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Il capitano Monticelli alla battaglia di Lepanto

Posted by on Lug 9, 2021

Il capitano Monticelli alla battaglia di Lepanto

La battaglia di Lepanto ebbe luogo il 7 ottobre 1571 tra le flotte musulmane dell’Impero ottomano e quelle cristiane della Lega Santa promossa dal papa Pio V, costituita dalla Repubblica di Venezia, l’Impero spagnolo con il Regno di Napoli e Sicilia, la Repubblica di Genova, lo Stato pontifico e Malta. Una battaglia epocale, combattuta nel contesto della lotta per il controllo del Mediterraneo, minacciato dal crescente espansionismo dell’Impero ottomano giunto all’apice della sua potenza.

Ai primi di settembre la flotta della Lega con più di 200 navi da guerra si fu adunando nel porto di Messina al comando di Don Giovanni d’Austria e il 4 ottobre si concentrò nel porto di Cefalonia. La lunga e combattutissima battaglia si concluse con la morte del comandante ottomano Alì Pascià e la vittoria delle forze alleate, e suscitò un enorme impatto emotivo in ogni angolo d’Europa. La sua importanza, infatti, dato che i musulmani avevano vinto tutte le principali precedenti battaglie contro i cristiani, fu perlopiù psicologica, mentre nella sostanza, a causa della scarsa coesione tra i vincitori, la battaglia non segnò una svolta vera né definitiva, nel processo di contenimento dell’espansionismo turco.
Ben 30 delle galere della potente flotta cristiana che combatté a Lepanto appartenevano allo spagnolo regno di Napoli e su quelle navi s’imbarcarono migliaia di combattenti provenienti da tutte le province del meridione italiano, e molti di loro – quali sudditi e uomini d’arme del re Felipe II – furono assoldati in Terra d’Otranto.
Per quell’epoca, Brindisi, pur mantenendo la sua strategicità dentro del viceregno napoletano, pativa un accentuato impoverimento economico determinatosi in buona parte proprio a causa di quell’espansione turca che stava impedendo o quanto meno limitando drasticamente i traffici marittimi con le dirimpettaie regioni dell’Illiria, la Grecia e l’Egitto, riducendo il commercio e gli scambi a piccolissimi termini. E in quelle così avverse circostanze, per molti Brindisini l’esercizio delle armi costituiva uno sbocco professionale per nulla secondario, ed in pratica interessava tutte le classi sociali, dalle popolari fino alle nobiliari. Del resto, la domanda di risorse umane militari era sempre attiva, giacché dopo il guerreggiato quarantennale regno dell’imperatore Carlo V, suo figlio Felipe II succeduto sul trono di Spagna e quindi di Napoli, dal 1556 al 1600 durante i suoi altrettanti quarant’anni e più di regno, non gli fu per nulla da meno in quanto a guerre: annesse con le armi il Portogallo e guerreggiò a lungo con la Francia, i Paesi Bassi, l’Inghilterra e contro i Turchi.
Pertanto, era abbastanza comune ritrovare sui tanti fronti delle tante battaglie combattute in quasi tutt’Europa dagli eserciti spagnoli durante quel XVI secolo, militari brindisini occupando attivamente vari gradi e vari ruoli, spesso di rilievo. Però, non era altrettanto comune per un militare brindisino dell’epoca emergere per meriti propri a fianco e persino al disopra degli stessi spagnoli, naturalmente più numerosi e più favoriti. Eppure, ce ne furono alcuni e tra loro, in primis in quel XVI secolo, Giovanni Battista Monticelli, intrepido capitano che spiccò accumulando meriti formalmente riconosciuti e finanche premiati dallo stesso sovrano Felipe II, distinguendosi su vari fronti fino a partecipare anche in quella storica battaglia che fu Lepanto, il 7 ottobre 1751.
