Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

IL 1799 Ideali ed eventi nel Salernitano (IV) intervento di Antonio Cestaro

Posted by on Lug 7, 2022

IL 1799 Ideali ed eventi nel Salernitano (IV) intervento di Antonio Cestaro

L’EPISCOPATO MERIDIONALE NELLA RIVOLUZIONE DEL 1799

  1. In occasione della ricorrenza del Bicentenario della ri­voluzione napoletana del 1799, come già avvenne un secolo fa, gli studiosi continuano ad interrogarsi sulle vicende di quella rivoluzione per cogliervi, al di là degli eventi ormai più o meno noti, le componenti essenziali, le linee culturali e politiche, le ragioni e le motivazioni di atteggiamenti di versi e contrapposti.

Allora, in occasione del primo centenario, dominava ancora la cosiddetta storiografia del martirologio ed era più che naturale che prevalessero spiriti patriottici, al punto da attribuire a quella rivoluzione il merito di aver dato inizio al processo di unificazione nazionale[1].

Oggi, come ci si pone dinanzi alle drammatiche e tragi­che vicende del 1799 nel regno di Napoli? Con quale ba­gaglio di conoscenze e di interpretazioni, affiorate anche re­centemente in occasione delle celebrazioni del Bicentenario della “grande rivoluzione”?

Certo, sono state accantonate e superate le letture del 1799 o tutte “nazionalistiche” o tutte “sociali”; possediamo una mappa delle “insorgenze” nelle province abbastanza ar­ticolata, sebbene la produzione storica locale lasci ancora a desiderare; abbiamo più precise notizie sullo svolgimento dei fatti e sui protagonisti dell’una e dell’altra parte, vale a dire dei repubblicani-giacobini e dei realisti-sanfedisti.

In breve, abbiamo un quadro generale del 1799 nei suoi rilevanti aspetti politici, economici e sociali arricchitosi gra­zie ai contributi di illustri studiosi che hanno fermato la loro attenzione su fondamentali problemi di metodo e di merito concernenti uomini e cose del 1799[2].

Quel che ancora predomina nella lettura del 1799, come hanno fatto notare illustri studiosi, è una visione manichea del periodo rivoluzionario: la borghesia da una parte e la plebe dall’altra, la moderazione illuminata e l’esplosione di rivendicazioni sociali spesso ammantate di sanfedismo.

Quel che è mancato, a mio avviso, è stata un’analisi at­tenta delle motivazioni circa l’adesione alla repubblica o alla controrivoluzione; una approfondita disamina delle scelte dell’episcopato; un’analisi culturale e antropologica del fe­nomeno sanfedista nelle sue essenziali coordinate di movi­mento religioso-popolare, di reazione antifeudale e antibor­ghese, di lealismo monarchico. In generale, si può dire che è stata finora poco considerata la componente religiosa, fi­nita sullo sfondo del quadro storico e del tutto confusa sotto il comune denominatore di sanfedismo. È stato quasi del tutto trascurato l’aspetto delle pratiche religiose durante la rivoluzione, a differenza di quel che è stato fatto in Francia nel “Colloquio di Chantilly” (novembre 1986), nei cui atti, pubblicati nel 1988, figurano pure notazioni di grande rilievo negli interventi di G. De Rosa, di F. Agostini, di M. Caffiero, di L. Fiorani e di G. Signorotto[3].

Non è mia intenzione affrontare in questa sede tutti i sopra accennati aspetti e problemi. Vorrei soltanto richiamare l’attenzione sull’episcopato meridionale e sulle sue scelte di campo durante la rivoluzione, non per soffermarmi su una semplice elencazione dei vescovi schierati con l’una o con l’altra parte, bensì sulle motivazioni, sulle ragioni di quelle scelte e sui riflessi che ebbero sugli eventi del ’99.

  • L’episcopato, per l’autorità ed il prestigio di cui era ri­vestito, svolse certamente un ruolo importante durante la ri­voluzione. Si può dire, anzi, che nel generale declino dei pubblici poteri dopo la fuga del Re, rappresentò l’unica au­torità, l’unico punto di riferimento cui si rivolsero sia i re­pubblicani che i realisti allo scopo di ottenere una qualche legittimazione, in un momento in cui le situazioni precipita­vano e gli eventi incalzavano con notevole rapidità.

All’episcopato si rivolsero, come è noto, sia il ministro dell’interno della Repubblica, l’abate Francesco Conforti, sia il card. Ruffo dopo lo sbarco in Calabria, avvenuto l’8 febbraio 1799, per averlo dalla propria parte e coinvolgerlo in un’azione di mediazione nell’aspro scontro sociale e po­litico nelle province, ove le “insorgenze” andavano assu­mendo proporzioni sempre più vaste e devastanti[4].

Molti vescovi, come sappiamo, intervennero solenne­ mente insieme al clero e al popolo all’erezione dell’Albero della libertà, celebrarono i Te Deum e inneggiarono alla neonata repubblica. Molti altri furono chiamati a presenziare o addirittura a presiedere le assemblee per l’elezione dei membri delle Municipalità, in cui figurarono spesso Vicari Generali di Diocesi, membri di Capitoli Cattedrali, espo­nenti del clero locale. Dall’altra parte, altri vescovi, come ministri e plenipotenziari del card. Ruffo, organizzarono nelle loro Diocesi le masse popolari sotto le bandiere della Santa Fede e diedero man forte alla controrivoluzione.

In nessun altro evento rivoluzionario della storia del Mezzogiorno – basterebbe pensare al 1820-21, al 1848, al 1860 – la partecipazione dell’episcopato, insieme al clero secolare e regolare, fu così imponente come nel 1799, sia che si schierasse dalla parte repubblicana che da quella con­ trorivoluz1onana: un aspetto anche questo certamente degno di essere approfondito e studiato; insieme alle peculiarità proprie della rivoluzione napoletana rispetto alle altre repubbliche nate nella penisola dopo il dilagare delle armate napoleoniche nella pianura padana nel 1796.

Trenta e più vescovi, come sappiamo, aderirono alla repubblica sin dall’inizio, con varie motivazioni; ne condivi­sero e ne sostennero le istanze ideali; subirono, infine, condanne a morte o all’esilio, con coraggio e fierezza. Altri, con non meno forti motivazioni, si schierarono a difesa del trono e dell’altare, sostenendo la spedizione del card. Ruffo per la riconquista del regno.

