Il principe tombarolo:Luciano Bonaparte e il sacco di Vulci
L’archeologia fu la sua grande passione: entusiasmi, successi e cantonate di Luciano Bonaparte, Principe di Canino
Immaginate di essere sull’orlo del crac finanziario, con i creditori alle porte, le banche che vi chiudono i conti, gli amici che non si fanno trovare temendo la richiesta di prestiti. A ciò aggiungete una famiglia numerosa: dieci bocche da sfamare e una moglie ambiziosa. E in più una ventina tra servitori, guardiani e dame di compagnia. E ancora: un nome importante e un titolo da onorare, anche con un adeguato tenore di vita. Metteteci pure qualche viziuccio da soddisfare e l’aver dilapidato una somma favolosa per una attempata amante. Cosa fareste voi? Chiedereste soldi ai parenti stretti. E poi? Vendereste i vostri immobili. E se anche questo non bastasse? Forse non vi resterebbe che fare come il Principe di Canino…
La crisi finanziaria che Luciano Bonaparte attraversava negli anni immediatamente successivi alla sua nomina a Principe di Canino era decisamente drammatica e tutti gli interventi per arginarla si erano rivelati semplici palliativi. Intanto non era riuscito a farsi restituire il prestito di 500.000 franchi (cifra favolosa, non solo per quei tempi) concesso alla sua amante storica, la marchesa Ana Maria di Santa Cruz, al tempo della sua ambasciata in Spagna. Non solo, il suo clan famigliare tra figli e famigli era in continuo aumento.
Nel tentativo di salvare il salvabile si era già visto costretto a vendere la sua residenza romana, quel Palazzo Nuňez nel cuore di Roma dove Luciano aveva condotto una vita fastosamente mondana. Identica sorte era toccata alla splendida villa la Rufinella, suo buen retiro presso Frascati. Ma non era bastato. Con l’acqua alla gola e con l’istanza di fallimento incombente a Luciano non restò che sollecitare la solidarietà familiare, per evitare lo scandalo di un principe, per di più un Bonaparte, trascinato dai creditori in tribunale.
Risposero all’appello lo zio cardinale Fesh, forse per spirito di cristiana carità, e il fratello Maggiore Giuseppe, ex re di Napoli, ex re di Spagna, che si era rifatto una vita in America riciclandosi come Conte di Survilliers.
Tamponata l’emergenza, il problema restava e non si intravedevano vie d’uscita. E’ a questo punto che interviene un fatto nuovo, di tale portata da risolvere non solo tutti i suoi guai finanziari ma da condizionare la sua stessa futura esistenza: la scoperta della necropoli di Vulci.
L’evento è ricordato da Luciano in uno dei suoi scritti ed è confermato, come vedremo, dal Dennis. Troppa grazia! verrebbe da dire: ci appare assolutamente poco credibile che una necropoli con decine di migliaia di tombe possa spuntare da un giorno all’altro, così come un fungo. Ci sembra evidente che il Principe di Canino abbia voluto “nobilitare” la sua nuova intrapresa economica: la sua geniale intuizione di sfruttare economicamente le ricchezze archeologiche delle sue terre per creare e alimentare il mercato internazionale delle antichità. Elevato il rischio d’impresa: poteva essere il colpo di grazia per le sue dissestate finanze. Ma si trattò di una svolta quasi necessitata. Poteva essere un flop, fu un autentico trionfo, non solo dal punto di vista economico.
Fu come una rinascita: scese in campo Luciano Bonaparte, il principe tombarolo.
Padri nobili
Luciano Bonaparte non fu certo il primo ad interessarsi di cose etrusche. Già all’inizio della seconda metà dello scorso millennio, eruditi ed antiquari per diletto e per amore degli antichi iniziarono a raccogliere e a collezionare i primi reperti. In verità la violazione delle tombe è sempre esistita, addirittura fin dal tempo degli etruschi, per quanto relegata in ambito sacrilego o comunque riprovevole: fenomeno di valenza criminale quindi, e non certo culturale. In sostanza non vi era, e per molti secoli non vi fu, alcun condiviso orientamento socio-culturale che vedeva nella pratica degli scavi la lecita esplicazione di un’attività dai possibili esiti economici, oltreché storico-artistici. Chi profanava le tombe era per tutti un ladro e un sacrilego.
