IL BRIGANTAGGIO POLITICO
PRESUPPOSTI E LIMITI DELLA RIVOLUZIONE BORGHESE DEL 1860
Il brigantaggio postunitario presenta delle indubbie peculiarità rispetto alle forme precedenti.
Un primo elemento di differenziazione sostanziale è il forte condizionamento che il fenomeno ha dal crollo del regno, questa volta, a differenza del 1799 e del 1806, irreversibile sotto la spinta di un processo rivoluzionario esterno; un secondo è lo stretto legame che esso ha con il processo d’unificazione guidato dalla destra moderata e le sue profonde ripercussioni sulle strutture politiche e sociali del mezzogiorno, soprattutto quello continentale.
Un terzo elemento è rappresentato dalla profonda crisi economica che il Sud attraversa ormai fin dallo sbarco a Marsala, dovuta alla rapida integrazione di mercati molti diversi strutturalmente e alla stagnazione economica derivante dall’impegno bellico: costituzione di un mercato unico, l’importazione d’inflazione, l’abolizione del protezionismo; tutti errori destinati a provocare forti squilibri economici tra le varie parti dell’Italia, ma soprattutto nell’ex regno delle Due Sicilie. Crisi tanto devastante quanto più va ad inserirsi nella deludente fase della soluzione della questione demaniale.
Per comprendere come il brigantaggio si sviluppa nella grande crisi del 1860-1861, occorre analizzare la reazione delle classi rurali all’avanzare di Garibaldi. Diversa è la reazione tra la Sicilia e il continente, e in quest’ultimo diversissima fra le varie aree geografiche. In Sicilia vi è, nell’immediatezza, un primo e considerevole appoggio del contadiname, che si organizza nelle bande dei «picciotti» guidate dalla borghesia liberale a sua volta egemonizzata dalla potente nobiltà fondiaria, chiaramente annessionista.
Non è, peraltro, estranea la tradizionale ostilità verso il Borbone. Poco dopo la conquista di Palermo però si intravedono i primi elementi della trasformazione del carattere dei moti contadini, che si connota ora in rivendicazioni sansimoniste culminanti nell’episodio della ducea di Bronte in cui si consuma lo strappo definitivo tra il garibaldinismo e la masse contadini. Istanze che non possono peraltro essere recepite da un esercito rivoluzionario composto quasi esclusivamente da settentrionali –democratici o moderati che siano – e che si pone nell’immediato solo l’obiettivo politico di Roma e Venezia. Verso queste istanze é quindi indifferente, ostile, distante per mentalità, stili di vita dai contadini siciliani, tradendo in tal senso la sua composizione medio-borghese.
Nel Mezzogiorno continentale in Calabria, Basilicata, Puglia e i due Principati, si ha una posizione molto simile a quella siciliana: un’attesa iniziale fiduciosa delle classi rurali alimentata dalle promesse dei possidenti. Anche qui il moto viene interpretato come rivendicazione di classe: rivendicazione delle terre usurpate, riaffermazione degli usi civici soppressi. Nelle province a Nord, gli Abruzzi, Terra di Lavoro, Contado di Molise le masse contadine rimangono sostanzialmente fedeli alla dinastia, e danno, di conseguenza, uno scarsissimo appoggio alle truppe di Garibaldi che urtano sempre più sul fronte determinato dall’aggregazione delle bande contadine con truppe regolari borboniche; atteggiamento cui sono spinte proprio in reazione alle insurrezioni provocate dai gruppi liberali delle province.
Nell’ottobre del 1860 interviene l’esercito piemontese con la direttiva fondamentale di riportare l’ordine a Napoli e per il quale appare necessario fermare i garibaldini e spegnere la fiamma insurrezionale: negli ultimi due mesi del ‘60, contro anche il parere di Vittorio Emanuele II e Cavour, il generale Fanti «congeda» tutti i volontari. Molti di questi però sono ormai meridionali, reclutati da elementi della borghesia liberale che hanno progettato un loro inserimento nel futuro quadro politico ed istituzionale del nuovo stato, e la chiara liquidazione cui sono ora sottoposti è interpretata come il rifiuto della destra cavouriana e moderata di collaborare ed accettare una qualsiasi forma d’alleanza con la piccola e media borghesia meridionale che tanto ha fatto contro l’assolutismo borbonico.