Uno studioso della seconda metà dell’Ottocento che scri­veva nel 1894 con lo sguardo rivolto all’imminente primo centenario del 1799, riferendosi a tale situazione del tutto nuova nella storia del regno, è giunto persino a parlare di “scisma politico” nella Chiesa meridionale, in riferimento alla profonda spaccatura avvenuta nell’episcopato, nel clero, negli Ordini religiosi. Non certo di scisma si può parlare a proposito del 1799, anche se non si può discono­scere che l’espressione ha una sua efficacia icastica, intesa a connotare un evento singolare nella storia del Mezzogiorno che si inseriva perfettamente nell’assunto centrale dell’A., il quale, discostandosi dalle altre correnti interpretazioni, pre­sentava il 1799 come una “insurrezione oltre che plebea es­senzialmente clericale”[5].

Il problema, a mio avviso, è di capire e spiegare come fu possibile allora una simile spaccatura e come si articolò e si 1nanifestò nell’insieme dell’episcopato e nei singoli presuli, con incidenze, ancora tutte da valutare, nei suoi esiti sia po­litici che religiosi.

  • L’episcopato meridionale era allora in gran parte di formazione recente. Molti vescovi avevano ricevuto la nomina nel 1792 e nel 1797, vale a dire dopo la visita di Ferdinando IV al Papa di ritorno da Vienna nel 1791, che pose fine al lungo dissidio tra Stato e Chiesa circa la nomina nelle sedi vacanti. Da più di un ventennio i rapporti Stato-Chiesa erano divenuti molto tesi e conflittuali sia nel periodo della Reggenza (1759-1768) sia sotto i ministeri del marchese della Sambuca (1776-1785) e di Domenico Ca­racciolo (1786-1789). Tale periodo fu dominato da rilevanti episodi, come l’espulsione dei Gesuiti (1767), le controver­sie circa le provviste o nomina dei vescovi fatta dal Papa senza le cosiddette Reali Commendatizie (i casi delle sedi vacanti di Potenza e di Oria); l’abolizione dell’omaggio della Chinea (1788); il R. Dispaccio dell’11 ottobre 1780 sulle chiese vescovili vacanti da circa dieci anni affidate ai vescovi di diocesi finitime; le Badie e le Prelature del regno dichiarate di Regio Patronato; la Badie ridotte a Commende Costantiniane[6].

Sotto il ministero Acton (1789-1799) la politica napole­tana subì un mutamento di rotta soprattutto in relazione agli eventi rivoluzionari di Francia che avevano messo in al­larme e in apprensione le monarchie europee e la stessa Chiesa, in concomitanza con la diffusione delle dottrine gianseniste, giurisdizionaliste e anticurialiste che a Napoli avevano trovato, nell’ambito del riformismo della seconda metà del Settecento, un terreno fertile già preparato da grandi maestri di pensiero come Genovesi, Filangieri, Galiani, attenti e protesi a rivendicare la piena autonomia del regno, divenuto indipendente nel 1734, con la nuova dina­ stia dei Borbone.

La conflittualità Stato-Chiesa si era fatta sempre più aspra anche rispetto ai tempi del pesante giurisdizionalismo spagnuolo e austriaco, stravolgendo anche quegli accordi sanciti nel Concordato del 1741, che era considerato un grande successo della politica ecclesiastica carolina e tanuc­ciana. Lo scontro avveniva ora su una materia delicata quale era quella della nomina dei vescovi nelle sedi vacanti oltre a quelle di patronato regio (17 tra arcivescovati e vescovati) già contemplate nella concessione di Clemente VII a Carlo V del 1530.

Nel 1784, da più di otto anni, oltre trenta diocesi con circa un milione di anime, erano rimaste senza vescovo. Erano quelle che venivano definite «le vedove» che invano avevano fatto sentire i loro lamenti con suppliche al Re, al Papa, ai Ministri per sottolineare le conseguenze per la religione e per il popolo dalla prolungata vacanza di molte sedi diocesane[7].

La materia del contendere non era, però, solo quella relativa alle sedi vacanti: c’era anche la questione dei Tribunali ecclesiastici, la giurisdizione del Nunzio, il “ribasso delle provviste”. Negli incontri tra il Papa e il Re di Napoli nel 1791 a Roma era stato raggiunto l’accordo soltanto su di un punto, mentre gli altri furono accantonati: il Papa concedeva al Re la nomina a tutti i vescovati del regno; il Re, a sua volta, avrebbe proposto o meglio presentato persone scelte tra le più degne. L’istituzione, la spedizione delle Bolle e la consacrazione sarebbero spettate al Papa[8].

“È diffusa opinione – ha scritto Giuseppe Nuzzo – che la sosta a Roma dei Sovrani di Napoli reduci, nell’aprile 1791, dalla Germania, e le conferenze da essi avute col Pontefice, conclusesi con un affrettato e parziale componimento delle vertenze tra le due Corti, segnino un momento decisivo nel declinare del movimento riformatore borbo­nico. L’incubo degli avvenimenti francesi avrebbe indotto le due parti, e soprattutto la monarchia, a deporre le armi, e da quell’accordo avrebbe tratto vigore nel Regno la reazione”[9].

La prova evidente di un mutamento di rotta nella politica ecclesiastica borbonica si ebbe allora con l’allontanamento dal dicastero dello Ecclesiastico e di Grazia e Giustizia del marchese Carlo De Marco, sostenitore dell’indirizzo anticu­rialista e deciso difensore delle prerogative sovrane nei con fronti della S. Sede[10].

  • Nel 1792 si poté, così, dar corso alle nomine vesco­vili nelle molte sedi vacanti (62 su 130) che Ferdinando IV coprì con personale scelto per lo più fra i docenti nei Semi­nari, tra il clero colto e tra i regalisti di sicura fede borbo­nica. Altrettanto avvenne nel 1797, alla vigilia dell’adesione del regno di Napoli alla coalizione antifrancese. La conse­guenza fu che il nuovo personale vescovile destinato in sedi restate vacanti per tanti anni, non fece nemmeno in tempo ad avere piena cognizione dei problemi e dello “stato” delle proprie diocesi che subito si trovò coinvolto nella tempesta rivoluzionaria.

