Alta Terra di Lavoro

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IL PLEBISCITO DEL 1860

Posted by on Ott 6, 2022

IL PLEBISCITO DEL 1860

1.    L’invasione del Regno di Napoli

Il 10 ottobre 1860, l’esercito piemontese passò i confini del Regno delle Due Sicilie e il Principe russo Gortchakoff Alessandro chiese all’Ambasciatore Gagarine di protestare al conte Cavour i motivi che obbligavano l’Ambasciata russa a lasciare immediatamente la Corte di Torino:

Dal momento in cui i preliminari di Villafranca hanno posto fine alla guerra italiana, una serie di atti contrari alla legge sono stati compiuti nella penisola e si è creata una situazione anomala, le cui conseguenze estreme vediamo oggi svilupparsi. Dall’inizio di questa situazione il Governo Imperiale [russo] ha fatto un punto di rendere il Governo Sardo attento alla responsabilità che assumerebbe cedendo a pericolose pratiche. In partico­lare, gli mandammo le nostre rappresentazioni amichevoli quando la rivo­luzione siciliana iniziò a ricevere dal Piemonte il sostegno morale e materiale che poteva dargli le proporzioni che ha assunto. La questione, ai nostri occhi, andava oltre la sfera delle complicazioni locali. Essa toccava direttamente i principi universalmente accettati come regola delle relazioni internazionali e tendeva a scuotere le fondamenta stesse su cui poggia l’autorità dei Governi stabiliti. Pur accettando con profondo dispiacere i motivi addotti dal Conte di Cavour, che non gli permettevano di opporre a queste mene ostacoli più efficaci, prendemmo atto del disconoscimento addotto. Con questo atteggiamento il Gabinetto Imperiale è convinto di aver dato alla Corte di Torino una sincera testimonianza del suo desiderio di mantenere buoni rapporti con essa, ma ritiene anche di aver sufficientemente presentato le decisioni che obbligheranno Sua Maestà l’Imperatore il giorno in cui il Governo Sardo si sarebbe lasciato dominare interamente dalle azioni che il sentimento dei suoi doveri internazionali l’aveva fino a quel momento impegnato a ripudiare. Queste risoluzioni, mi dispiace dirlo, non possono essere rinviate.

Il Governo Sardo ha fatto passare alle sue truppe, in piena pace, senza dichiarazione di guerra e nessuna provocazione, i confini degli Stati Romani. Ha apertamente patteggiato con la rivoluzione a Napoli, ha sanzionato le sue azioni con la presenza delle sue truppe e quella di alti funzionari piemontesi posti a capo delle forze insurrezionali, senza cessare di essere al servizio del re Vittorio Emanuele. Infine ha appena incoronato questa serie di violazioni della legge annunciando in faccia all’Europa la sua intenzione di accettare l’annessione al Regno del Piemonte dei territori appartenenti ai Sovrani che sono ancora nei loro Stati, dove difendono la loro autorità contro le violenze della rivoluzione. Con questi atti il Governo Piemontese non ci consente più di considerarlo estraneo al movimento che sconvolge la penisola. Egli si assume la piena responsabilità e contraddice in modo flagrante i principi del diritto delle nazioni. La necessità che egli sostiene di combattere l’anarchia, non può giustificarlo dal momento in cui si pone di traverso alla rivoluzione per ottenerne l’eredità, e non per fermare il suo progresso o per riparare le sue iniquità. Tali pretesti non possono essere ammessi. Questa non è una questione italiana, ma un interesse Generale comune a tutti i Governi, riguarda le leggi eterne, senza le quali nessun ordine sociale, nessuna pace, nessuna sicurezza può sussistere in Europa. Sua Maestà Imperiale è obbligata a porre fine alle mansioni che svolge presso la Corte di Sardegna […].[1]