Giovan Battista nacque in Brindisi il 2 gennaio 1541, da Colella Monticelli ed Elisabetta Carbo. Fin da giovane fu attratto dal mestiere delle armi e nel 1563 cominciò a servire nella sua stessa città, da soldato venturiero sotto il conte di Montecalvo. Già nel 1565, prese il largo per combattere contro i Turchi, partecipando agli ordini di Don Garcia de Toledo alla liberazione dell’assediata Malta. Nel 1570, mentre era di presidio a Taranto, passò da quel porto l’ammiraglio Giovanni Andrea Doria diretto con la sua flotta al soccorso di Cipro contro i Turchi, e Monticelli senza indugiare s’imbarcò agli ordini del già rinomato ammiraglio genovese. L’anno seguente, stando di presidio a Crotone, in cui era capitano Francisco Alcorcia, passò di lì Don Giovanni d’Austria comandante dell’armata della Lega Santa diretto al raduno di Messina e Monticelli, alfiere del battaglione ‘Brindisi’, s’imbarcò con tutta la sua compagnia su una delle galere di Giovanni Ambrogio Negrone giunte da Napoli, per di lì a poco partecipare – il 7 ottobre – alla battaglia più emblematica della sua vita: Lepanto.
Testimoniò il Cap. Giovan Vincenzo Pagano: «Imbarcammo in Napoli con le galere di detta città per andare, sì come andammo, per la giornata navale del 1571, et essendo in Cotrone ritrovammo il Cap. Giov. Battista il quale era Alfiere del battaglione de Brindisi e stava al presidio di detta città, et lassando detto presidio imbarcò con tutta la sua compagnia sopra le galere di Giov. Ambrosio Nigrone, et andò in detta giornata donde combatté molto onoratamente e con soddisfazione de li superiori. Nella quale giornata essendo stati feriti molti soi soldati, et non avendo denari, fu forzato ditto Capitano soccorrerli de soi propri dinari per servitio della Maestà Sua». L’avvocato brindisino Baldassarre Terribile, in un suo articolo del 1898 – da cui sono tratte molte delle notizie qui riportate – commenta aver conosciuto un discendente di Giovan Battista, tale Franco Monticelli già deputato al Parlamento italiano, il quale conservava la corazza e la spada utilizzate a Lepanto dal suo glorioso antenato.
Nel 1579, il capitano Giambattista Monticelli è di nuovo in guerra al servizio del re Felipe II, questa volta in Portogallo, al comando di una compagnia di fanteria italiana appartenente al ‘Tercio’ del ‘Maestre de Campo’ Carlo Spinello, il quale testimoniò: «Dato che conoscevo il Capitano Giovan Battista, et che sapevo la sua qualità, et esperto en le cose militari, lo elessi come uno dei miei oficiali, il quale fè una compagnia molto fiorita de più di duecento persone, soldati eletti et de qualità, alli quali fu necessario darli, sì come li diede, quantità di denari più de l’ordinari, a tale venissero servire de buena voluntà. A tempo di detta guerra, si infermarono molti soldati in Gibilterra donde morirono, e Giovan non poté recuperare quello che l’aveva pagato anticipato. Detto Cap. Giov. Battista, in tutte dette occasioni si è portato valorosamente in servitio di Sua Maestà ammaestrando li soi soldati in bene servire, et castigandoli di non commettere bottino né altro in diservitio di Sua Maestà. Specialmente nella battaglia data sul ponte d’Alcantara, detto Capitano si segnalò e si portò da honorato et valoroso soldato, dando soddisfazione di sua persona ai superiori».
Poco dopo, in un’altra guerra, questa volta in Fiandra, il capitano Giovanni Monticelli riscuote ancora gli encomi del suo comandante Carlo Spinello: «Portosi sempre valorosamente, et all’ultima scaramuccia si fè li giorni appresso Alpen, essendo della prima fila, fu ferito d’una moschettata nel braccio sinistro della quale resta stroppeato con essersi in essa scaramuccia portato valorosamente come conviene a gentiluomo, et soldato d’honore».
Dopo quella seria ferita, con quarant’anni compiti e non potendo più servire sui fronti di guerra, pur restando in servizio Giambattista Monticelli rientrò a casa sua, a Brindisi, e da lì – nel 1583 – inoltrò alla Corona la richiesta formale di un compenso consono con i suoi tanti servizi prestati in armi. Come da prassi, si diede corso a una lunga e dettagliata indagine per corroborare la veridicità e la qualità di quei servizi e, raccolte una gran varietà di testimonianze risultate tutte concordi, fu finalmente emessa un’Ordinanza Reale con la quale si assegnò al richiedente la somma vitalizia di quindici scudi al mese ‘de entretenimiento’, cioè: per suo ricreo.