Nel 1792, tra gli altri, furono nominati: fra Ludovico Lodovici, dei Minori Osservanti, alla sede di Crotone; fra Silvestro Miccù, del medesimo Ordine, alla sede di Scala e Ravello; Bernardo Maria Della Torre alla sede di Marsico Nuovo (poi traslato a Lettere e Gragnano nel 1797); Fortu­nato Pinto alla sede di Tricarico. Nel 1797 furono nominati, tra gli altri, Michele Arcangelo Lupoli alla sede di Montepe­loso (Irsina), Filippo Ferrone a Muro Lucano, Carlo Maria Rosini a Pozzuoli, Michele Natale a Vico Equense, Salva­tore Spinelli a Salerno, Rocco Coiro a Crotone, Camillo Cattaneo Della Volta a Matera e Acerenza[11].

Si tratta, come si può arguire dai nomi, di vescovi che ebbero una parte rilevante nelle vicende del 1799. Non sempre, però, i vescovi nominati nel 1792 e nel 1797, su designazione di Ferdinando IV per il loro attaccamento alla monarchia, si mostrarono tali nelle contingenti e mutevoli situazioni in cui si trovarono a fare le loro scelte. A parte quelli di sicure convinzioni riformatrici, auspicanti una riforma religiosa-ecclesiastica da avviare con la collabora­ zione dello Stato, tra i quali vanno ricordati il vescovo di Potenza Andrea Serrao, il vescovo di Lettere e Gragnano Bernardo Della Torre, di Vico Equense Michele Natale, di Taranto Giuseppe Cepecelatro, si può dire che l’adesione alla repubblica di altri presuli fu dovuta a particolari contin­genze locali e quasi sempre per stato di necessità.

In generale potremmo ridurre a tre i gruppi e le relative motivazioni circa l’atteggiamento dell’episcopato meri­dionale:

  1. coloro che aderirono alla repubblica per necessità e per forza maggiore, allo scopo di limitare i danni e le con­seguenze, per salvaguardare la propria posizione econo­mica, i benefici e le terre sia dalle espropriazioni sia dalle rivendicazioni popolari;
  2. i giansenisti ed i regalisti delusi dal contraddittorio ri­formismo borbonico che dalla repubblica si aspettavano l’attuazione delle riforme (Serrao, Capecelatro, Forges Da­vanzati vescovo di Canosa dal 1785, l’abate Giuseppe Cestari);
  3. i giacobini, convinti sostenitori di una giustizia sociale (Jerocades, Lauberg, Salfi)[12] 

In quelli, invece, che più decisamente si schierarono dalla parte della Santa Fede, prevalse la convinzione, largamente sostenuta e propagandata sin dal 1794 da società e libelli ecclesiastici, che la lotta alla Chiesa ed alla religione non era che il primo passo per la distruzione del trono. Per questi Prelati ci fu una specie di investitura dall’alto da parte del card. Ruffo, nel corso della spedizione, che nominò alcuni vescovi suoi ministri plenipotenziari, con il compito di arruolare bande armate, di estirpare gli alberi della libertà e di abbattere la repubblica. Fu questo il caso del vescovo di Policastro Lodovici, del vescovo di Mileto Capece Minu­tolo, del vescovo di Capaccio Torrusio[13].

In molti casi la maggior parte dell’episcopato fu trasci­nata dagli eventi, in una situazione che non offriva sicuri punti di riferimento: il papa Pio VI era in esilio e morirà a Valenza nell’agosto 1799; a Napoli funzionava una Com­missione Ecclesiastica nominata dal Governo Provvisorio che diffondeva istruzioni e circolari in senso repubblicano; i rapporti con Napoli e con le sedi metropolite erano resi dif­ficili a causa delle “insorgenze”. Sull’atteggiamento di gran parte dell’episcopato influirono, comunque, due documenti: la Lettera pastorale a favore della Repubblica dall’arcivescovo di Napoli, l’ottuagenario Giuseppe Capece Zurlo, sebbene estorta e pubblicata a sua insaputa, come è stato dimostrato, e la Lettera pastorale del vescovo di Imola, Barnaba Chiaramonti, eletto poi Papa con il nome di Pio VII nel conclave tenuto a Venezia nel 1800, in cui si richia­mava la lettera di S. Paolo sull’obbedienza dovuta all’auto­rità costituita, quale che essa fosse[14].

A quest’ultimo modello di comportamento – come ha rilevato Pietro Pieri – si appigliarono nei processi i vescovi detenuti nelle carceri di Castelnuovo a Napoli, dopo il crollo della Repubblica, conseguendo quasi tutti l’assoluzione o l’indulto (da ricordare i casi del Capecelatro, del Lupoli e dell’arcivescovo di Salerno Spinelli)[15].

  • L’episcopato – quello che restò in diocesi – dovette fronteggiare e affrontare non pochi problemi, primo fra tutti, la frattura che si era venuta a creare tra il basso clero ed i vescovi, specie là dove i più illuminati, fautori delle posizioni riformatrici ed anticuriali della monarchia borbonica, si resero disponibili a collaborare con i repubblicani napoletani sia assumendo cariche pubbliche sia divulgando le istruzioni governative tra i fedeli, in nome di una Chiesa da ricondurre all’originario spirito di eguaglianza e di povertà evangelica.

Lo strumento adoperato fu ancora quello della tradizione, le Lettere Pastorali, con cui i Presuli cercarono di dare un senso cristiano alle parole libertà, eguaglianza, fraternità allora ricorrenti e ribadire, nello stesso tempo, il principio espresso da San Paolo nella Lettera ai Romani (XIII, 1-2) secondo cui si deve obbedienza a qualunque autorità costituita, perché proveniente da Dio. Sono le Pastorali cosiddette “giacobine”, delle quali non ci sono pervenute che poche notizie, tutte rivolte ai parroci ed ai fe­ deli per esortarli a collaborare con le nuove autorità e ad evitare tumulti e sommosse. Oltre a quella di G. M. Capece Zurlo, arcivescovo di Napoli, siamo a conoscenza anche di altre, come quella del Gamboni vescovo di Capri, del Della Torre vescovo di Lettere e Gragnano, di Carlo Maria Rosini vescovo di Pozzuoli[16].