Anche il conte Brassier da S. Simon, ministro plenipotenziario della Prussia in Torino, su invito del Principe reggente presentò a Cavour un dispaccio e di disapprovazione di condanna. Eccone un saggio:

Secondo il Memorandum della Sardegna, ogni cosa dovrebbe cedere alle richieste delle aspirazioni nazionali, e ogni volta che l’opinione pub­blica si sarebbe espressa a favore di queste aspirazioni, le autorità esistenti sarebbero obbligate a rinunciare al loro potere di fronte a una tale manifestazione. […]

Tuttavia è basandosi sul diritto assoluto di nazionalità italiana e senza dover addurre nessun altro motivo che il Governo di S. M. il Re di Sardegna ha chiesto alla S. Sede il licenziamento delle sue truppe non italiane e senza nemmeno aspettare il suo rifiuto, ha invaso lo Stato Pontificio, di cui ora occupa la maggior parte. Sotto lo stesso pretesto, le insurrezioni che scoppiarono dopo l’invasione furono sostenute, l’esercito che il Sovrano Pontefice aveva formato per mantenere l’ordine pubblico fu attaccato e disperso. E lontano dal fermarsi su questa strada, a dispetto del diritto internazionale, il Governo Sardo ha appena ordinato al suo esercito di attraversare in diversi punti le frontiere del Regno di Napoli con lo scopo dichiarato di venire in soccorso dell’esercito e occupare militarmente il paese. […]

È in questo modo che il Governo Sardo, pur invocando il principio di non intervento a favore dell’Italia, non si allontana dalle violazioni più flagranti dello stesso principio nei suoi rapporti con gli altri Stati italiani. Essendo chiamati a pronunciarsi su tali atti e principi, possiamo solo deplorarli profondamente e sinceramente, e crediamo compiere un dovere rigoroso esprimendo nel modo più esplicito e formale la nostra disappro­vazione e di questi principi e dell’applicazione che si è creduto di poter fare.[2]

L’invasione piemontese costituì dunque un’ingerenza di uno Stato regolare in uno Stato indipendente. Fu un attacco contro la sovranità del regno delle Due Sicilie e per di più senza una dichiarazione di guerra, mentre il rappresentante del re di Napoli era a Torino. Il 13 ottobre, Cavour scriveva al ministro dell’Interno, Luigi Carlo Farini: «È tempo di camminare. Giungano a Napoli prima che le conferenze di Varsavia abbiano partorito qualche progetto a danno nostro».[3]

La condotta del re del Piemonte fu disonesta e in aperta opposizione col diritto delle genti e il principio di non intervento dallo stesso invocato. L’ipocrisia, la falsità e la menzogna del ministro Cavour e del suo Re sono evidenti. Il generale Alfonso La Marmora, nominato ambasciatore in Prussia, in una relazione, che inviò il 17 febbraio 1861 a Cavour, scriveva:

…In una conversazione, per prima cosa ho detto al Barone Schleinitz […] che noi comprendiamo molto bene che il nostro ingresso nelle Marche e nell’Umbria, così come nel Regno di Napoli, non aveva un carattere regolare, e che questo naturalmente dispiaceva alle altre Potenze, e in particolare per la Prussia; ma che non c’era per noi modo di agire diversamente senza lasciarci sopraffare dai veri rivoluzionari, e senza mettere in pericolo l’ordine e la sicurezza generale dentro e fuori dall’Italia; che questo movimento degli italiani verso la loro emancipazione non era il lavoro artificiale di una politica calcolata, ma la manifestazione spontanea di un sentimento irresistibile, e che nessuno poteva fermare questo torrente; mentre lo si poteva (e c’era un grande merito in questo) dirigere e contenere.[4]

