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Gli Etruschi e il Mann al Museo Archeologico Nazionale di Napoli

Posted by on Giu 24, 2020

Gli Etruschi e il Mann al Museo Archeologico Nazionale di Napoli

Il 12 giugno scorso, Paolo Giulierini, l’infaticabile direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli (“lo potete vedere qui pure la domenica” dicono gli impiegati), ha presentato la sua ultima fatica: la mostra “Gli Etruschi e il Mann” (12 giugno 202031 maggio 2021). Gli Etruschi, un popolo e una civiltà che intriga per le sue incerte origini: vennero dalla Lidia, come afferma Erodoto nel V secolo a. C.? oppure furono una popolazione autoctona (del posto, cioè), come scrive Dionigi di Alicarnasso nel I secolo a. C.?

Un’ipotesi, quest’ultima, ricavata dal reperimento di oggetti e di resti di capanne in legno, a Villanova, vicino Bologna, che ci raccontano di una civiltà, datata del X secolo, chiamata villanoviana  e considerata protoetrusca, giacché in essa vi sono elementi che rimanderebbero alle più evolute testimonianze etrusche in Toscana, nell’Umbria occidentale e nel Lazio settentrionale. 

Da dove gli Etruschi, nel periodo del loro massimo splendore, estesero il loro dominio militare ed economico sulla parte orientale della pianura padana e sulla fertilissima Campania, dove abitarono le città di Capua e di Pontecagnano. Come ci erano arrivati? Lo ha spiegato il direttore Giulierini ricordando che, in antico, i fiumi erano delle vie di comunicazione efficienti e che esiste, una fitta rete fluviale, un tempo con una maggiore portata di acqua, che va dal Po al Garigliano, al Volturno, al Sele.

E, citando il fatto che in Campania vivevano, all’epoca, insieme agli etruschi, anche diverse genti, quali i sanniti e i greci, ha suggerito che questo sarebbe potuto diventare un positivo esempio di convivenza tra popoli con origini e culture diverse. Evidentemente se però non vi fossero stati contrasti ed epiche battaglie, generate soprattutto dalla sempre insoddisfatta aggressività etrusca.

Queste, ben documentate, ci sono state raccontate, all’apertura della mostra,  anche da Valentino Nizzo, direttore  del romano Museo di Villa Giulia, etruscologo come Giulierini e, insieme a questi, curatore, con il coordinamento di Emanuela Santaniello, di questa mostra al MANN.

Il suo racconto è partito dal 535 a. C., quando gli Etruschi, alleati con i Cartaginesi, sconfissero, in una battaglia navale ad Alaia, vicino la Corsica. i greci, che, con i loro commerci, si erano spinti al di là delle Colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra), che da allora furono invalicabili, ma non per volontà degli dei, come s’inventarono i greci, ma degli uomini. Poi, Etruschi e Cartaginesi, non paghi, dieci anni dopo, attaccarono via terra Cuma, “per nessuna altra ragione – commentano le fonti  –  che l’invidia per la prosperità della città”.

Ma  l’esercito cumano, guidato dall’energico Aristodemo, li sbaragliò. Poi Cuma, nel 474, dovette  di nuovo difendersi dagli etruschi, che si erano alleati ancora una volta con gli africani ( il cui pervicace  desiderio di invadere la penisola italica si esprimerà, più tardi, anche nella spedizione del famoso Annibale). Ma la flotta di Ierone di Siracusa si unì a quella cumana e insieme ebbero la meglio su di loro e liberarono dalla loro presenza le coste campane.

Fatto interessantissimo, perché  questo rese possibile la fondazione, a oriente del’antica Partenope, di una nuova città, Neapolis, che sarà abitata soprattutto da Cumani. Da qui l’intrigante immagine di una Napoli che conserva l’antica civiltà di una polis nata dal mare. Infatti, le altre poleis magnogreche poi saranno soffocate dal dominio dei re Angioini; tranne Napoli, divenuta loro capitale (e capitale rimarrà per sei secoli). E sarebbe questa sua antica cultura marinara il fondamento della diversità culturale di Napoli rispetto alla cultura continentale europea. 