Tali documenti pubblici largamente diffusi non potevano passare inosservati ai Borbonici ed alla famiglia reale fug­gita a Palermo. La regina Maria Carolina, nella sua nota corrispondenza intrattenuta con il card. Ruffo, non man­cava di segnalare quanto veniva a sua conoscenza.

“(…) I vescovi, i sacerdoti ed i monaci – scriveva il 14 aprile 1799 – sono quelli, a mio senso, più rei. Per conoscerli bastano i loro numerosi stampati da loro stessi fir­ n1ati” (Lettera XVI). Il 21 giugno poi, dopo il crollo della Repubblica, la Regina dava disposizioni su quegli esponenti dell’episcopato che si erano distinti come fautori dei “giacobini”: “Una delle prime e necessarissime operazioni da fare – scriveva – è dimettere, e rinchiudere il Cardinale Arcivescovo in un convento a Montevergine o in altra parte fuori della sua diocesi per scimunito, mentre solo sotto di questo titolo si può diminuire la sua grave reità; e come reo e come scimunito non dev’essere più il pastore d’un gregge che ha cercato, con le sue pastorali, indurre in errore (…). Vi sono molti altri Vescovi nello stesso caso, la Torre [Della Torre], Natale di Vico Equense, Gamboa [Gamboni], Rosini malgrado il Te Deum, ma vi è pure la pastorale stampata. Taranto [Capecelatro] e molti altri che provati ribelli, non possono restare a governare le loro Chiese” (Lettera XXX)[17].

Come è noto, durante la reazione il vescovo Della Torre fu espulso dal regno e vi rientrò solo nel 1806 come Gran Vicario della diocesi di Napoli; il vescovo Natale, autore di un noto “Catechismo repubblicano” fu condannato a morte; il vescovo Gamboni fu esiliato e fu nominato poi Patriarca di Venezia, il vescovo Rosini – uno dei primi studiosi dei Papiri ercolanesi – fu processato e solo nel 1802 fu reintegrato nelle sue funzioni di vescovo di Pozzuoli. Sempre nel 1802, dopo il carcere e il processo, al Capecelatro “fu insinuato di rinunciare alla sua Chiesa e gli fu assegnata una onesta pensione sopra quella Mensa”; uguale “insinuazione” fu fatta dal ministro dell’Ecclesiastico a mons. Coiro vescovo di Crotone “con 400 ducati di pen­sione”, mentre, nel contempo, si consentiva il ritorno in diocesi anche a mons. Lupoli vescovo di Montepeloso[18].

Anche da parte sanfedista si fece ricorso alle Lettere pastorali: una ne scrisse il card. Ruffo rivolta ai vescovi ed ai parroci. Anche il vescovo Lodovici, appena nominato mi­ nistro plenipotenziario, diffuse una pastorale in cui riportò quella del Cardinale, come ci attesta un biografo del Ruffo, l’abate Domenico Sacchinelli, il quale fu al suo seguito nella spedizione dalla Calabria a Napoli.

Sappiamo che da tali Lettere pastorali le popolazioni nel Vallo di Diano e nel Cilento ricevettero forti incitamenti ad abbattere gli “alberi della libertà” e ad organizzarsi in bande armate che, nel Vallo di Diano proruppero in efferati episodi di stragi e di violenze, di cui la vittima più illustre fu il giureconsulto Diego Gatta, autore della Collezione dei Reali Dispacci, prete partecipante della Chiesa ricettizia di S. Stefano di Sala Consilina, la cui casa fu distrutta e la biblioteca fu incendiata dalle masse degli “insorgenti”. Diego Gatta riuscì a stento a salvarsi ed a rifugiarsi presso i suoi parenti a Eboli, ove morì nel 1804[19].

  • Molti sono gli aspetti e gli episodi concernenti il com­portamento dell’episcopato meridionale sui quali ci si po­trebbe soffermare per gettare nuova luce sulle vicende del 1799, su casi, come quello ad esempio dell’arcivescovo di Taranto Giuseppe Capecelatro, del vescovo di Montepeloso Lupoli, del vescovo di Crotone Coiro, del vescovo di Muro Lucano Ferrone e di Carlo· Maria Rosini vescovo di Pozzuoli, dai quali si possono trarre elementi di valutazione che possono dare una concreta immagine di quanto articolato e vario fosse allora il quadro complessivo dell’atteggiamento dell’alto clero.

Emblematico ci sembra il caso della Basilicata ove due vescovi impersonarono due diverse ed opposte scelte di campo: il vescovo di Potenza Andrea Serrao e il vescovo di Policastro Ludovico Lodovici[20].

Serrao, sin dall’inizio si impegnò a sostenere il governo repubblicano e finì, poi, il 24 febbraio, vittima di contrapposte fazioni locali che si autodefinirono rivoluzionarie e controrivoluzionarie. Lodovici, nel mese di marzo, fu nominato dal card. Ruffo generale dell’Armata Cristiana e ministro plenipotenziario nella provincia di Principato Citeriore.

Sul Serrao, dopo l’ottimo lavoro di Elvira Chiosi, possediamo ora un buon profilo storico-biografico in cui “l’apologia e la crisi del regalismo nel Settecento napoletano” – come si legge nel sottotitolo del volume – è delineata nella sua lunga parabola, con acuta e intelligente comprensione del personaggio, troppo a lungo fatto passare per giacobino tout court e, come tale, ricordato dal Grégoire nell’Assemblea di Parigi. In realtà egli fu un convinto e combattivo regalista ed anticurialista nonché fautore di una riforma della Chiesa da ricondurre alle sue origini evangeliche[21].