Forse che il primo rivoluzionario di questo movimento italiano non era lo stesso Cavour? Chi aveva alimentato questo torrente se non lo stesso ministro piemontese? Ipocrisia e falsità! Ed eccoci alla rappresentazione della farsa dei plebisciti, che servirono a dare una parvenza di legalità, davanti all’Europa inerme, al l’occupazione e all’annessione delle Romagne, della Toscana, delle Marche, dell’Umbria, dei ducati e del Regno delle Due Sicilie. Commentava la Civiltà Cattolica: «La commedia oggi mai toccava il suo termine, ed era giunto il momento, in cui dovea svelarsi l’intrigo e gittare al tutto la maschera».[5] Il cardinale Antonelli disse al generale francese Goyon a Roma: «La politica d’ipocrisia, che voi servite, comincia a mostrare il suo volto, e in Italia voi siete l’ultimo pezzo della maschera del vostro maestro [Napoleone III]».[6] Intanto, Cavour rassicurava Vittorio Emanuele: «La Prussia si limiterà a protestare, l’Inghilterra ci spinge ad andare avanti. L’Imperatore Napoleone attende il risultato del plebiscito per proporre un Congresso».[7]

2.    Il plebiscito del 21 ottobre 1860

Qui giunto, il lettore ha compreso che la commedia del risorgimento italiano, rappresentata nel 1860, poneva le fondamenta del nuovo regno d’Italia non sul consenso popolare universale ma sull’intrigo, sulla menzogna e sull’ipocrisia. Secondo il, per legalizzare e sancire l’avvenuta conquista di Napoli, il prodit­tatore Giorgio Trivulzio Pallavicino fissava la data e le modalità di svolgimento del plebiscito al 21 ottobre 1860:

Articolo 1 – Il popolo delle provincie continentali dell’Italia meridionale sarà convocato pel dì 21 del corrente mese di ottobre in comizi, per accettare o rigettare il seguente plebiscito: «Il popolo vuole l’Italia una ed indivisibile, con Vittorio Emanuele, Re Costituzionale, e suoi legittimi discendenti». Il voto sarà espresso per sì o per no, col mezzo di un bollettino stampato.

Articolo 2 – Sono chiamati a dare il voto tutti i cittadini che abbiano compiuto gli anni ventuno, e si trovino nel pieno godimento dei loro diritti civili e politici. […]

Articolo 3 – […].

Articolo 4 – […] Si troveranno nei luoghi, destinati alla votazione, su di un apposito banco tre urne, una vuota nel mezzo, e due laterali, in una delle quali saranno preparati i bullettini col sì, e nell’altra quelli del no, perché ciascun votante prenda quello che gli aggrada e lo deponga nell’urna vuota.

Ma quanti erano i cittadini che si trovavano nel pieno diritto di voto? L’elettore avrebbe dovuto “liberamente” prendere una scheda prestampata dal cesto dei SI o da quello dei NO e depositarla, al cospetto di tutti, in un’urna vuota posta al centro del tavolo, così che tutti potessero vedere e controllare la sua scelta.

Intanto, l’11 ottobre 1860, come da copione del grande commediografo Cavour, la Camera dei deputati di Torino aveva approvato, dopo numerose sedute, il seguente unico articolo di legge:

Il Governo del Re è autorizzato ad accettare e stabilire per reali decreti l’annessione allo Stato di quelle provincie dell’Italia centrale e meri­dionale, nelle quali si manifesti liberamente per suffragio diretto uni­versale la volontà delle popolazioni di far parte integrante alla nostra Monarchia Nazionale.

Che valore poteva avere l’espressione «nella quali si manifesti liberamente… la volontà delle popolazioni» se l’occupazione militare delle Marche, dell’Umbria e del Regno di Napoli era già avvenuta? Ma il popolo, inteso come maggioranza e non come una minoranza di cui si riempivano la bocca i rivoluzionari, voleva l’annessione? La risposta è in una lettera del conte di Siracusa Leopoldo, zio del re Francesco II, che qualche tempo prima aveva scritto al suo segretario personale, l’archeologo Fiorelli:

