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Il saccheggio di Piedimonte d’Alife nel 1799 (II)

Posted by on Dic 29, 2021

Il saccheggio di Piedimonte d’Alife nel 1799 (II)

II. Si descrive l’arrivo di una colonna di 1775 francesi in questa città a dì 8 gennaio del 1799 e come fu aspramente saccheggiata per lo spazio di cinque intiere notti e quattro giorni

Essendo fuggito il nostro Sovrano a’ principi di dicembre dal Regno, con aver fatto incendiar molti bastimenti, e far getto di munizioni da guerra, lasciò di pubblicarsi un manifesto, con cui diceva ai popoli che si levassero in massa contro quelle orde di assassini- li quali venivano a toglierci la religione, l’onore e le proprietà- che marciavano a piccioli distaccamenti, non più numerosi di duemila uomini per ciascun di essi; che [i regnicoli] non si fossero fatti sedurre dai malintenzionati.

Subito [il manifesto con l’ordine reale] giunse anche qui [a Piedimonte], e fu convocato un general parlamento nel quale fu- coll’assistenza di un ufficiale che aveva la paura impressa nel viso- pubblicata e proclamata la leva in massa dal dotto domenicano padre Ottavio Maria Chiarizia- da me accudito- e fu eletto comandante della nostra massa [di soldati, di fanteria] il balestriere Francesco Di Tommaso, facendo conto di poter unire 2000 uomini, che io proposi farli- in cinque distaccamenti- imboscare tra le falde e le fratte delle montagne di Alife e di S. Angiolo [Sant’Angelo d’Alife], per passar quivi e di qui [andar] altrove, per recarsi in Napoli, potendo esser noi soccorsi dalle massette [di soldati] di S. Angiolo e di Alife.
Ma occorsero due motivi, che raffreddarono il popolo- animato da una predica angelica e profetica fatta dal santo sacerdote Don Pietro De Lellis, canonico della nostra collegiata [dell’Annunziata]- e che furono:

[1] il primo, che mancavano le armi e le munizioni, ed eccone la cagione: ad agosto 1798 fu consigliato al Re [di Napoli] dai suoi ministri giacobini che avesse disarmata la nazione, cercando un dono gratuito di tutti i fucili capaci almeno di una palla di tre quarti d’oncia; dalla qual richiesta ne avvenne che li possidenti di tali fucili, carabine, sciabole, baionette, fecero a gara di donarli al Re per fornirne l’Armata, non ostante che l’Esercito fosse al doppio provveduto di simili armi, dette di munizione, poiché non vi fu pur un soldato che delle armi donate fossesi guarnito, avendosele prese tutte o la birreria [i birri] dei Tribunali provinciali, o li rapacissimi ladri, subalterni delli stessi [birri], per essere le più belle e buone armi della nazione, poi che [poiché] quelle che furono consegnate a’ soldati erano pesantissime e fabbricate in modo da non poter far fuoco; e ciò affermo per la veduta di moltissime [armi] che mi passarono sotto gli occhi; al qual proposito ricordo ciò che un bravo calabrese, Francesco Saverio Bianco, riferì al cavaliere [John Francis Edward] Acton, cioè che quel disarmo si era suggerito dal giacobinismo, e con furore eseguito per tradire il Re e la nazione, che la gente era pronta a levarsi, ma non avea l’armi, e che perciò l’avesse mandate, perché altrimenti non si sarìa [sarebbe] verificata cosa veruna di buono;

[2] ed ecco l’altro motivo del prosieguo del fatto: il 28 dicembre 1798 giunse qui [in Piedimonte] l’avviso che il generale Daniele de Gambs- il quale era marciato con seimila uomini contro li francesi che entravano per la via degli Abruzzi- era stato disfatto a Popoli, e che veniva inseguito dalli medesimi [francesi].
Infatti alle ore 18 della mattina [verso le 10] [il generale Daniele de Gambs] giunse qui con uno squadrone di mille e duecento cavalli, tutta gente scellerata- ma l’ufficialità scelleratissima- che portava in fronte la viltà ed il tradimento; ci arrivarono in un diluvio di acque, nevi e venti, indici dell’ira di Dio; questa gente- come mi fu detto da alcun di essi più sincero- mai si battette col nemico, ma retrocedette sempre, voltando [la] faccia al solo nome dei francesi, e sempre coll’ordine de’ comandanti; al vedere que’ cavalli sembravano tanti scheletri, poiché marciavano senza foraggio e senza provvista, nel tempo stesso che il soldato facea passarsi la razione.