In qualità di “delegato” dal Governo Provvisorio di Na­ poli Serrao convocò il parlamento cittadino per eleggere la Municipalità e formare la Guardia Civica. La presidenza della Municipalità fu affidata al Vicario Generale della Diocesi, Domenico Vignola; a capo della Guardia Civica – su designazione dello stesso Serrao – fu eletto Francesco Gia­comino, un facinoroso e violento, già disertore, scelto forse con l’intento di utilizzare un capobanda per assicurare, in qualche modo, il mantenimento dell’ordine pubblico. Fatto sta che, più che uno scontro tra giacobini e sanfedisti, vi fu allora a Potenza una specie di regolamento di conti tra op­ poste fazioni di famiglie locali in lotta per il potere, tra le quali un ruolo decisivo giocarono certamente il feudatario conte Loffredo ed i fratelli Addone, mentre nel contempo in tutta la regione scoppiavano le “insorgenze” con alterne vi­cende. La diocesi restò sede vacante fino al 1804. Il ve­ scovo Lodovici era giunto a reggere la diocesi di Policastro nel 1797, proveniente dalla piccola diocesi di Crotone in Calabria, di appena 4 mila abitanti. Apparteneva all’Ordine dei Minori Osservanti di S. Francesco, al cui interno aveva percorso un rapido e brillante curriculum come dottore in Teologia e in Sacre Scritture, nonché come valente e ricer­cato predicatore sia in provincia che a Napoli, ove era stato chiamato a far parte dell’Arcadia Reale con il nome di Eri­steneo Tespiense[22]. Quando era vescovo di Crotone, nel 1794 vi dedusse una “colonia” di cui divenne vice-custode. Come quella napoletana anche la “colonia” crotonese si proponeva la difesa della religione e della monarchia contro le dottrine provenienti dalla Francia. Sulla penetrazione e ramificazione nelle province di tali Circoli culturali fino a pochi anni or sono non si è rivolta molta attenzione da parte degli studiosi e si è continuato a considerarli soltanto sotto il profilo letterario, come stanche e ripetitive propaggini dell’Arcadia napoletana[23].

Dobbiamo ad Elvira Chiosi un nuovo e diverso approc­cio al variegato mondo dell’accademismo settecentesco, come espressione di “quella cultura dell’alleanza tra Santa Fede e monarchia” soprattutto per quel che riguarda “l’offensiva sia contro i principi dell’Illuminismo e del ra­zionalismo, sia contro quelli del giansenismo, considerati tutti eversivi della società civile e del suo assetto politico e religioso”[24].

Forse, si è sottovalutata la presenza di tanti Circoli cultu­rali e accademici operanti nelle province, che, quando si formò a Napoli il governo provvisorio della Repubblica, si trasformarono in gruppi clandestini, ai quali aderirono nu­merosi soci sia tra gli ecclesiastici che tra la borghesia e la nobiltà, dai quali promanarono impulsi ed iniziative a difesa del trono e dell’altare, che – a parte ogni altra considerazione di ordine sociale contingente – spiegano la capillare propaganda sanfedista in tutti i ceti sociali nonché quel notevole spiegamento di forze che strinse, come in una morsa, l’estrema eroica resistenza della Repubblica.

II vescovo Lodovici, dunque, aveva alle spalle un pas­sato di intensa attività svolta all’interno dell’Accademia dei Sinceri Laureati dell’Arcadia Reale, il cui “Gran Protettore” era Ferdinando IV, fondata e fusa con l’Accademia Aletina nel 1794; continuò a farne parte ancora nel 1799 e certamente utilizzò la fitta rete degli aderenti e dei soci durante il periodo in cui divenne il braccio destro del card. Ruffo e poi durante la reazione borbonica, nel corso della quale dimostrò tanta energia e fermezza da essere prescelto tra i sei Visitatori Generali delle province, per ristabilire l’ordine nelle amministrazioni locali – ove regnava una vera e propria anarchia – e processare tutti coloro che avevano occupato cariche pubbliche sotto il regime repubblicano[25]. Con R. Dispaccio del 22 luglio 1799, Lodovici fu nominato Visitatore Generale nelle province di Montefusco, Capitanata, Contado del Molise e Trani, nel quale incarico si distinse nettamente rispetto agli altri Visitatori per il suo senso di giustizia, di equità e di generosità, come ebbero a testimoniare poi gli stessi “giacobini” e come riferì nel suo “Diario napoletano” (Napoli 1906) Carlo De Nicola, attento e imparziale cronista del suo tempo, nonché gli storici borbonici – dal Petromasi al Sacchinelli al Cimbalo -, lo stesso Pietro Colletta e, infine, Francesco Scandone, lo storico dell’Irpinia, in un’ampia e documentata ricerca sul periodo rivoluzionario, con particolare riferimento alla provincia di Montefusco[26].

  • La patina di patriottismo, con cui si è voluto rivestire per lungo tempo gli eventi del 1799, con l’occhio rivolto più al futuro della storia del regno borbonico che all’epilogo di almeno un trentennio del Settecento, ci ha, forse, impe­dito finora di valutare adeguatamente le cose e gli uomini di quell’anno drammatico e tragico.

Rivoluzione e controrivoluzione, giacobinismo e sanfe­dismo sono ormai termini, forse, un po’ troppo usurati in modo manicheo per poter abbracciare e capire tutto il dramma di un popolo che, in un modo o nell’altro, – per la prima volta nella sua storia – fu coinvolto come in un grande crogiuolo di fuoco e di sangue, da cui si attendeva una rinascita e un mondo migliore. Forse, si dovrebbero superare le ormai consuete contrapposizioni e guardare più attentamente all’insieme di tutto un popolo che, già relegato sullo sfondo del quadro storico, irrompe sulla scena e assume il posto dei protagonisti in nome della libertà o in nome del Sovrano come tutore dei diritti del popolo. L’episcopato meridionale, pur con le sue luci e le sue ombre, ha avuto anch’esso i suoi martiri ed i suoi eroi. Sia da una parte che dall’altra, alla base degli opposti schieramenti, c’era la riaffermazione dei valori religiosi – unica àncora di salvezza in un mondo in cui tutto crollava da ogni parte – e l’aspirazione ad una Chiesa rinnovata e più fedele ai principi del Vangelo.

Antonio Cestaro
Università di Salerno


[1] B. CROCE, Storia del regno di Napoli. Bari 1965 6. I giacobini di Napoli furono “i primi che dettero il grido all’Italia sonnacchiosa” (p. 228).