L’annessione Napoli non la vuole e non bisogna farsi illusione. Qui non vi sono mille persone che la vogliono. Il paese è per la fusione, non per l’annessione. Che cosa si farà? Come fare accettare l’unificazione? Con la forza non basterebbero 10 Garibaldi, ed il suffragio generale darebbe Governo libero, unito d’interessi con l’Italia, ma con autonomia propria.[8]

Le seguenti osservazioni di Biagio Caranti, segretario del prodittatore Giorgio Pallavicino a Napoli, sono chiare e indicative:

Ma gli astuti oppositori non si fecero a discutere sulla formola del plebiscito, ma sì sulla convenienza che, prima di darvi esecuzione, si convocasse un’assemblea che stabilisse le condizioni dell’annessione. Essi ben sapevano che il Parlamento dell’Italia superiore aveva decretato, con saggio consiglio, che le annessioni dovevano essere incondizionate; quindi, qualora fosse sorto nell’Italia inferiore un altro Parlamento che, al contra­rio, si fosse occupato di stabilire e imporre le condizioni dell’annessione, il germe della discordia era gettato. Il Re di Sardegna avrebbe dovuto sospendere il suo cammino, non potendolo giustificare colla chiamata dei popoli; assai probabilmente la diplomazia, poco amica dell’unità italiana, avrebbe ripigliata l’opera sua con inutile intromissione e diluvii di note e contronote. Ciò avrebbe dato il tempo alla reazione europea, stordita dalla rapidità degli avvenimenti, di correre in aiuto della Borbonide pericolante; e forse l’Italia, vie più [sempre più] manomessa pei suoi generosi tentativi, avrebbe dovuto di bel nuovo, carica di straniere e domestiche catene, essere miserando ludibrio del mondo.[9]

Il Regno d’Italia, nato per combattere il dispotismo e la tirannia dei sovrani, esordiva con un plebiscito fittizio, fatto senza alcuna garanzia e riservatezza di voto, e senza il quale «il Re di Sardegna avrebbe dovuto sospendere il suo cammino, non potendolo giustificare colla chiamata dei popoli». Il plebiscito del 21 ottobre fu “riservato” alla minoranza dei Si, che di fatto impedì alla maggioranza dei No di manifestare liberamente e in serenità il proprio intendimento contrario.

A Napoli c’erano quattro fazioni, che dividevano il popolo: la prima, la più piccola, era quella dei repubblicani di Mazzini; la seconda era quella dei liberali, che desiderava l’autonomia ma volentieri si sarebbe unita a Vittorio Emanuele; la terza, molto piccola, era rappresentata da quelli che si erano offerti al Pie­monte, come il generale Alessandro Nunziante e Liborio Romano; la quarta, la maggioranza, era quella del popolo o dei lazzaroni favorevole alla dinastia dei Borbone e che, affermava la Civiltà Cattolica, «se non fosse stata intimidita dalla violenza di quei giorni e avesse avuto i mezzi li avrebbe sterminati tutti».

3.    Come si svolse il plebiscito?

Nei paesi dove non c’erano uomini armati a controllare le votazioni, i paesani aggredirono quelli che consigliavano di votare SI, in altri ci furono rivolte per impedire la votazione, come a Barra alle porte di Napoli e a Carbonara in provincia di Avellino. A Carbonara, il 22 ottobre, i popolani gridarono «Viva Francesco II!» e fecero il plebiscito in suo favore.[10] Il capitano della Guardia Nazionale minacciò la popolazione che, dopo aver messo in fuga i liberali, prese i membri del Municipio, che nei giorni precedenti avevano bruciato i ritratti di Francesco II e di Maria Sofia e li costrinsero a bruciare i ritratti di Garibaldi e Vittorio Emanuele. Non contenta, la folla aggredì con le scuri «il Ricevitore del registro e il Giudice Conciliatore, ma costui fu miracolosamente salvo perché una voce gridò che era stato eletto da Francesco II».[11] Tagliarono la testa a cinquanta concittadini e allinearono i loro corpi nella piazza come maiali in vendita.[12] Fu questo il plebiscito, chiaro, univoco e inequivocabile del popolo.