Il generale Daniele de Gambs alloggiò nell’episcopio, dove, visitato da Don Francesco Di Tommaso- comandante della massa-, costui li [gli] domandò come doveva condursi, nel caso che il nemico faceva questa via; ed egli il [gli] rispose: “Caro Don Ciccio, il nemico è forte di 12000 uomini, tutta gente feroce, ed ha una grande artiglieria; io ti consiglio a salvarti e non fare resistenza; del resto, se [il nemico] sarà ben ricevuto, non vi è che da temere”.
Udito ciò il Di Tommaso, la stessa notte, colla sua famiglia, montò a cavallo, salvando ciò che poteva, e si avviò per la montagna, dove stiè [stette] fino al dì 15 gennaio 1799. Quindi, quella massa che poteva [cioè, che avrebbe potuto distruggere] distrugger la colonnetta che di qui transitò, fu dissipata.

Il de Gambs disse che egli da Popoli era disceso a Isernia e, per il Pagliarone, aveva preso la strada di Sant’ Angiolo [d’Alife] per venir qui [a Piedimonte]; ma [ciò] non fece [indusse a] riflettere che la cennata via era disadatta al trasporto dell’artiglieria ed attissima all’imboscata, e dall’altro canto sicurissima per li nemici, che dovevano per Puglianello instradarsi a Benevento, e di qui a Napoli o in Capua, già messa in blocco ai [il] 26 dicembre [1798].
La stessa sera dunque del dì 28 dicembre giunse qui [a Piedimonte] quell’altro tagliacantoni, e brigadiere, Don Scipione della Marra, con 30 fucilieri di campagna, coll’avviso che marciavano a [verso] questa parte 700 disterrati, cioè facinorosi liberati dalle carceri, [ove stavano], per esser ladri o omicidiari, o di altre scelleratezze rei; si tenne un consiglietto di guerra, nel quale il de Gambs si oppose a tutti i progetti di difesa, come che [quantunque] il della Marra avesse proposto colla truppa che ci era, colli [con i] 700 disterrati che camminavano, e con le masse, di impedir il passo alli 1775 francesi, che dovevano passar di qui;
ma il de Gambs il ributtò [rigettò ogni proposta] col dire che non ci erano forze (cioè non ci era coraggio in lui), e il della Marra- che questo cercava, per evitare il cimento e restar giustificato- cedette alle ragioni del generale [de Gambs]; e si risolvette di portarsi [entrambi] in Napoli, cioè il della Marra per la volta di Benevento, ed egli [de Gambs] per Caiazzo;
non ostante che l’onesto gentiluomo Don Fernando Campopiano avesse offerto un sito di Sant’Angiolo [d’Alife], sua patria, attissimo a distruggere la colonnetta francese. Sicché [de Gambs e della Marra] stiedero [stettero], fino a tutto il dì 29 dicembre, qui [in Piedimonte], e la mattina del 30 dicembre sloggiarono; ma come?

Il della Marra partì co’ suoi fucilieri, lasciando ordine che, pervenuti li disterrati nel campo di Alife, li avessero avviati presso lui, ed il de Gambs- con altri officiali ed il nostro vescovo Emilio Gentile- ritirossi in Napoli, donde più non partissi né operò cosa alcuna.
Ora rifletta il lettore se questo generale de Gambs si portò fedele al Re.

Qui [a Piedimonte] fu udito dire a’ suoi soldati che, se volevano seguirlo, l’avessero fatto, dacché egli licenziava chiunque volesse ritirarsi dal servigio, come infatti tutti ritiraronsi con armi e cavalli, che poi vendevano per piccola bagattella.
Si disse che l’armata di questo generale [de Gambs] si avesse divisa la cassa militare, e che [gli stessi ufficiali e/o soldati profittatori] sparsero essere stata rubata dai francesi.
Si disse che [de Gambs], giunto che fu a Pescara, non volle ordinarsi [disporsi] contro il nemico, che poteva respingersi con soli 300 uomini.
Ma non fu così infedele il terribile abate Don Giuseppe Pronio, abruzzese di Antrodoco, il quale, penetrato dal manifesto del Re, sortì in campagna con una piccola massa di 400 compagni, e fu il flagello de’ francesi coll’uso delli soli fucili.
Imitator di costui fu Michele Pezza, di Itri, denominato Fra Diavolo, che, con poca gente, con piccole azioni ed imboscate, distruggeva li nemici in una maniera insieme prode e feroce.
Ma di costoro farassi lodevole parola da altri che ne stan registrando le gesta.