[2] A. M. RAO, “La Repubblica napoletana del 1799” in Storia del Mezzogiorno. Ed. del Sole Roma 1986 voi. IV; EAD., “Temi e tendenze della recente storiografia sul Mezzogiorno nell’età rivoluzionaria e napoleonica” in A. CESTARO – A. LERRA, (a cura di) Il Mezzogiorno e la Basilicata fra l’età giacobina e il Decennio francese. Venosa 1992 vol. I.

[3] Pratiques religieuses dans l’Europe revolutionnaire (1770-1820). Actes

du Colloque Chantilly 27-29 novembre 1986 (a cura di P. Lerou et R. Dartevelle, sotto la direzione di B. Plongeron) Brepols Turnhout, 1988.

[4] La circolare di F. CONFORTI “Ai cittadini arcivescovi, vescovi e prelati” è in M. BATTAGLINI, La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli. Messina-Firenze 1973; l’Enciclica del card. Ruffo è riassunta in D. SACCHINELLI, Memorie storiche sulla vita del card. Fabrizio Rufio. Napoli 1836 p. 93. Per l’abate CONFORTI cfr. P. VILLANI, “Contributo alla storia dell’anticurialismo napoletano: l’opera di G. F. CONFORTI” in Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari 1962.

[5] F. P. CESTARO, Il vescovo di Policastro e la reazione borbonica del 1799 in “Studi storici e letterari”. Torino-Roma 1894 pp. 327-328

“Si sa che trenta e più vescovi – scrive il Cestaro – e in grandissimo numero preti e frati, riconobbero la repubblica e patirono persecuzioni e fin la morte per la causa a cui generosamente s’erano votati. Lo scisma politico della Chiesa napoletana, nel 1799, è uno dei fatti più singolari e degni di studio di quel singolarissimo avvenimento. Il cardinale arcivescovo di Napoli condanna come impostore il cardinale vicario, spacciatosi. come corse voce, per papa ai semplici e creduli calabresi; i vescovi di Potenza, di Vico. di San Severo, di Gragnano. di Gaeta. di Taranto, ingiungono ai fedeli di essere sottomessi e devoti all’autorità costituita, e insegnano che. la democrazia è la più conforme alla dottrina di Cristo, mentre quelli di Mileto, di Policastro, di Capaccio, organizzano bande ed eccitano le plebi fanatiche alla ribellione; preti e frati compongono messe repubblicane, voltano il Vangelo in dialetto, predicano a pié dell’albero la religione della libertà e dell’uguaglianza, mentre altri scendono in campo armati di Cristi e di pugnali, e prendono parte agli eccidi e ai saccheggi; vescovi repubblicani, condannati alle forche. sono dissacrati da vescovi borbo­nici”.  Ruggero Moscati (“A Eboli nel 1799” in Una famiglia borghese del Mezzogiorno. Napoli 1964). riferendosi a quel saggio. pone in rilievo nel lavoro del Cestaro “la coscienza instintiva della funzione tutoria esercitata dall’autorità regia a pro delle classi popolari in uno stato feudale (…) un elemento da cui non si può prescindere per comprendere gli avvenimenti del ’99”.

[6] E. CHIOSI, A. Serrao: apologia e crisi del regalismo nel Settecento napoletano. Napoli 1981. L’ A. ricorda come Serrao divenne vescovo … di prepotenza, a causa delle difficoltà opposte dal Papa Pio VI alle rimo­stranze in difesa della regalia da parte napoletana, che alla fine si risolse a favore della monarchia. In Appendice I’ A. pubblica i “Carteggi sulla nomina episcopale” del Serrao (pp. 417-428).

[7] ANONIMO, Lamenti delle vedove ovvero rimostranze delle vacanti Chiese del Regno di Napoli. Filadelfia 1784 (l’opera era in più volumi).

[8] G. NUZZO, La monarchia delle Due Sicilie tra ancien régime e ri­voluzione. Napoli 1972, p. 207.

[9] G. NUZZO, op. cit. p. 232

[10] A. PANAREO, Il ministro Carlo De Marco e la politica ecclesiastica napoletana dal 1760 al 1798 in “Studi Salentini”1, 1956.

[11] Michele Arcangelo Lupoli fu vescovo di Montepeloso dal 1797 al 1818, di Conza dal 1818 al 1831 e di Salerno dal 1831 al 1834. Da giovane, insieme agli studi biblici, patristici e teologici aveva coltivato con partico­ lare passione gli studi di antichità classiche e di epigrafia latina. Dopo aver dato apertamente la sua adesione alla Repubblica, assistette all’erezione dell’Albero della libertà ed all’elezione della Municipalità. Ma, quando giunsero le masse sanfediste, è costretto a lasciare la sua sede ve­scovile e a ritirarsi prima a Tricarico, poi a Spinazzola e infine a Frattamaggiore sua città natale. Alla fine del 1799 viene accusato di essere stato il responsabile dei tumulti e degli scontri avvenuti in città. Il 18 marzo I 800, mentre si accingeva a partire per Palermo per conferire diret­tamente col Re viene arrestato e tradotto nelle carceri di Castel Nuovo, ove restò per 14 mesi fino al 180 I. Il 10 giugno 1802, firmato il decreto reale della sua completa riabilitazione fece ritorno nella sua diocesi, dopo 27 mesi di lontananza.

Cfr. A. CESTARO, Le diocesi di Conza e di Campagna nell’età della restau­razione. Roma 1971 pp. 47-51; P. PIERI, Il Regno di Napoli dal luglio l 799 al marzo I 806 in “Archivio Storico per le provincie napoletane” Nuova Serie a. XII – Xlll (1926-27). M. JANORA, Dai moti del 1799 alle ri­trattazioni dei Carbonari. Potenza 1905 pp. 33-83 Filippo Ferrone fu vescovo di Muro Lucano dal 1797 al 1826. Si dimise, per motivi di salute e morì all’età di 90 anni.