In altri luoghi, dove i camorristi intimorivano le persone, votarono, salvo pochi, soltanto gli uomini favorevoli al SI; i sostenitori del NO non andarono ai seggi per paura. Ma la gente sapeva che cosa stava votando? Già molti giorni prima del voto, il Pungolo[13] aveva scritto:

Ma che cosa è plebiscito? Che cosa vuol dire plebiscito? Ben pochi si curarono di spiegare al popolo tutta la importanza, tutta la forza che non è una parola, ma una idea […].

Plebiscito vuol dire suffragio universale, suffragio universale vuol dire che tutti gli uomini indistintamente, qualunque sia la loro condizione, il ricco al pari del povero, il plebeo al pari del nobile, l’operaio al pari del proprietario, il cittadino al pari dell’uomo della campagna, tutti quanti abitano in un dato Regno, sono chiamati a decidere sui propri destini, a scegliere liberamente, spontaneamente la forma di governo da cui intendono, e vogliono esser retti. È insomma la volontà del popolo sostituita al diritto divino […].[14]

A Napoli si ripeteva quanto era accaduto a Nizza pochi mesi prima, dove il plebiscito era stato pilotato per giustificare la cessione della città alla Francia, già decisa e concordata con Napo­leone III.[15] Garibaldi avrebbe potuto evitare il plebiscito a Napoli e nel regno? Si, ma non ebbe la forza di opporsi alle pressioni dei cavouriani, e pur contestando la cessione di Nizza alla Francia e le modalità del plebiscito avvenuto in questa città, seguiva, nonostante i timori di Cavour, la corrente a favore del Piemonte e di Vittorio Emanuele II. Per mesi aveva rinviato il plebiscito in Sicilia e ora a Napoli non poteva fare altro che lasciare il campo a Vittorio Emanuele, che il 10 ottobre aveva varcato i confini del Regno. Biagio Caranti, segretario del Pallavicino scrisse:

Gli oppositori del plebiscito, sapevano che nell’animo di Garibaldi v’era una corda, il cui tocco non poteva che produrre una nota lugubre e dolorosa. Di quella si valsero. Dissero al Generale: Se fra il plebiscito di Napoli e quello di Nizza voi non porrete un qualche atto che stabilisca fra di loro una evidente differenza di esecuzione, voi implicitamente riconoscerete la legale validità del plebiscito di Nizza, contro del quale protestate. Che se al contrario il plebiscito di Napoli sarà da voi corroborato ad esempio, colle solenni decisioni di un’assemblea, essendo questa mancata alla votazione di Nizza, non cadrete in contraddizione, continuando a dichiarare quella nulla ed inefficace.[16]

L’11 ottobre, Garibaldi aveva tenuto a Caserta una riunione con il prodittatore Pallavicino per convocare un’assemblea e decidere le condizioni dell’annessione. Tutti erano d’accordo, solo Pallavicino, fedele al progetto di Cavour, era contrario. Ci fu una «discussione aspra e violenta» e il prodittatore minacciò di dimettersi. Narra Caranti:

Pallavicino convulse dallo sdegno e dal dolore, dichiarò che egli non voleva aver alcuna partecipazione a questo tradimento dell’unità nazionale, che era ben dolente di dover vedere che colui che con una mano aveva tanto operato in suo pro, coll’altra la atterrasse; che egli all’istante rassegnava i suoi poteri, e che il domani avrebbe abbandonato Napoli.[17]

Di fatti Cavour voleva un’annessione senza condizioni! Ritornato il Pallavicino a Napoli, i filopiemontesi seppero che Garibaldi voleva convocare un’assemblea per decidere le condizioni dell’annessione, e subito i sostenitori di Cavour si attivarono per impedire il suo progetto. Narra Caranti:

