Il Pulcinella di Antonio Petito, una comicità da non dimenticare
Una tomba, qualche fiore, dei Pulcinella. Perchè Napoli dimentica? Antonio Petito non lo merita, non lo merita la sua arte tutta napoletana, non lo meritano neppure le nuove generazioni, quelle in balia dei “cinepanettoni” che si rifugiano in De Filippo e Totò. Nessuno lo merita, soprattutto perchè Petito vive, indipendentemente da quanto egli sia conosciuto, ogni volta che la comicità si tinge di ingegno e vera napoletanità.
Classe 1822, erede di una tradizione familiare che affondava le sue radici nella seconda metà del Settecento, Antonio Petito fu un attore comico di fama internazionale. Riuscì a far fruttare gli insegnamenti di suo padre Salvatore, noto interprete di Pulcinella nel primo Ottocento, e si ingegnò nella valorizzazione della commedia dell’arte cinquecentesca sancendone un ammodernamento originale e spumeggiante capace di fare del “Citrulo di Acerra” una maschera dinamica e furba, non più servo sciocco e zoticone.
Il padre recitava le sue farse in maschera al San Carlino, la madre Giuseppina D’Errico, la “Donna Peppa” dei teatri dei pupi napoletani, divenne l’impresaria della compagnia di famiglia. Da loro Petito apprese ogni insegnamento e con loro maturò quella capacità tutta sua di rompere gli schemi e innovare ciò che sembrava non più innovabile. Per esempio come in “All’unione delle fabbriche” del 1871, l’anno della Comune di Parigi, dove i temi sociali irrompono sul palco con un mondo non più rurale dove la lingua di Pulcinella non è più il vernacolo ricco di errori. La maschera è ora quella di un servo arguto e saggio, frutto del genio creativo di Petito che assurge così a riformatore del teatro classico.
Documenti originali, costumi e foto di Petito sono esposti al Museo di Pulcinella presso il castello baronale di Acerra; di Petito si conservano pure una novantina di copioni teatrali, quasi del tutto privi di punteggiatura, scorretti grammaticalmente ma validissimi per la scrittura teatrale perché Petito era estro e fantasia, capace nel suo rapimento creativo di divenire un genio sebbene semianalfabeta. Al San Carlino, Petito però indossò anche le maschere di Pascariello e Felice Sciosciammocca, due personaggi della modernità destinati a soppiantare Pulcinella nel futuro teatro napoletano. Al San Carlino iniziò il suo allievo Edoardo Scarpetta al grande teatro.
Morì il 24 marzo del 1877, al suo amato San Carlino, quando, chiuso il terzo atto della “Dama Bianca”, liberatosi del berretto e della maschera, spirò colpito da un malore al cuore. Gli rivolgiamo un pensiero, una preghiera, un ringraziamento.
Scrisse di lui Salvatore di Giacomo: “L’attore era veramente grande, la sua figura illuminava tutta la scena, riempiva tutti i vuoti, raccoglieva tutte le emozioni e gl’interessamenti; così le volgari stupidaggini della commedia petitiana, il suo difetto d’umanità, scomparivano in un godimento che pervadeva tutto il pubblico e durava ancor fuori del teatro: una felicità che accompagnava fin a casa gli spettatori, e lasciava ancor sorridere, nel sonno, le loro labbra dischiuse”.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
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