Cfr. L. MARTUSCELLI, Numistrone e Muro Lucano: note, appunti e ricordi storici. Napoli 1896 (ristampa anastatica del 1982)

Carlo Maria Rosini, già professore nella R. Università degli studi di Napoli come interprete delle Sacre- Scritture e Accademico Ercolanese, fu nominato vescovo di Pozzuoli nel 1797. Il 27 gennaio 1797 il gen. Championnet lo nominò fra i membri della classe IV di Lettere e Belle Arti dell’Istituto Nazionale insieme ad altri illustri intellettuali. Anche Rosini sperò che il governo repubblicano attuasse le riforme ecclesiastiche nello spirito di eguaglianza e di povertà. Nel mese di aprile stampò una lettera pastorale sulla linea di quella del card. G. Capece Zurlo arciv. di Napoli. Quando crollò la Repubblica diede alle stampe una Orazione eucaristica… pel glorioso ritorno di Sua Maestà recitata nella sua cattedrale a dì 14 lu­glio 1799″, che voleva dimostrare la sua buona fede e soprattutto il suo retto comportamento come ministro del culto. Ciò, però non gli risparmiò l’imputazione in un processo che durò fino al 1802, quando fu reintegrato nell’esercizio del suo ministero. Sotto Giuseppe Bonaparte, nel 1806, fu nominato Cappellano Maggiore e fu riconfermato nella Soprintendenza dell’Officina dei Papiri ercolanesi, ove svolse un’egregia opera di recupero e di ricerca. Morì il 17 febbraio 1836.

Cfr. S. CERASUOLO, M. CAPASSO, A. D’AMBROSIO, Carlo Maria Rosini (1748- 1836): un umanista flegreo fra due secoli. Premessa di M. Gigante. Pozzuoli 1986.

Michele Natale, nato a Casapulla (Caserta) nel 1751 fu nominato vescovo di Vico Equense nel 1797. Aden subito alla Repubblica e il 25 gennaio in­ disse una solenne celebrazione per rendere pubbliche grazie a Dio “per aver salvato il Regno dagli orrori dell’anarchia”. Nello stesso giorno fu eletto presidente della Municipalità. Il popolo di Vico, però sin dai primi giorni di marzo, cominciò a organizzarsi ed a cospirare contro la Repubblica, tanto che il Natale dovette fuggire a Napoli. Nel mese seguente assaltò e saccheggiò il palazzo vescovile. A Napoli scrisse, pare per incarico del Direttorio, il “Catechismo repubblicano”.

Dopo la capitolazione di Napoli, Natale si rifugiò a Casapulla e poi a Capua donde fuggì, quando cadde la fortezza, verso Napoli travestito da Capitano Cisalpino insieme ad altri due compagni. Imbarcatosi su una nave inglese che trasportava prigionieri francesi, fu riconosciuto da alcuni marinai sorrentini e fu arrestato. Il 17 agosto fu pronunciata dalla Suprema Giunta di Stato la condanna a morte che fu eseguita, dopo la dissacrazione, il 20 aprile 1799 a piazza Mercato insieme ad altri tre patrioti, fra i quali anche Eleonora Pimentel Fonseca. Restò sospeso al patibolo per 24 ore dopo la morte e fu sepolto nella Chiesa del Carmine Maggiore.

Cfr. G. ACOCELLA, (a cura di), Il Catechismo repubblicano di Michele Natale. Presentazione di F. Tessitore. Comune di Vico Equense, 1978.

Bernardo Maria Della Torre, già ascritto alla Congregazione delle Apostoliche Missioni, fu nominato vescovo di Marsico nel 1792 e poi di Lettere e Gragnano nel 1794. Aderl alla Repubblica e fu poi esiliato durante la reazione borbonica. Lo incontrò a Roma nel 1802 Luca De Samuele Cagnazzi assieme a mons. Gamboni vescovo di Capri e ad altri molti na­zionali. Dopo il 1806 tornò a Napoli per assumere la carica di Gran Vicario della Diocesi di Napoli in luogo del card. Luigi Ruffo costretto a lasciare la città. Cfr. D. AMBRASI, Riformatori e ribelli a Napoli nella seconda metà del Settecento. Napoli 1979 p. 251.

Salvatore Spinelli fu vescovo di Salerno dal 1797 al 1805. Pur avendo assunto un atteggiamento di prudenza, nel mese di maggio 1799, viene arrestato e tradotto a Napoli con l’accusa di aver sostenuta l’insurrezione di Salerno. Dopo la caduta della Repubblica viene trattenuto in ostaggio nel forte di Sant’Elmo, insieme al vescovo di Avellino, al conte Micheroux, al conte Dillon, in base alla sesta clausola delle condizioni di pace fra i repubblicani ed i commissari del re Ferdinando IV. Rientra in diocesi, co­munque, a fine agosto. Cfr. G. CRISCI, Il cammino della Chiesa Salernitana nell’opera dei suoi vescovi (sec. V-XX) voi. 2° p. 441-446. Rocco Coiro, prima come maestro nel Seminario di Potenza e poi come canonico della cattedrale, fu uno dei maggiori collaboratori di Serrao prima di andare come vescovo a Crotone nel 1797. Era vescovo da appena un anno quando anche Crotone fu travolta dall’ondata rivoluzionaria. Sollecitò amici napoletani per essere chiamato a Napoli. Processato, gli fu ingiunto di lasciare la diocesi, nel 1802, con una pensione di 400 ducati e resterà a Napoli, con incarichi di fiducia, fino alla morte avvenuta nel 1812. Cfr. M. MIELE, Il governo francese di Napoli e la resistenza dei Vescovi nell’Italia meridionale (1806-1815) in «Rivista di storia della Chiesa in Italia” n. 2/1975. p. 464 n. 52. Si veda sul Coiro quanto scrivono E. CHIOSI (A. Serrao, cit.) alle pp. 331-333 e P. PIERI, op. cit.

Camillo Cattaneo Della Volta, fu vescovo di Acerenza e Matera dal 1797 al 1834. Napoletano dei marchesi di Montescaglioso; patrizio genovese e napoletano, condivise le idee di Serrao e di Capecelatro, fu in corrispondenza con il Grégoire, come scrive Croce. Partecipò attivamente all’ elezione della Municipalità a Matera, a capo della quale fu eletto Fabio Mazzei in competizione con il duca Malvezzi il quale fece di tutto per travolgere, con sommosse popolari, l’amministrazione eletta il 9 febbraio 1799. Il 6 mano la controrivoluzione abbatté l’albero della libertà ed elesse una nuova Municipalità d’altro segno e colore.