Poi gli Etruschi d’un tratto sembrarono scomparire  dalla Campania, tanto che illustri studiosi credettero e affermarono che non ci fossero mai stati. Qui non erano stati in numero preponderante e, dopo le sconfitte, forse in parte ritornarono nelle loro terre di origine. Dove, a Tarquinia, Cerveteri,Veio e in luoghi vicini a queste antiche città etrusche, si ammirano ancora le loro tombe,  con le magnifiche decorazioni parietali, che testimoniano il dominio culturale sulla loro civiltà guerriera dell’inerme cultura magnogreca, nella rappresentazione di miti (es. “L’agguato di Achille a Troilo”), nella morbidezza formale che v a sostituire la primitiva secchezza etrusca dei corpi umani e addirittura nella copia di pitture (il famoso “Tuffatore” di Paestum).

Ma lo spirito etrusco rimase sempre e sembra esprimersi, tra l’altro, nel bronzo della feroce Lupa capitolina, nello slancio magnifico della bronzea Chimera di Arezzo e nel famoso Apollo di Veio, opera in terracotta, che ha forme greco-ioniche ma è etrusca nella sua urgenza, cioè in quel suo modo di spingersi in avanti. Poi gli Etruschi scomparvero anche in questi luoghi.

C’era stata l’invasione dei celtici galli da Nord e, soprattutto, l’azione dei romani, che, liberatisi, come dice la leggenda, dai re Tarquini, fondarono, nel 509 a.C., la repubblica e, nel 396 a. C., distrussero Veio, la più potente città etrusca. Con i romani, vi fu ancora il trionfo della cultura greca, mentre le Corti imperiali abitavano i Campi Flegrei, e Nerone cantava in teatro a Napoli, già allora, come sempre, città della musica.

Naturalmente, nella mostra al MANN, non ci sono queste opere, citate per rendere omaggio al popolo etrusco. Ma ci sono, anche loro interessanti, 600 reperti archeologici, di cui 200 mai mostrati al pubblico. Sono gli oggetti prestati dal Museo di Villa Giulia e quelli che provengono, e sono la maggior parte, dagli immensi, affollati depositi del museo napoletano, battezzati con il nome del carcere newyorkese di Sing Sing dal direttore Giulierini, che ha parlato anche del progetto di sistemarli in un più ampio spazio, organizzandoli in una sezione permanente.

Questi reperti ci suggeriscono l’emozione provata dai curatori nel frugare tra le migliaia di oggetti antichi che si trovano nei depositi del MANN e nello scegliere, in quell’affollato tesoro, quelli che ora possiamo vedere in mostra. Ci sono gli ossuari villanoviani, antichissimi vasi dalla singolare forma biconica, che contenevano le ossa incenerite dei morti, resti della loro cremazione.

Ci sono anche dei vasi cinerari etruschi, con il coperchio a forma di testa umana: i canopi. Si usarono fin quando l’incinerazione non fu sostituita dall’inumazione, cioè dal sotterramento dei corpi nella terra, una pratica, peraltro, propria della cultura greca. Ed ecco in mostra dei coperchi in terracotta di sarcofagi, rappresentanti delle figure sdraiate, forse meno mollemente delle contemporanee figure greche, e, sempre in terracotta, le forme vivaci delle antefisse, elementi della copertura dei tetti degli edifici non solo etruschi ma pure greci e romani.

Questa mostra ci informa anche della difficoltà, trovate dagli esperti, nello studio di questa civiltà, che sembra circondarsi volutamente di mistero. Per esempio, vi si possono vedere delle opere che hanno iscrizioni in lingua osca ma nella scrittura etrusca: un vero rompicapo. E vi si dimostra come ci sia stata, in alcuni periodi storici, una sovrastima degli etruschi, a cui vennero attribuiti anche vasi tipicamente greci.

Mentre, in altri periodi, invece, vi sia stata una sottostima o, forse, un’indifferenza, che ha prodotto la perdita di importanti manufatti. Un caso è quello della copia in gesso, anch’essa ora in mostra al MANN, di un importantissimo manufatto etrusco, conservato attualmente nell’ Altes Museum di Berlino. È una lastra in terracotta 60×50, la cosidetta “Tegola di Capua”.