Quando seppero la presa risoluzione, indignati andarono raccontando l’accaduto, e in un batter d’occhio tutte le vie di Napoli e caffè rigurgitavano di popolo che discuteva sul da farsi. E in quella notte che fu organizzata la celebre dimostrazione dei Sì. La formola del plebiscito decretata da Pallavicino costituiva una domanda. Stabilissi di rispondervi in anticipazione, e far così intendere la Generale disapprovazione alla riunione di quell’assemblea tanto disapprovata e paventata dal Pallavicino. Infatti, il domani mattina, pareva che per un incanto in Napoli fossevi stata una grande nevicata di Sì. Essi stavano affissi su tutte le porte, le finestre, le mura delle case, sulle vetture, sui cappelli degli uomini, sui loro abiti, sui vestiti delle don­ne, nelle vetrine dei negozi, nei poetici tempietti degli acquaiuoli. Ovunque vi foste rivolto, dappertutto avreste trovato un Sì con cui quella nobile popolazione sanzionava il dogma dell’unità nazionale.[18]

Il giorno dopo, il Prodittatore presentò le dimissioni scritte e Garibaldi fu costretto a tornare a Napoli. Carlo Cattaneo inviò una lettera a Pallavicino per informarlo che il Generale avrebbe riunito i ministri nel palazzo d’Angri, e, tra l’altro, gli scrisse: «Non vi può essere dualità tra il plebiscito e l’assemblea tutrice, che deve giustificarlo e sollevarlo sopra l’informe squittinio [alterazione dello scrutinio] di Nizza».[19]

Di grande interesse è la lettera del 25 aprile 1860 con cui Garibaldi e Laurenti-Robaudi, deputati al parlamento, avevano dato le dimissioni dopo il plebiscito per l’annessione di Nizza alla Francia. Ecco il testo delle dimissioni:

Genova, 25 aprile 1860.

Sig. Presidente

Visto il risultato della votazione della contea di Nizza, fatta il 15 corrente, senza veruna guarentigia legale, con violazione manifesta della libertà e della regolarità del voto e delle solenni promesse stipulate nel trattato di cessione del 24 marzo; Attesoché una siffatta violazione si è compiuta in un paese che nominalmente apparteneva ancora allo Stato Sardo e libero di scegliere fra questo e la Francia, ma in realtà in completa balìa di quest’ultima potenza, occupato militarmente e sottomesso a tutte le influenze di forza materiale e di pressione morale, come per noi fu dimostrato in modo irrefragabile al cospetto della Camera e del paese; Attesoché la presente votazione è stata fatta, in quanto al modo, con irregolarità gravissima, che l’esperienza del passato ci preclude ogni via a sperare che venga su questo punto ordinata un’inchiesta; Noi sottoscritti crediamo nostro dovere di deporre il nostro mandato di rappresentanti di Nizza, protestando contro l’atto di frode e di violenza che si è consumato, aspettando che i tempi e le circostanze consentano a noi ed ai nostri concittadini di far valere con una libertà reale i nostri diritti, che non possono venir menomati da un fallo illegale e fraudolento.

G. Garibaldi – Laurenti-Robaudi.[20]

Il 13 ottobre, Garibaldi venne a Napoli e molti cittadini e la guardia nazionale si affrettarono a manifestare in gran numero per le strade contro l’assemblea. Alle due del pomeriggio Gari­baldi s’incontrò con il Prodittatore Pallavicino, il ministro Conforti, Crispi e altri. Narra Caranti:

Sul principio, si discusse con calma e temperanza. Poscia, mano mano, riscaldati gli spiriti ricominciò aspra e violenta la battaglia […].