La discriminazione antidemocratica spinge il governo di Cavour su posizioni concilianti verso uomini e strutture ex borboniche, riorganizzando su tale principio la stessa Guardia Nazionale, che quale braccio armato della borghesia liberale ha sempre escluso elementi borbonici. E’ evidente la profonda frattura creatasi sul fronte liberale. Questa scelta di moderatezza è quella che forse più influisce sull’atteggiamento della borghesia meridionale complessivamente e che costituirà il fattore politico-militare che agevolerà l’esplosione del brigantaggio.
Intanto alcune scelte impopolari aggravano la situazione materiale dell’ex regno. Una leva di 36.000 uomini è chiamata proprio mentre scoppiano i primi tumulti anti-unitari, con l’effetto di spingere sulle montagne ben 10.000 renitenti. L’oscillante politica dei moderati verso il clero è un altro degli errori d’estrema gravità e carichi di conseguenza sulle vicende successive.
La crisi industriale, il calo della produzione agraria, la stagnazione degli scambi determinata dalla campagna garibaldina, l’importazione dell’inflazione, il protezionismo doganale venuto meno nell’immediato dell’Unità, sono i fattori che più mettono in crisi la struttura sociale del mezzogiorno che subisce rapidi processi di depauperazione nelle classi rurali, operaie e perfino del ceto medio cittadino delle province. Questo contesto economico influisce non poco sulle scelte di adesione al brigantaggio da parte delle classi più povere, spinte dalle ormai sempre più misere condizioni di vita morali e materiali. Perchè mentre nel passato borbonico la sovrappopolazione relativa nelle campagne dovuta a fasi congiunturali negative del ciclo economico veniva assorbita da fenomeni di immigrazione interna o dalla politica di investimenti pubblici, nell’immediato dell’annessione la disoccupazione diventa strutturale e facilita il reclutamento coattivo nelle varie bande di briganti.
E’ il clero però il primo artefice della razione su cui esercita una notevole influenza i decreti anticlericali emessi dal Mancini durante la luogotenenza Carignano, che aboliscono il concordato del 1818 e minacciano la confisca dei beni ecclesiastici. Sebbene mai attuati, spingono il clero in funzione reazionaria. Nell’autunno del 1860 scoppiano i primi moti repressi nel sangue dalla Guardia Nazionale un po’ in tutti i piccoli centri della provincia. Nella primavera del 1861 vi è una recrudescenza del fenomeno che impone al dicastero Ricasoli, successo a Cavour, deceduto nel giugno dello stesso anno, a prendere atto del fallimento della discriminazione antidemocratica, optando per un’opzione militare.
Cialdini attua una inaspettata apertura ai Democratici, nel palese tentativo di costruire un fronte unico con i Moderati contro la reazione. Con i Democratici è possibile accordarsi, per poi eliminare il Partito d’Azione una volta soffocata la reazione. Attua con una certa abilità questa linea, scatena un persecuzione della nobiltà legittimista, istituisce zone militari impiegando truppe regolari che assicurano la sicurezza almeno dei grossi centri abitati e dei maggiori assi viari. Nell’estate del 1861 nuove forze arrivano nelle province meridionali, fino a giungere nel dicembre a 50.000 unità. Nell’autunno i Moderati, che hanno accetto con riserva l’esperimento del fonte unico del Cialdini, optano decisamente per una svolta accentratrice per il pericolo che intravedono nelle minacce al regime unitario.
Le repressioni dell’estate del 1861 portano ad una stasi della situazione che conosce però nell’autunno un nuovo sussulto, in cui si verifica il passaggio dal brigantaggio politico a quello sociale, in cui i legittimisti devono lasciare la guida della reazione alla protesta dei contadini.