La sua storia è esemplare di come, in quel momento, la civiltà del Sud Italia apparisse poco interessante, tanto che, nel 1898, il Ministero del Governo italiano concesse a quest’opera il permesso di espatrio, senza avere consapevolezza di che cosa si trattasse e della sua importanza. Si tratta di un calendario con le date delle cerimonie religiose dell’anno. È il testo in lingua etrusca più lungo che esista, dopo quello detto della “Mummia di Zagabria”, uno scritto su una striscia di lino lunga più di tre metri, che, in Egitto, era stata tagliata per farne bende con cui fasciare un morto.

Dal patrimonio del Museo di Villa Giulia provengono altri interessanti reperti, come quelli trovati nella tomba “Bernardini da Palestrina”, una sepoltura principesca del VII secolo a. C., che mostra la preziosità e la raffinatezza della fase etrusca che si ispira all’Oriente. In quel tempo c’era, non solo da parte degli etruschi, interesse per i prodotti orientali, come per esempio l’ambra, detta “electron” (da cui “elettricità”) dai greci, che osservarono il suo magnetismo.

Questa mostra, attraverso gli oggetti etruschi, parla pure dei collezionisti che ce li hanno conservati. Valentino Nizzo, oltre che del catalogo della mostra edito da Electa, è anche autore di un interessante opuscolo, della serie “Quaderni del Mann”, intitolato “Gli etruschi in Campania. Storia di una (ri)scoperta dal XVI al XIX secolo”.  Con il quale si chiarisce che la valanga di oggetti in mostra  non sono tutti di origine campana, ma molti sono frutto del collezionismo campano.

In Europa, iniziando dal Cinquecento, vi fu il gusto di collezionare oggetti, sia manufatti che opere naturali, rari per la loro particolarità. Le wunderkammer  erano delle grandi scatole, ma a volte delle vere e proprie camere, in cui si conservavano oggetti amati appunto per la loro singolarità. A Napoli il collezionismo fu molto attivo, soprattutto nel Settecento. In mostra c’è un bronzetto antichissimo, chiamato “l’offerente dell’Elba”, che fu acquistato, verso gli anni Settanta del Settecento, dal re Ferdinando IV di Borbone (1750/1825).

La conservazione di molti reperti è dovuta alla curiosità intelligente verso ogni manifestazione colta di questo re, passato invece alla storia come rozzo e ignorante. Alla Corte borbonica, gli oggetti preziosi per la loro bellezza o rarità venivano mostrati agli ospiti e, diventando mezzo utile ai rapporti diplomatici, venivano anche fatti dono e scambiati con le varie Corti europee. Questo scambio di doni era una antichissima usanza, addirittura risalente ai viaggi di Ulisse raccontati dal cumano Omero.

Lo ricorda Valentino Nizzo, che, inolte, ha affermato che a Napoli è nata la scienza archeologica. Nei commenti alla mostra del 2019 dedicata allo studioso cortonese  Marcello Venuti (1700/1755), è scritto che questi era andato a Napoli perché attirato dal vivace ambiente napoletano attivato dall’arrivo, nel 1734, di Carlo di Borbone. Da questo re, Venuti fu nominato curatore delle raccolte farnesiane e poi, nel 1738, degli scavi archeologici, che misero alla luce, come lo studioso avrebbe intuito, l’antica città di Ercolano.

Ma, soprattutto nel colto entourage  napoletano di sir William Hamilton, (1730/1803) gli antichi oggetti incominciarono a essere considerati, oltre che per la loro bellezza, anche come testimonianze storiche: ecco la nascita – afferma Nizzo – dell’archeologia moderna. Sir Hamilton fu ambasciatore inglese presso il re napoletano, autore di importanti pubblicazioni, mecenate di artisti; ma popolarmente è noto come marito della bellissma Emma Lyon, amica della regina Carolina e amante dell’ammiraglio inglese Horace Nelson.