Il Preside dell’Udienza, i magistrati e l’arcivescovo furono costretti a fuggire. Cattaneo si rifugiò a Napoli e vi restò fino a quando il card. Ruffo non giunse a Matera. Il Visitatore generale marchese di Valva fece arrestare l’arcivescovo con l’accusa di giacobinismo, ma questi restò recluso solo per 24 ore perché fu subito scagionato e liberato.

[12] M. A. TALLARICO, Una ‘Memoria’ sullo stato della Chiesa di Napoli del vescovo E. Capece Minuto/o all’indomani della repubblica partenopea del ’99 in “Rivista di storia della Chiesa in Italia” n. 31/1977.

[13] Ludovico Lodovici dei Minori Osservanti fu nominato vescovo di Crotone nel 1794 e fu traslato poi a Policastro nel 1797, Cfr. A. STASSANO, Memorie storiche del regno (1799- 1821). A cura di A. CESTARO. Edizioni Osanna Venosa 1994 pp. 40-44.

Enrico Capece Minutolo. Nato a Napoli nel 1745, fu nominato vescovo di Mileto (ora Melito Porto Salvo) nel 1792. Era imparentato con il principe di Canosa, ministro della reazione borbonica, e per via materna con il card. Filangieri nonché con il più celebre Gaetano, autore della “Scienza della legislazione”. Era soprannominato “il Papa della Calabria” per la vastità della sua diocesi e per la rete di amicizie contratte a Roma, a Napoli e a Palermo. Fu uno dei primi ad accogliere con entusiasmo la circolare del card. Ruffo in difesa della religione e della monarchia, Mileto divenne un centro di raccolta di masse provenienti dalla montagna e dalla pianura. Ben10 mila armati furono da lui alloggiati e provvisti del necessario, sì che può dirsi che a Mileto nacque l’Annata cristiana.

La sua “Memoria sullo stato delle Chiese di Napoli” fu inviata al Re in Palermo alla fine del 1799. Dopo il 1806 fu trattenuto a Napoli dal governo come persona sospetta per la sua fede borbonica.

Cfr. M. A. TALLARICO, op. cit.; M. MIELE, Il governo francese di Napoli e la residenza dei vescovi nell’I talia meridionale (1806-1815) in “Rivista di storia della Chiesa in Italia” n. 2/1975.

Vincenzo Torrusio, vescovo di Capaccio dal 1787 al 1804 aveva organizzato la controrivoluzione nella sua diocesi, che allora comprendeva anche il Vallo di Diano. Fece parte della Suprema Giunta di Governo. Dopo il 1804 fu trasferito alla sede di Nola ove si trovava quando il 2 luglio 1820 si sollevò gran parte del Distaccamento di cavalleria, capeggiato dai Tenenti Silvati e Morelli, che diede inizio alla rivoluzione del 1820. Cfr.

P. EBNER, Chiesa baroni e popolo nel Cilento. Roma 1 982 voi. I p. 223.

[14] Per la lettera pastorale di G. Capece Zurlo cfr. F. GABOTIO, Un episodio del 1799 a Napoli: l’arcivescovo, il governo repubblicano e la restaurazione in “Rassegna storica pugliese” XII, 3/1895.

[15] P. PIERI, Il regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1806 in “Archivio storico per le province napoletane” N. S. a. XII-XIII (1926-27).

[16] Nicola Saverio Gamboni fu nominato vescovo di Capri nel 1776. Nel 1799, dopo una fase di attesa e di incertezza, aderl alla Repubblica. La Giunta di Stato lo condannò all’esilio e riuscì a raggiungere Roma, ove grazie alla sua abilità politica e ali’ amicizia del card. Fesch, parente di Napoleone, riuscì ad ottenere la nomina a vescovo di Vigevano, mai riconosciuta dal Papa. La sua carriera ecclesiastica si concluse con la nomina a Patriarca di Venezia nel 1807, ove morì nell’anno successivo. Cfr. B. CROCE, 0Due libri introvabili del vescovo Gamboni, poi patriarca di Venezia” in Aneddoti di varia letteratura III. Bari 1954.

[17] B. MARESCA, Carteggio della Regina Maria Carolina col card. Ruffo nel 1799 in “Archivio storico province napoletane” 5/1880 pp.347 e  576.

[18] P. PIERI, op. cit.

[19] L. CASSESE, “Giacobini e realisti nel Vallo di Diano nella rivoluzione ciel 1799” in ID., Scritti di storia meridionale (a cura di A. Cestaro e R Laveglia). Salerno 1970; V. PAESANO, Un sacerdote giureconsulto del sec. XVIII: Diego Gatta in “Archivio storico per la provincia di Salerno” fase. 2°/1935.

[20] I1 card. Ruffo ad Acton: “Ho fatto mio legato un vescovo detto M. Lodovici che faccia da generale ed unisca tutti i miei generali e tenenti generali creatisi tali da per loro e che stavano facendosi la guerra fra loro (…). Spero in Dio che finalmente cambieranno col vescovo come uomo che non può stare in gelosia con essi” B. MARESCA, Carteggio del card. Ruffo col Ministro Acton da Gennaio a giugno 1799 in “Archivio storico napoletano” a. VII (1883) p. 602 n. I.

[21] E. CHIOSI, op. cit

[22] F. P. CESTARO, op. cit.

[23] P. GIANNANTONIO, L’Arcadia napoletana. Napoli 1962.

[24] E. CHIOSI, “La ‘Cristiana letteraria repubblica’ e la controrivoluzione” in Lo spirito del secolo. Politica e religione a Napoli nell’età dell’illuminismo. Napoli 1992 pp. 233-259.

[25] A. CESTARO, Il vescovo di Policastro e la rivoluzione del 1799 nel regno di Napoli in °Rassegna storica lucana” n. 23/ I 996.

[26] F. SCANDONE, Giacobini e sanfedisti nell’Irpinia in “Samnium” 1928, 1929, 1930.

Rigraziamo il Prof. Fernando Di Mieri per averci dato l’onore di pubblicare un lavoro di grande spessore storico culturale e sempre più attuale, ringraziamo il Preside del Re Vincenzo Giannone che ha curato la trascrizione e l’impaginazione

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.