Le cose cambiarono nei primi decenni dell’ottocento, e una spinta determinante in questa direzione fu data proprio dalle scoperte del Principe di Canino. Esplose allora in tutta la sua virulenza una vera e propria “febbre da tomba”. Non contagiosa però, visto che ad esserne infettati furono quasi esclusivamente ricchi aristocratici e grandi proprietari terrieri. In altre parole si dedicò agli scavi chi poteva permetterselo: per censo, cultura e in quanto proprietario dei latifondi su cui cominciavano a venire alla luce le antiche necropoli. La gente comune ne restò sostanzialmente fuori. Lo “spontaneismo archeologico” su larga scala è infatti cosa relativamente recente: ebbe inizio sul principio degli anni cinquanta per poi esaurirsi (o quasi) nel corso degli anni novanta.
Ma torniamo ai “signori”: furono loro i primi veri tombaroli e a loro è in gran parte imputabile il sacco dell’Etruria. Furono nobili e aristocratici, non sempre illuminati, a pianificare, organizzare e gestire la predazione delle ricchezze archeologiche del nostro territorio, che del resto era loro proprietà: per quasi un secolo ebbero l’esclusiva e il monopolio degli scavi. Per gli altri, per il popolo, non rimarranno che le briciole.
Luciano fu naturalmente in prima fila, fu lui il portabandiera.
Ritratto di principe
Siamo abituati a pensare a Luciano Bonaparte come ad un tranquillo signorotto di campagna che dal suo eremo di Musignano organizzava battute di caccia e campagne di scavi. Oppure come ad un ex-politico caduto in disgrazia ed esiliato nel piccolo borgo di Canino; una specie di pensionato di lusso venuto a svernare in questa parte d’Etruria l’estrema fase della sua vita. O, peggio, come ad uno che visse di luce riflessa all’ombra del Grande Fratello, l’Imperatore, da cui ottenne favori e onori.
Le cose non stanno propriamente così.
Si trattò infatti di un uomo dalla personalità forte e complessa, a tratti contraddittoria: rivoluzionario e papalino, repubblicano e aristocratico, intellettuale e mercante. Un animo inquieto, alimentato da uno spirito audace e risoluto. Fu politico, ministro, ambasciatore, scrittore, poeta, archeologo, astronomo e giurista. Uno che visse una vita travagliata, facendo le debite proporzioni, quasi quanto quella dell’illustre fratello.
Napoleone gli deve molto: fu Luciano a inscenare la memorabile pantomima, il geniale colpo di teatro, che rivoltò le sorti del 18 brumaio 1799. Fu Luciano che, di fronte ai tumulti dell’assemblea dei cinquecento da lui stesso presieduta e che stava per dichiarare Napoleone fuorilegge, afferrò una spada e puntandola enfaticamente alla gola dell’illustre fratello dichiarò a gran voce che lui per primo avrebbe ucciso Napoleone se mai avesse osato violare le libertà della Francia. Sappiamo poi come è andata a finire.
Determinato nel respingere ogni intrusione e interferenza nella propria sfera di libertà privata ed autonomia di giudizio e per nulla incline a modi cortigiani, preferì l’amore alla politica e, contro la volontà di Napoleone, sposò in seconde nozze la borghese Alessandrina de Bleschamps, vedova di un agente di cambio, venendo così definitivamente in urto con il fratello – del quale per altro disapprovava politica e sistemi di governo – che caldeggiava per lui un matrimonio politico.
Nonostante i contrasti, le pressioni e i condizionamenti (Napoleone aveva già osteggiato il primo matrimonio di Luciano con Cristina Boyer, poi deceduta); nonostante l’allontanamento dalla corte di Parigi e il volontario esilio in terra di Tuscia, Luciano si sentì sempre legato a Napoleone e lo amò con affetto sincero e fraterno, tanto da essergli vicino nei momenti più bui della sua vita. Una figura da molti punti di vista assai interessante, quindi.
A noi tuttavia Luciano Bonaparte interessa come pioniere, patrono e artefice della prima fase di scavi in questa parte d’Etruria.