La chiusura dell’esperienza del Borjes segna l’inizio del brigantaggio in grande stile che imperverserà fino al 1865 almeno. Grosse bande a cavallo si confrontano militarmente con l’esercito italiano in centinaia di scontri. Emergono capibanda tutti contadini, per lo più salariati o ex soldati borbonici: Tamburini e Pastore in Abruzzo, Centrillo sulle Mainarde, Chiavone nel sorano, Guerra e Fuoco in Terra di Lavoro, Giordano nel matese, i fratelli La Gala in Irpinia, il sergente Romano nel barese, Crocco, Ninco Nanco ed altri fra Basilicata, Capitanata e Molise. Gli scontri diventano sempre più numerosi. Il generale Franzini denuncia 111 scontri nei solo dieci mesi del 1862 nell’ avellinese.
Nel novembre del 1863 il giornale milanese “La Perseveranza” pubblica una corrispondenza da Napoli nella quale si afferma, sulla base dei dati forniti dal VI Gran Comando, che ogni giorno arrivano da 60 a 100 rapporti su fatti di brigantaggio. Dinnanzi ad un fenomeno di così vasta scala la classe politica si divise: i Moderati, cercarono di minimizzarlo, se non nasconderlo, limitandosi ad indicare nella presenza di Francesco II a Roma l’origine del problema chiedendone un allontanamento; la Sinistra intraprende una battaglia aspra in sede parlamentare, sia pur nei limiti prevalentemente politici di non vanificare l’ Unità appena raggiunta.
L’esercito appare sempre più il protagonista della lotta che coinvolge tutto l’ex regno. Anni dopo, il Settembrini scrisse che l’esercito era «il filo di ferro che ha cucito l’Italia e la mantiene unita». Il generale Mazè de la Roche, comandante della zona militare del Molise, scrive già nel 1861: «Nel distretto sono sindaco, giudice, comandante dei carabinieri esercito un’autorità quasi assoluta su una quindicina di comuni tra cui vi è un capoluogo di provincia col suo governatore».
Nel febbraio del 1864 nel Mezzogiorno continentale sono di stanza 116.000 uomini, sottoposti ad un logorio ed un’usura che poteva compromettere l’intero esercito. Pertanto, dopo la fine dello stato d’assedio diventa improcrastinabile per Esercito e Governo lanciare l’offensiva definitiva contro il brigantaggio. I prodromi si hanno con l’arrivo di Minghetti, che ha Spaventa a capo della polizia e Peruzzi al ministero dell’Interno. Spaventa nel dicembre del 1862 scrive: «Distruggere radicalmente e presto il brigantaggio nel Napoletano o condannarsi a perire».
L’intenzione è di istituire tribunali militari per i briganti e i complici, mobilitazione della Guardia Nazionale, potenziamento della Polizia e dei Carabinieri, soldo regolare e pensioni ai repressori. L’introduzione della Legge Pica nell’Agosto del 1863 rappresenterà la sanzione giuridica ad una prassi repressiva già da tempo in atto. I tribunali militari svolgono il loro compito celebrando circa 3.600 processi solo fra il ‘63 e il ‘64 e giudicando 10.000 persone, di cui oltre 6.000 sono contadini. Nella sola Basilicata, il Racioppi parla di 2.400 arresti nei primi sei mesi di applicazione della legge. Si parla di altri 12.000 arresti e deportazioni nelle isole.
L’artefice della soppressione definitiva del brigantaggio è il Pallavicini che usa una tattica di «persecuzione incessante» che, pur costando all’esercito un forte logoramento, ottiene il risultato sperato. Verso la fine del 1863 sconfigge la banda di Michele Caruso; nel 1864 quella di Crocco. Fra il 1860 e il 1865 il grande brigantaggio con più forte connotazione politica, fu battuto sul piano militare. Dopo il 1865 il fenomeno restò diffuso, con un’impennata nel 1867, ma privo delle motivazione politico-insurrezionale e oggetto ormai di sola repressione poliziesca.
Il brigantaggio e la sua repressione appaino forse i limiti più evidenti dell’intera rivoluzione borghese italiana: il Risorgimento. L’interesse storiografico sul fenomeno riflette immancabilmente posizioni ideologiche e politiche divergenti. Appare eccessivamente riduttivo l’interpretazione conservatrice che tende a descrivere e circoscrivere il fenomeno come di matrice esclusivamente delinquenziale ma neppure appiano condivisibili le interpretazioni di una certa Sinistra che vuole conferire al brigantaggio un contenuto anticapitalistico, o comunque antiborghese, maggiore di quanto ne abbia in realtà.
