critico per antonomasia della problematica identità nazionale italiana», e l’antropologo Carlo Tullio Altan di una «reazione di rigetto della società meridionale nei confronti di una realtà storica diversa» e di «uno scontro di civiltà». Ma soprattutto ha rappresentato l’espressione macroscopica della reazione di una nazione intera in difesa della sua autonomia quasi millenaria e della religione perseguitata e, come tale, costituisce l’ultimo tentativo compiuto in Italia, insieme con la difesa di Roma a opera degli zuavi, per combattere la Rivoluzione con le armi.
Garibaldi «educatore»
Dopo l’impresa nell’Italia Meridionale Garibaldi non è più soltanto un generale vittorioso ma anche un punto di riferimento per molteplici raggruppamenti d’ispirazione democratica e radicale, che danno vita a quel vasto e autonomo movimento politico noto come «garibaldinismo». Nel luglio del 1861 lancia una «crociata umanitaria» per distruggere il dispotismo e la superstizione: «la teocrazia papale è la più orribile delle piaghe da cui il mio povero paese è afflitto; diciotto secoli di menzogna, di persecuzioni, di roghi e di complicità con tutti i tiranni d’Italia, resero insanabile tale piaga. Ora, come sempre, questo vampiro della terra dei Scipioni sostiene il suo corpo corrotto e roso dalla cancrena; colla discordia, colla reazione, colle depredazioni, colla guerra civile, porge pretesto alla dimora di armi straniere e colla maledetta sua influenza impedisce ad una generosa nazione di costituirsi». Fa quindi il suo ingresso sulla scena politica, accettando la presidenza prima dell’associazione dei comitati di provvedimento per la liberazione di Roma e di Venezia, che si stavano diffondendo in tutta l’Italia, anche se con effettivi piuttosto esigui, poi del IX congresso delle Società operaie, nel settembre 1861, infine dell’assemblea che si svolge a Genova il 9 e 10 marzo 1862 fra i Comitati di provvedimento, le associazioni d’ispirazione mazziniana e le società operaie, dalla quale nascerà l’Associazione Emancipatrice Italiana. Da allora in avanti le più disparate organizzazioni, società operaie, di mutuo soccorso, di libero pensiero, fratellanze artigiane e logge massoniche, circoli di tiro a segno e sodalizi di veterani lo acclameranno loro capo, considerandolo come nume tutelare e simbolo di unità piuttosto che vera e propria guida politica. Sarà il medico Agostino Bertani a impegnarsi a fondo per trasformare quella miriade di associazioni in un partito autentico, con un centro direttivo sottratto alle ambiguità della linea politica del Generale, che non voleva rinunciare alla sua autonomia in vista di una nuova guerra d’indipendenza.
Nel 1862 cerca di marciare su Roma, ma viene fermato sull’Aspromonte dall’esercito italiano. Nel 1867, deciso comunque a rompere gli indugi, invade lo Stato Pontificio; assale Monterotondo, che, eroicamente difesa fino all’ultimo dagli zuavi pontifici, viene messa a sacco dai «liberatori»; e per due lunghi giorni, attestato con i suoi uomini alla periferia di Roma, attende che l’insurrezione gli apra le porte della città, ma i romani non accorrono al «supremo cimento». Gli episodi di Villa Glori e della caserma Serristori — dove due terroristi fanno saltare un’intera ala dell’edificio, provocando la morte di ventisette zuavi e di due civili — restano isolati. I garibaldini, delusi e scoraggiati, ripiegano su Monterotondo, dando luogo a fenomeni massicci di diserzione e di fuga, quali mai si erano visti fino ad allora. Di altra tempra saranno invece i volontari cattolici francesi della Legione d’Antibes, che rimangono fedele presidio di Roma. Lo scontro decisivo avviene a Mentana, il 3 novembre, e i garibaldini sono sbaragliati dai pontifici del generale germanico barone Hermann Kanzler (1822-1888), appoggiati dai soldati francesi che Napoleone III era stato nuovamente costretto a inviare. Era l’ultimo tentativo operato da Garibaldi per strappare Roma al Pontefice.