Torniamo al nostro fatto. A’ 2 gennaio 1799 vennero in Alife li disterrati con alcuni turchi, messi anche in libertà. Subito si diedero all’esercizio di lor professione, cioè a rubare. Li officiali non potevano correggerli, per timor della vita.
Or, che poteasi sperar da questa bruta razza di gente, la quale, alla fine nel nostro Mercato [in piazza Mercato, l’attuale piazza Roma, in Piedimonte], la mattina delli 3 [gennaio] si espresse così:
“Che se venivano li francesi, li avrebbero abbracciati come loro liberatori, perché se essi [i francesi] non venivano nel Regno, il Re non li avrìa [avrebbe] data la libertà, onde a quelli [ai francesi] e non al Re erano obbligati”.
Inquieti, disumani, feroci, finalmente la mattina dell’Epifania presero la volta di Puglianello, ma di essi molti qui [a Piedimonte] si vendettero li fucili, e le cartucce, e lo stesso, cammin facendo, per gli altri paesi praticarono que’ che restavano, poiché tutti si ritirarono nelle loro patrie.
La libertà di questa gente produsse due danni: l’uno di dispendio al Re, e l’altro di ruina [rovina] per le provincie, che ricominciarono ad infestare, riuniti in massette, ed impedivano il commercio generalmente.

Finalmente, la mattina del giorno 8 gennaio 1799, ritornandomi dal [Convento del] Carmine [in Piedimonte], m’incontrai non lungi di mia casa col canonico della cattedrale Don Vincenzo Meola che, di galoppo, venendo da Alife, mi chiamò, e disse in segreto:
“Amico, l’avanguardia francese è in Alife, per cui me ne son di fretta scappato”.
Io, svagato dall’avviso, riflettei ad alcune precedenti disposizioni; ed erano che il nostro principe, Don Onorato Gaetani, scrisse al suo agente Eugenio Sarrubbi una lettera, in cui- con sentimenti ostensivi da manifestarsi in pubblico-, faceva sentire che dal popolo si fossero accolti i francesi con buona ospitalità, perché non ci sarebbe stato di che temere.
Tanto scrisse il principe, perché il padre, il duca Don Nicola Gaetani, aveva, con simulato contratto, pochi giorni prima, refutati [rifiutati] li feudi ad esso principe, con politico accorgimento, cioè, che, quindi, lui [il duca] avrebbe seguito il destino del Re, ed il figlio [il principe] sariasi accostato a francesi, a ciò che, dopo la guerra, si foss’egli il duca ritrovato lodevole, comeché [quantunque] ponesse a cimento di sacrificare il disaccorto giovine.
Si credette dunque un po’ di intelligenza tra il principe ed i francesi, e per questo verso vi era motivo di freno al timore.
Si bassarono le campane, o se ne tolsero li martelli, disposta la gente alla quiete ed a soffrir questo passaggio alla meglio che si poteva.
Fummo noi avvisati dal vescovo dell’Aquila [Francesco Saverio Gualtieri], e da altri sacerdoti abruzzesi, che non ci fossimo fidati delle quiete apparenze e de’ proclami del nemico, perché sapeva esso [il nemico] trovar il pretesto di dar il sacco alle città ospiti.

Infatti sospettai, e giudicai, della rea intenzione la mattina del dì 7 [gennaio 1799], quando giunse qui [in Piedimonte]- al sindaco Don Andrea Imperadore-, l’ordine del generale Lemoine, e che io lessi sulla Casa della Corte [palazzo ducale], concepito così: “La municipalità di Piedimonte provveda l’armata francese di pane,vino, carni, olio, avena, fieno ed orzo”; contravvenendo, si minacciava l’esecuzione militare.

Io feci avvertire che quest’ordine era preludio di qualche tragedia, perché non si diceva il luogo dove volevasi il vitto, e i foraggi, né il numero de’ soldati, né il quantitativo della roba; poiché, io dicevo, costoro avranno sempre in favore un motivo di doglianza per assassinarci.

Ora, stando tutta la città in allarme, ed irresoluta, verso le ore 19 fuvvi [vi fu] un pispiglio [bisbiglio], e corsi alla finestra di mia casa, corrispondente dirimpetto alla così detta Porta Vallata, a’ dirittura [in direzione] della strada de’ Fossi, e vidi giunger il mentovato generale [Lemoine], due aiutanti, e cinque soldati, tutti cavalcando cavalle grassissime e grandi; ed avendomi tratto il berrettino, tutti gli otto mi corrisposero col cappello, dal che presi alquanta lena.

Essi si condussero nell’episcopio, non volendo star nel palazzo ducale, dove furono istradati.
Sortii, curioso, di casa, ed andiedi [andai] al Mercato [in piazza Mercato], dove, appena giunto, sentii toccar il tamburo, credendo- com’era-, che veniva la truppa; ritornai, e mi postai alla foce [apertura in genere, da cui si possa entrare o uscire] del Mercato, e tosto cominciò a passar la soldatesca, in fila, a quattro a’ quattro, onde ebbi l’agio di numerar che gente entrava;
e terminato che fu il passaggio, trovai che non erano più di 270, oltre all’ufficialità [gli ufficiali], ché in tutto completavano il numero di 305, oltre a 50 dragoni, che erano tutti polacchi, ma con uffiziali francesi.

a cura di Armando Pepe

fonte

http://www.storiadellacampania.it/il-saccheggio-di-piedimonte-nel-1799#toc1

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