Nel 1585, Monticelli presentò istanza alla Gran Corte della Vicaria per essere aggregato nella ‘piazza dei nobili’ della città di Brindisi, ossia per essere riconosciuto quale nobile, adducendo essere ‘gentiluomo’ e che i suoi predecessori, specialmente Pietro suo avo e Colella suo padre, fossero vissuti nobilmente e avessero servito onoratamente e fedelmente Sua Maestà nel 1528 contro l’esercito franco-papale-veneziano invasore di Brindisi, e poi in altre occasioni di guerre occorse nel regno di Napoli e fuori. E nella Cronaca dei Sindaci di Brindisi dall’anno 1529 al 1787 di Cagnes e Scalese, è riportato che nel 1597 “Giovanni Battista Monticelli, brindisino, con sentenza definitiva ottiene per la sua famiglia e per sé la patente di nobiltà, nonostante che i procuratori della nobiltà brindisina Sebastiano del Balzo e Teodoro Pando, che dicevano che il suo avo Pietro fosse stato ‘ortista e maestro d’ascia seu mannense esercitando pubblicamente detta arte de lavorare legname et era povero e vile’, si erano opposti alla concessione della patente”.
Non è dato di sapere se Giovan Battista Monticelli abbia avuto figli, né si conosce la data della sua morte, mentre all’anno 1603 della stessa Cronaca dei Sindaci di Brindisi, è registrato che “il 5 settembre il capitano Giovanni Battista Monticelli e la sua compagnia ricevono il soldo dei mesi di luglio e agosto per la custodia dei castelli della città”. Aveva Monticelli, a quella data, quasi 62 anni, un’età abbastanza ragguardevole per l’epoca, specialmente in considerazione del fatto che, evidentemente, era ancora in servizio. Quasi certamente finì i suoi giorni in Brindisi, la sua città natale, tra familiari, rispettato dal popolo e, formalmente, da cittadino nobile.
Eppure, ci sarebbe da scommetterci, i tradizionali nobili brindisini, nonostante la sentenza della Gran Corte Vicaria, nel loro intimo non credo abbiano accolto da pari quel ‘nobile’ capitano, loro valoroso concittadino. Fu quella, infatti, un’epoca in cui nell’impoverita e provinciale Brindisi, gli appartenenti alle classi abbienti, e soprattutto quelli della classe nobile, vivevano perlopiù una vita frivola, tutta di formalità e piena di litigi, di agitazioni, di ripicchi e pettegolezzi. Litigava l’arcivescovo col Capitolo e talvolta con la città, litigavano i diversi ordini monastici fra di loro, con la civica amministrazione, col Capitolo, coi privati, litigavano i nobili con i nobili viventi. Litigi, che oltre su interessi poggiavano spesso su futili motivi, come quelli di precedenza e di distinzione; e molti dei rapporti erano esternati attraverso formalità di ossequio, espressioni verbali, spalliere o poggioli alle varie sedie riservate negli atti ufficiali, e quant’altro di simile. Basti pensare che durante ben quattro anni, tra il 1558 e il 1562, si prolungò il litigio tra i nobili e i nobili viventi – i discendenti non primogeniti di nobili e coloro che si erano nobilitati esercitando le professioni liberali o militari – a proposito del ceto a cui doveva appartenere il sindaco, finché la lite giunse al Consiglio Collaterale in Napoli, che deliberò salomonicamente stabilendo che per ogni 3 anni, in 2 doveva essere scelto tra i nobili viventi e in 1 tra i nobili.
«Fra le mura cittadine di Brindisi, sacerdoti e milizie erano le classi che facevano parlare di sé, mentre la nobiltà, sfaccendata, tronfia e inframmettente, contrastava con la massa degli artigiani, contadini e pescatori, laboriosi sì, ma alle prese col disagio e tenuti estranei alla vita cittadina». [S. Panareo, 1942]

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