Il sacco di Vulci
Ma quando avvenne ciò, con esattezza?
George Dennis, nel suo celebratissimo “Città e Necropoli d’Etruria“, ci fornisce in proposito una data abbastanza precisa: la primavera del 1828, allorchè la volta di una tomba a camera nelle vicinanze del castello di Vulci franò sotto il peso dei buoi che aravano un campo, rivelando così la presenza di pochi (per la verità) frammenti ceramici. Fu quello il “via”, l’inizio di una “caccia al tesoro” che non si è ancora conclusa.
Questo racconto, per quanto affascinante, ci appare nondimeno – come premesso – poco più che un pretesto letterario: non dimentichiamo che il Dennis, archeologo e viaggiatore per passione, scrittore e diplomatico per professione, si rivolgeva ai suoi connazionali inglesi (la prima edizione della sua opera fu pubblicata in due volumi a Londra nel 1848) e come ogni narratore avvertiva l’esigenza di rendere avvincente la lettura e organico lo svolgimento degli eventi. Non ebbe quindi difficoltà a riferire l’episodio, per altro assai verosimile, appreso presso il clan dei Bonaparte.
In verità i nostri contadini e pastori hanno da sempre utilizzato le grotte etrusche come ricoveri per se stessi e per le greggi, o come depositi per il raccolto. E le alluvioni, già molto prima dei moderni mezzi agricoli, avevano dilavato e livellato i fondi facendo emergere una gran quantità di residui ceramici. La scoperta casuale di pochi frammenti avrebbe quindi lasciato pressoché indifferente chi da sempre usava le olle e i vasi etruschi come contenitori o mangiatoie. Ciò, evidentemente, nulla toglie alla autenticità e verità del racconto del Dennis, frutto di accurate ricerche condotte sui luoghi, che l’Autore percorse, si può dire, palmo a palmo, e che rappresenta tutt’oggi una fonte imprescindibile per chi voglia occuparsi di cose etrusche.
Fatto sta che verso la fine dell’anno Luciano Bonaparte iniziò “la fabbrica degli scavi” con esiti veramente sorprendenti: in poche settimane setacciò sistematicamente un’area di circa due ettari portando alla luce oltre duemila vasi!
Fu un merito di Luciano l’aver intuito la valenza culturale e, soprattutto, le potenzialità economiche di un mercato ancora agli albori ma che avrebbe conosciuto nei decenni successivi uno straordinario sviluppo, per la necessità di alimentare collezioni pubbliche e private e soprattutto rifornire i nascenti musei. Com’è naturale gran parte di questi reperti finirono all’estero, ma ciò non deve scandalizzarci considerato che nessuna legge vietava lo scavo e il commercio di tali oggetti.
Nel Luciano mostrò da subito una spiccata passione per i vasi dipinti, tanto da ordinare al soprintendente che aveva assunto per la direzione degli scavi di recuperarne anche il più piccolo frammento.
I frammenti recuperati venivano quindi abilmente ricomposti e, nel caso, integrati. I vasi così ricostituiti finivano poi sul mercato, specialmente europeo.
Questa pratica contribuì indubbiamente al recupero e alla salvaguardia di una gran quantità di pezzi pregiati, che sarebbero altrimenti andati dispersi; e favorì la formazione di una nuova classe di valenti artigiani ceramisti e restauratori (gli stessi che si daranno poi alla creazione di falsi e imitazioni…). Decretò tuttavia l’ostracismo e la definitiva condanna del vasellame grezzo e meno pregiato, buccheri e terrecotte non figurate, che venne perlopiù distrutto all’apertura delle tombe, per evitare interferenze sui mercati e calo dei prezzi.
Tutto ciò potrà apparire brutale, ma risponde pienamente alle logiche di mercato (la rarità incrementa il valore); del resto i tantissimi pezzi andati perduti, comunque poco significativi dal punto di vista storico-culturale e pressochè privi di valore economico, corrispondono a tipologie di vasellame talmente comuni che tutt’oggi se ne trovano in quantità.