Questa vede nei contadini un’avanguardia rivoluzionaria o, quantomeno, un tentativo alternativo di formazione della società italiana in opposizione alla Destra moderata e borghese.
Questa analisi presuppone una coscienza di classe e una diffusa consapevolezza di massa che non può esistere. Interpretazioni di questo genere riflettono suggestioni populistiche o anarcoideggianti che idealizzando la spontaneità delle classi subalterne. E’ utile, invece, concentrare l’analisi su due problematiche di fondo del brigantaggio postunitario: il carattere di classe e l’impatto che ha sulla crisi della società meridionale, e quindi sul processo di formazione e consolidamento dello Stato Unitario. Il primo aspetto è pacificamente riscontrabile nella composizione sociale delle stesse bande dove tutta la base, la gerarchia intermedia e quella apicale appartiene ai ceti contadini.
L’estrema povertà, la mancanza assoluta di una qualsiasi proprietà o di forme di condivisione della rendita agraria, predispongono i ceti rurali alle coercizione extraeconomica della stessa rendita. Per il secondo aspetto, si può senz’altro notare come il fenomeno ha consensi, ampi, in parte occulti, dagli strati semiproletari e poveri delle campagne: fittavoli, coloni, piccoli proprietari parcellari. Questo appoggio rende possibile l’esistenza e il risorgere del brigantaggio anche dopo colpi che sembrano letali, poiché alimenta di continuo le bande.
Questo appoggio, peraltro, trova origine dal malcontento per lo sfruttamento diretti dei ceti proprietari e dal tipo di soluzione che questi stanno dando all’annosa questione demaniale. L’influenza degli sviluppi storici della questione demaniale e delle soluzioni che vanno a adottarsi, e la sua connessione con il brigantaggio è così palesi da non sfuggire agli stessi contemporanei: il Massari, superficialmente; più acutamente il Saffi. La questione demaniale protrattasi per tutta la metà del secolo, costituisce un fattore importante nella trasformazione dei rapporti di proprietà nella campagna dove però i rapporti di produzione in agricoltura rimangono alla stato ancora feudale.
Le forze politico-sociali promotrici sono la monarchia (i napoleonici prima e i Borbone dopo) che tendono a riportare i rapporti sociali, politici ed economici sotto il controllo di uno stato centralizzato; dall’altro una nascente borghesia fondiaria che aspira a ricondurre la proprietà terriera sotto il diritto comune. Ma nel 1860, dopo oltre 50 anni di operazioni demaniali, risultano distribuiti solo 116.264 quote per 205.988 ettari, e la maggior parte di esse sono ripassate nelle mani dei ceti possidenti. Tuttavia il liet motiv della quotizzazioni, anche quando espressione della piccola e media borghesia, è un indubbio strumento politico perché dirotta le pretese delle classi rurali solo sui terreni demaniali, e nell’incanalare la loro lotta sul solo terreno della legalità, impedisce la formazione di un «comunismo agrario» che avrebbe avuto quale obiettivo la completa espropriazione e ridistribuzione della rendita agraria.
I briganti non furono tutti partigiani del re, nè furono tutti banditi di strada, pur tuttavia è singolare come le due diverse anime siano convissute a volte nella stessa persona, tant’è che molti provenivano dall’esercito garibaldino; sicché molti furono briganti e partigiani insieme. Vi era inoltre un folto numero di essi che, giovani e meno giovani, vivevano al limite delle legalità. D’altronde al Sud occorreva davvero poco, per gli appartenenti alle classi meno abbienti, diventare fuorilegge. La durezza della vita, la scarsa elasticità del sistema, la costellazione di abusi, sfornavano tecnicamente molti delinquenti.