Il Generale continuava a propendere per l’assemblea e il Pallavicino, alfine, stanco di questo affannoso e inutile dibattersi, si alzò per ritirarsi, persistendo nella sua dimissione.[21]

Intanto, in città circolava una petizione affinché il dittatore lasciasse Pallavicino alla guida del Governo e quasi al termine della riunione furono presentate a Garibaldi numerose copie firmate. Ecco il testo della petizione:

Generale Dittatore! Voi avete salvo [salvato] il Paese dalla tirannide de’ Borboni col prestigio del vostro nome, e con quello del Re Galantuomo, carissimi a questi popoli italiani. Voi, dopo ciò, ci avete salvi [salvati] dall’anarchia in cui eravamo caduti, dandoci a Prodittatore un illustre e forte carattere italiano, Giorgio Pallavicino Trivulzio. Egli in pochi giorni ricomponeva la sgominata macchina dello Stato, e la confidenza rinacque nell’animo di ogni buono. Il Paese sentivasi superbo di esser governato da Giuseppe Garibaldi e dal Pallavicino. Ora ricade nello sgomento in udire come questi avesse rassegnato i suoi poteri. Generale Dittatore, non vogliate distruggere tanto benefizio e tanta gloria del vostro nome, era che siamo per vedere la faccia desiderata del nostro Re. Deh! non togliete le redini del Governo dalle mani onorate ed espertissime, a cui testé le fidaste, e la Patria ve ne saprà grado come di novella vittoria riportata sopra i suoi nemici.[22]

Garibaldi la guardò, la lesse, pensò un poco e dopo un istante di silenzio, sorridendo disse: «Se questo è il desiderio del popolo napoletano, esso sia soddisfatto! Niuno meglio di noi è pronto a chinare la fronte innanzi ad un’autorità così solenne».[23]

La petizione rappresentava il desiderio di un esiguo numero di cittadini napoletani filopiemontesi, non certamente la volontà dell’intero popolo napoletano. Crispi non condividendo la decisione di Garibaldi presentò le dimissioni:

Signor Prodittatore!

Dopo gli ultimi casi a voi ben noti, essendo incompatibile la mia presenza in un Ministero, del quale siete il capo, vengo col presente a rassegnarvi la mia dimissione di Segretario di Stato degli Affari Esteri.[24]

Intanto, sul Giornale Officiale di Napoli dell’otto ottobre, il prodittatore Pallavicino aveva già pubblicato il decreto di convocazione del plebiscito: «Art. 1. Il popolo delle province continentali dell’Italia meridionale sarà convocato pel dì 21 del corrente mese di ottobre in comizii, per accettare o rigettare il seguente plebiscito: Il popolo vuole l’Italia una indivisibile, con Vittorio Emanuele, Re costituzionale, e suoi legittimi discendenti». Parimenti fece a Palermo, il 15 ottobre, il prodittatore Mordini con la medesima proposizione.

Il 21 ottobre, mentre Francesco II combatteva contro Garibaldi a Capua e sul Volturno, in tutte le province del regno si tenne il Plebiscito. Nel porto di Napoli c’era la flotta piemontese, pronta a intervenire in caso di bisogno. La città era in mano ai garibaldini, ai camorristi e alla Guardia Nazionale. Qualche giorno prima delle votazioni erano stati attaccati ai muri della città molti cartelli che dichiaravano nemico della patria chi si asteneva dal voto o votava contro l’annessione al Piemonte. Le stesse modalità usate per il plebiscito di Nizza e contestate da Garibaldi al governo, «senza veruna guarentigia legale, con violazione manifesta della libertà e della regolarità del voto», si usavano ora per il plebiscito di Napoli e in tutto il Regno continentale delle Due Sicilie.


[1] C.B. CAVOUR, op. cit., vol. III, pp.77-78. (Il corsivo è mio.)

[2] Ivi, pp. 107-109. (Il testo è in francese, la traduzione è mia.)

[3] L. CHIALA, Lettere edite ed inedite di Camillo Cavour, vol. VI, op. cit. p. 616.