Vulci, evidentemente poco battuta nelle precedenti campagne “storiche” di spoliazione delle necropoli (già ai tempi di Giulio Cesare erano di gran moda i vasi attici dipinti e l’imperatore Teodorico ordinò con un suo editto di ripulire tutti i sepolcri d’Italia per recuperare oro e metalli…), si rivelò una vera e propria “miniera di vasi” e Luciano proseguì al meglio la sua “opera” praticamente fino alla morte, avvenuta a Viterbo nel 1840.
Adorabile gaffeur
Non gli mancarono successi. Alcuni notevoli ritrovamenti gratificarono il suo non sopito (fra i commerci) spirito archeologico: fu lui infatti a scoprire gli importanti sepolcreti della Cuccumella e della Cuccumelletta. Si lasciò tuttavia sfuggire la perla più rara e preziosa, la scoperta che forse avrebbe consegnato alla storia il suo nome non solo con il malinconico attributo di “Principe di Canino”; ci riferiamo al monumento più illustre e celebrato di tutta l’Etruria: la favolosa Tomba François (per altro non distante dai citati sepolcreti) scoperta nel 1857, per conto dei Torlonia, dall’archeologo Alessandro François, da cui prese il nome.
Ma se una mancata scoperta non può certo esser considerata una colpa, occorre anche dire che Luciano prese alcune “cantonate” davvero clamorose. Avete presente Cristoforo Colombo che scopre per caso l’America ma è convinto di aver raggiunto le Indie? A Luciano Bonaparte, facendo ancora una volta le debite proporzioni, è capitato qualcosa di simile. Riportò alla luce le necropoli di Vulci convinto di aver scoperto il sito di… Vetulonia. Quest’ultima, importante città appartenente alla dodecapoli etrusca e già nota agli studiosi in quanto citata da fonti etrusche e romane, era una sorta di araba fenice che aveva dato filo da torcere a molte generazioni di storici e archeologi: fin dal rinascimento si disputava sulla sua esatta localizzazione ed era stata ricercata in lungo e largo per tutta la Maremma. A Luciano Bonaparte non sembrò vero di risolvere questo enigma secolare: e in effetti tra Velcha (Vulci) e Vatlu (Vetulonia) la differenza, dal punto di vista lessicale, al profano potrebbe risultare trascurabile…
La diaspora
La vedova Bonaparte, autentica zarina della Tuscia, spremette Vulci come un limone. E, come una zarina, amava presentarsi in pubblico indossando preziose parure di gioielli etruschi trafugati dalle tombe. Nessuno può dire con esattezza quante tombe abbia violato (sicuramente migliaia), di moltissime si è persa la memoria storica e non sono state più individuate; così pure nessuno può dire di quanti reperti si sia impossessata e quanti ne abbia distrutti. Sappiamo solo che nei musei archeologici di tutto il mondo possiamo ammirare pezzi provenienti da Vulci e che, a cose fatte (o quasi), la señora e gli altri eredi Bonaparte vendettero tutto ai principi Torlonia.
Non bisogna tuttavia pensare che quello del ramo caninese dei Bonaparte sia stato l’unico esempio di spregiudicato sfruttamento di risorse archeologiche. Come si è accennato tutti (o quasi) i “signori” si dedicarono, chi più chi meno, alla nuova moda degli scavi: i Campanari, i Fossati, i Candelori, i Feoli, i Cini, i Torlonia… questi ultimi, ad esempio, dopo la scoperta della tomba François ne distaccarono frettolosamente i grandiosi cicli di affreschi “non propriamente a regola d’arte”, come osservò lo studioso tedesco Stephan Steingraber, per poi confinarli nella loro residenza romana di Villa Albani.
Ancora una cosa vogliamo tuttavia aggiungere: quando in una vetrina del Metropolitan museum di New York, del M.F.A. di Boston, del Louvre di Parigi o del British Museum di Londra ci capita di leggere a fianco di qualche reperto dall’aria familiare “from Vulci” ci viene da sorridere e da pensare, con un pizzico di malizia e – perché no? – di gratitudine, “ma come ci è giunto questo pezzo fino a qui?!”: noi, che viviamo in questo angolo d’Etruria, conosciamo la risposta…
fonte
https://www.canino.info/inserti/bonaparte/tombarolo/index_5.htm