C’era quindi un’aspirazione diffusa al rientro all’ordine e molti videro nella risalita del Garibaldi la possibilità di riabilitarsi; ma ben presto furono delusi .Questa esperienza rimane tuttavia importante perché senza l’esempio delle camicie rosse, il proletariato rurale non avrebbe mai preso appieno coscienza delle prospettive che potevano loro schiudersi nel far parte di un gruppo armato. Lo capì perfettamente Torino che cercò subito di disinnescare la bomba garibaldina sciogliendo l’esercito. Il regime borbonico non era esattamente «la negazione di Dio eretta a sistema» tanto cara al Lord Gladstone, ma rimaneva tuttavia un refuso della vecchia Europa in via di dissoluzione. Il sostegno della classe media, nerbo di ogni sistema moderno, non ci fu al momento di crisi del regno. Anzi la parte più liberale si affrettò a decretarne la fine perché si ispirava a modelli culturali e politici che i Borbone non avevano mai preso in considerazione. Furono le avanguardie di questi a indurre in errore i Piemontesi.
I fuoriusciti che vivevano in Piemonte non erano attendibili e l’errore più grande che fecero fu quello di spargere la voce dell’arcadia meridionale. Un regno ricco di risorse e di terre fertili che in realtà non esistevano. Essi appartenevano tutti alla classe più colta, che si era formata nella capitale, che non conosceva assolutamente la vita nelle province. Ritenevano che sarebbe bastato qualche riforma liberale e un poco di lavori pubblici per integrare i due stati e le due economie. Non parlarono del baratro d’odio che divideva i galantuomini dai contadini; non parlarono della miserevole vita delle classi rurali e della violenza che generava; non parlarono della lacerazione di ogni tipo di rapporto sociale.
Così i piemontesi bevvero il racconto dei fuoriusciti, anche perchè non disponevano di informazioni di prima mano.
Calcoli politici elementari, disinformazione, faciloneria politica fecero sì che l’incontro tra le due Italie si risolvesse nell’amarezza delle delusioni incrociate e il brigantaggio fu il primo frutto di queste delusioni. Anche i galantuomini di sicura fede unitaria, rimasero delusi: speravano in un matrimonio, assistettero ad uno stupro.
I piemontesi si aspettavano essere accolti con i fiori e le fanfare, invece furono accolti a fucilate; i contadini si aspettavano un miglioramento delle proprie condizioni di vita, trovarono il plotone di esecuzione. S’erano aspettate campagne ricche e trovarono una massa di cafoni poveri, da cui trassero questo convincimento: il paese è ricco di risorse e questi sono poveri, vuol dire che non hanno voglia di lavorare; ma impareranno presto! Da qui alla logica del plotone di esecuzione come strumento pedagogico, il passo fu breve.
Le forze che si contrapposero furono notevoli. Nel 1862 vi erano nell’ex regno 52 reggimenti per oltre 120.000 uomini, 83.927 uomini della Guardia Nazionale, 7.489 carabinieri che si opponevano a 135-140.000 componenti le varie bande.
Il bilancio della “rivoluzione italiana” fu drammatico. Non esistono cifre precise, ma quelle più accreditate danno, dal 1861 al 1870, 123.860 fucilati, 130.364 feriti, 43.629 deportati, 41 paesi completamente distrutti; 10.760 briganti condannati all’ergastolo, 382.637 briganti condannati a pene varie. Da parte piemontese le perdite ammontarono a 21.120 soldati caduti in combattimento, 1.073 morti per malaria o malattie o ferite, 820 dispersi.
Ciro Pelliccio
Riferimenti bibliografici:
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Giorgio Cucentrentoli di Monteloro, I duecento drammatici giorni della fedelissima Civitella del Tronto, Editrice “ La perseveranza”
Giorgio Cucentrentoli di Monteloro, Morire a Civitella del Tronto, Editrice “la Perseveranza”
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Denis Mack Smith, Garibaldi una grande vita in breve, Mondadori editore, 1993
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Antonio Ciano,I Savoia e il massacro del Sud, Gradmelò Editore
F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’unità d’Italia, Feltrinelli editore, 1964
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Teodoro Salzillo, L’assedio di Gaeta 1860-1861, Controcorrente editore
AA.VV.La storia proibita- Quando i piemontesi invasero il Sud- Controcorrente Editore
Ciro Pelliccio Il regno delle due Sicilie 1806-1860 – analisi della struttura economica e sociale – Carabba Editore
Ciro Pelliccio,Teoria e prassi rivoluzionaria nel regno di Napoli alla fine del XVIII secolo Graus editore