[4] C.B. CAVOUR, op.cit., vol. IV, p. 308. (La traduzione è mia.)

[5] LA CIVILTA CATTOLICA, 27 ottobre 1860, vol. VIII, Roma 1860, p. 365.

[6] « La politique d’hypocrisie, que vous servez, commence à être mise à jour, et en Italie vous étés ici le dernier lambeau du masque de votre maitre.» (LA BANDIERA ITALIANA, N. 77 del 30 ottobre 1860.)

[7] C.B. CAVOUR, op. cit., vol. IV, p. 118.

[8] C.B. CAVOUR, op. cit., p.230.

[9] B. CARANTI, Alcune Notizie sul Plebiscito, Tip. Giachetti, Prato 1864, p. 32.

[10] L’anno seguente, per far dimenticare questo importante episodio della reazione popolare, l’ipocrisia liberale cambiò il nome Carbonara in Aquilonia. Aquilonia fu distrutta del terremoto del 1930 e ricostuita in un altro sito. Di recente l’amministrazione comunale ha fatto inserire nello stemma cittadino la frase “Olim mihi fuit nomen Carbonara”. Il 21 aprile 1861, la Guardia Nazionale di Carbonara si unì a un gruppo di insorti e tirò su un drappello di fanteria piemontese, che fu costretto a ritirarsi sopra Monteverde.

[11] G. BUTTÀ, op. cit., p. 571.

[12] LA CIVILTÀ CATTOLICA, vol. IX, Roma 1861, p. 620.

[13] Il PUNGOLO fu fondato a Napoli nell’ottobre 1860 da Leone Fortis su suggerimento di Luigi Farini. Il primo numero uscì il 15 ottobre: «Il PUNGOLO di Napoli è fratello al PUNGOLO di Milano, si propone di conciliare gl’interessi generali d’Italia con quelli speciali di queste Provincie, facendosi organo dei loro bisogni, dei loro desideri, della loro volontà. Perciò propugnerà il discentramento amministrativo in quelle più larghe proporzioni che sono compatibili col vincolo della Unità nazionale; perciò chiederà pei Comuni le più ampie libertà e la minor possibile ingerenza governativa…». (Cfr. IL PUNGOLO, Anno I, N. 1, Napoli Lunedì 15 ottobre.)

[14] IL PUNGOLO, giornale della sera, lunedì 16 ottobre 1860, N. 2.

[15] Carteggio Cavour-Nigra, op. cit., vol. IV, p. 15. (Scrisse Artom a Nigra il 9 giugno 1860: «Il suffragio applicato a Nizza non può avere la stessa efficacia, lo stesso valore del voto dei popoli dell’Italia Centrale: si fu in nome del Re e pel bene dell’Italia che si chiese formalmente ai Nizzardi di votare per la Francia: si chiese a Nizza di sacrificarsi per l’Italia: si disse che chi votava contro la Francia, votava per l’Austria, ecc.»)

[16] B. CARANTI, op. cit., p. 34.

[17] Ivi, p. 36. (Caranti era presente alla discussione.)

[18] Ivi, op. cit., pp. 36-37.

[19] Ivi, p. 38. (Nizza 15 aprile 1860: voti 24.488 per l’annessione alla Francia;160 contro. Savoia 29 aprile 1860: voti 130.536 per l’annessione, 2.235 contro l’annessione. In: A. ZOBI, op. cit., p. 94).

[20] ANONIMO, Gli avvenimenti d’Italia nel 1860, vol. I, Editore Gio Cecchini, Venezia 1860, pp. 10-11.)

[21] B. CARANTI, op. cit., pp. 42-43.

[22] Ibidem

[23] Ibidem

[24] B. CARANTI, op. cit., p. 44.

……….continua

(Estratto da “La GARIBALDITE”  –  Storia delle falsità e delle ipocrisie risorgimentali.)

Vincenzo Giannone

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