L’archeologia vanta esimii archeologi napoletani – riferisce Valentino Nizzo, che cita, tra gli altri, Pietro Vivenzio. Questi “inventò” la sistemazione cronologica dei reperti in base allo studio della stratigrafia degli scavi e potè affermare che la città di Nola è di fondazione greca. Ma l’amore per la passione archeologica a Napoli rimase viva e giunge fino a noi.

Rosanna Romano, Dirigente Generale delle Politiche Culturali della Regione Campania, è istituzionalmente intervenuta alla presentazione della mostra napoletana sugli etruschi, per riferire che la Regione aveva sostenuto economicamente la sua realizzazione e per illustrare il progetto culturale-turistico di “mettere in rete” un “percorso etrusco” che, partendo da Capua e Pontecagnano, arriverebbe fino alla Toscana e oltre, e sarebbe sostenuto da un “Gruppo permanente di studio”.

Questo progetto è contemporaneo alla presentazione della realizzazione di un rafforzamento della rete ferroviaria campana, di cui ha parlato in questi giorni anche la tv, che interesserebbe soprattutto Salerno. Peraltro, è vanto delle comunicazioni regionali, favorite dal governatore De Luca, l’ampliamento del porto di Salerno e dell’aereoporto di Pontecagnano, che ora si sta per aprire pure ai voli europei.

È stato anche notato che l’attuale organizzazione regionale favorisce le comunicazioni marittime tra Salerno, Costiera amalfitana e le isole, mentre mira addirittura a far partire da Salerno il turismo per Pompei ed Ercolano, emarginando Napoli. Ciò fa parte di un piano complessivo che informa anche la politica culturale e la promozione di mostre come quelle, al MANN, dei Longobardi e degli Etruschi, Quella sui Longobardi, conclusasi nel marzo 2018, allestita con sfarzo spettacolare, anche nel titolo, “Longobardi. Un popolo che cambia la storia”, denunciava  l’esaltazione di questo popolo.

Certo i Longobardi ebbero la forza di unificare il Nord Italia in un regno, con capitale Pavia, che poi fu conquistato, come altre regioni europee, dai Franchi di Carlo Magno e fu inglobato nell’impero carolingio e nella sua organizzazione feudale. Ma la mostra, anche per il valore comunicativo del luogo dove si svolse, il museo napoletano, esagerava l’influenza che i Longobardi avrebbero avuto nel Sud Italia. Mentre le opere in mostra sembravano attribuire loro anche la tradizione locale precedente alla loro venuta e la sapienza  grecoromana della tradizione artistica benedettina.

Inoltre, i vari scritti in proposito parlavano dell’esistenza di loro ottimi rapporti con Napoli, dimenticando la notizia, a molti ormai nota, che la città, stanca dei ripetuti assalti longobardi, aveva chiamato a sua difesa i Normanni, che poi unificarono il Sud Italia in un Regno e fondarono, nel 1224, a Napoli, la prima università laica del mondo occidentale. La mostra “Gli Etruschi e il Mann”, invece, appare molto più puntuale nell’esame dei reperti e onestamene arribuisce la paternità greca a opere prima ritenute etrusche, sebbene non riconosca agli etruschi l’aggressività dimostrata durante il loro soggiorno campano.

Questa esaltazione dei Longobardi apparve come una promozione di Salerno, città di fondazione longobarda, che propone ancora oggi la sua presunta leadeship in Campania, non comprendendo il significato culturale di Napoli. Con questa osservazione qui non si propone un egoistico e miope napolicentrismo; anzi.

Il successo della mostra attualmente nella Reggia – Museo di Capodimonte “Napoli Napoli di lava, porcellana e musica” suggerisce, invece, che questa città, con le sue tradizioni, la sua fondazione magnogreca, l’importanza del suo passato, il numero e la bellezza dei suoi monumenti, la sua tradizione culturale, letteraria, artistica e filosofica, la sua musica e tanto d’altro, potrebbe diventare una sorta di brand, per una efficace promozione turistica della Campania e di tutto il Sud. Solo se si parlasse di lei con verità e se  la si lasciasse vivere.

Adriana Dragoni

fonte

http://www.agenziaradicale.com/index.php/cultura-e-spettacoli/mostre/6281-gli-etruschi-e-il-mann-al-museo-archeologico-nazionale-di-napoli

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