Negli anni seguenti il nizzardo prosegue nella sua opera di «educatore». Il suo atteggiamento va ricondotto alla duplice aspirazione di unificare l’Italia e di procedere al «rinnovamento» morale degli italiani, cioè «fare l’Italia» per «disfare gli italiani». Egli riteneva che la lacerazione fra «paese legale» e «paese reale» fosse la conseguenza del radicamento della cultura religiosa presso la stragrande maggioranza della popolazione e che, pertanto, occorresse unificare concretamente la nazione con l’elaborazione di una cultura popolare fondata su una nuova concezione della religiosità. Mentre altri operavano a livello della minoranza colta, Garibaldi diffonde, in forme più immediate e comunicative, fermenti anticattolici presso i ceti popolari, anche con la distribuzione capillare di opuscoli e di catechismi che attribuivano a lui la vera rappresentanza della legge di Cristo contro le imposture del Papa. Nella sua indulgenza verso talune manifestazioni di devozione laica — come la celebrazione non sacerdotale di alcuni sacramenti, soprattutto il battesimo e il matrimonio, e la diffusione della sua immagine di redentore —, viene colto un intento politico-pedagogico, mirante a una inculturazione che, machiavellicamente, utilizzava gli strumenti di comunicazione adatti agli italiani del suo tempo.
Sono di questi anni le battaglie del nizzardo per assicurare, in funzione anticattolica, pieni diritti ai protestanti e ai liberi pensatori — al cui movimento dà pubblica adesione nel 1864 —, per impadronirsi dei beni ecclesiastici, per laicizzare l’istruzione elementare, per estendere ai sacerdoti l’obbligo del servizio militare, per diffondere la pratica della cremazione allo scopo di togliere alla Chiesa «il pascolo dei morti». Promuove anche una miriade di organizzazioni culturali, società operaie, leghe e fratellanze, che dovevano contribuire a trasformare il paesaggio sociale e culturale dell’Italia unita. Perno di questo fronte laico e radicale doveva essere la massoneria, considerata da Garibaldi una fratellanza al di sopra di ogni fazione: «Io sono di parere che l’unità massonica trarrà a sé l’unità politica d’Italia […]. Io reputo i massoni eletta porzione del popolo italiano. Essi […] creino l’unità morale della Nazione. Noi non abbiamo ancora l’unità morale; che la Massoneria faccia questa, e quella sarà subito fatta».
Infine, accentua in modo quasi parossistico il suo furore anticlericale. «Gli ultimi anni di vita — scrive il gesuita Pietro Pirri — sono anche i più miserevoli sotto l’aspetto morale. Garibaldi non trovò di meglio che sfogare i suoi crucci con libri in prosa e in versi, per lo più insulsi, riboccanti di volgari ingiurie e di denigrazioni contro il clero e il Papa, e di roboanti declamazioni contro una società che aveva il torto di non pigliare sul serio i sogni della sua mente ottenebrata da vieto anticlericalismo e da grette idealità massoniche».
La nostra narrazione termina qui, perché il resto della storia è noto e la figura di Garibaldi, a questo punto, è abbastanza evidente. Senza entrare nei dettagli, è necessario ricordare le false vittorie di Garibaldi in Sicilia (dovute più ai tradimenti dei comandanti militari borbonici che all’eroismo garibaldino), le violenze, le rapine e gli assassini commessi dai garibaldini, soprattutto emblematici quelli di Bronte, di cui il Garibaldi fu il principale responsabile. Da ricordare anche lo sbarco avvenuto in Sicilia, subito dopo quello dei «mille», di circa 22.000 soldati piemontesi fatti «disertare» e che l’unica vera battaglia fatta dai garibaldini fu quella sul Volturno, dove solo l’insipienza del comandante borbonico impedì che tutta quella teppaglia fosse spazzata via.
Del resto lo stesso savoiardo Vittorio Emanuele, subito dopo il presunto incontro di Teano, indica chiaramente qual era il personaggio, quando scrisse (in francese) al Cavour : «… come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene, siatene certi, questo personaggio non è affatto docile, né così onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa».
In ogni angolo delle Due Sicilie gli hanno eretto monumenti, dedicate piazze e strade. Muore a Caprera il 2 giugno 1882.
elaborata su Pappalardo, Pagano, Pellicciari
Antonio Nicoletta