Il sanfedismo e la controrivoluzione napoletana
La rivoluzione irruppe in Italia nel 1796, quando le armate guidate dal giovane generale corso Napoleone Bonaparte varcarono il confine con il Piemonte e di lì dilagarono nella pianura padana. Non vi è nulla di spirituale nella discesa francese, nonostante il roboante proclama che annunciò la liberazione dei popoli italici dal giogo della tirannia.
L’invasione dell’Italia altro non fu che un diversivo militare, messo a punto dal direttorio e dal suo più importante esponente di allora, Barras: l’intento era quello di impegnare le truppe austriache in Italia, così da consentire all’armata del Reno di lanciare l’offensiva, senza dover temere che le truppe austriache stanziate in Italia si spostassero a nord. La strategia funzionò, ma ciò che nessuno poté prevedere, fu la capacità bellica di quel giovane generale, che da mero diversivo trasformò la campagna d’Italia in un successo molto più vistoso della stessa offensiva sul Reno. L’arrivo dei francesi fu accolto in Italia con grande e fervente pathos da intellettuali, impregnati di cultura illuministica e cresciuti nel mito della rivoluzione del 1789, ma con totale disinteresse da parte delle masse popolari. Tuttavia, molti intellettuali rimasero delusi dallo stesso Bonaparte per la cessione del Veneto all’Austria con il trattato di Campoformio: un colpo di penna tradì i loro sogni rivoluzionari e, quindi, intuirono quanto poco di rivoluzionario vi fosse in quella “esportazione della rivoluzione”.
Quando nel 1799 l’esercito Napoletano, sotto la guida del Generale von Mach, si lanciò alla conquista della Repubblica Romana per liberare la città dalle forze franco-giacobine e riconsegnare al papa il suo trono, nessuno – visti i successi iniziali e l’occupazione della Caput Mundi – poté immaginare che, dopo la sconfitta nella Battaglia di Civita Castellana, a Napoli – dove il germe giacobino serpeggiava da tempo – si stesse preparando il colpo di mano. L’entrata delle truppe francesi a Napoli fu segnata da uno degli atti più feroci, la strage dei lazzari: il popolo Napoletano si sollevò contro l’ingresso francese e preparò una resistenza, ma i giacobini, approfittando della ritirata dell’esercito napoletano, occuparono Castel Sant’Elmo ed aprirono il fuoco sui Napoletani asserragliati sulle barricate. La Repubblica Partenopea si costituì nel sangue, legando così il suo destino ad una tragica e altrettanto sanguinosa fine.
A volte, però, le utopie rivoluzionarie si scontrano con la realtà: la volontà di imporre un modus vivendi nuovo alle masse popolari finisce sempre con il generare odio e risentimento. In tutto il regno iniziarono a sorgere sollevazioni popolari e atti di insofferenza verso gli occupanti. L’uomo della provvidenza – come spesso accade nella storia – è il Cardinale Fabrizio Ruffo di Bagnara, il quale ottenuto il placet da re, sbarcò nella sua Calabria, focolaio della ribellione, e radunò un esercito con il suo celebre proclama, che richiamò tutti i fedeli sudditi a ricacciare gli invasori. A Pizzo Calabro all’arrivo del Cardinale si erano già radunati circa 20,000 uomini: quella che entrerà nella leggenda come “armata sanfedista”, è un esercito composto da un insieme eterogeneo di uomini, dagli aristocratici ai ricercati graziati, dai prelati ai contadini, dai veterani dell’esercito regio. Un armata di Popolo che si scagliò con tutta la sua forza sulle fragili membra di una repubblica debole ed invisa al popolo, non compresa, distante e soprattutto “sorella” di quella repubblica francese, più conquistatrice che liberatrice. L’avanzata dell’armata “Cristiana e Reale”, sotto l’insegna della Croce costantiniana e il motto “In Hoc Signo Vinces”, fu inarrestabile: il 13 giugno 1799 Napoli fu liberata, e la Repubblica Partenopea, defunta, fu l’unica delle repubbliche ad essere sorta spontaneamente, cadde sotto i colpi di una controrivoluzione, frettolosamente giudicata dai posteri come “reazionaria”, che però riuscì ad essere un esercito di popolo in grado di annoverare fra i suo ranghi tutta la società napoletana senza distinzione di classe. Quella che fu una Vandea vittoriosa, e spesso liquidata frettolosamente per ragioni di narrazione risorgimentale, rappresentò il primo atto di lotta “italiana” contro un invasore straniero. Il germe gettato da quell’esercito impensabile, anche quando si dissolverà, rimarrà per tutto il decennio francese, l’incubo degli occupanti, e il sogno fulgido delle generazioni di legittimisti napoletani, che lotteranno contro le armate napoleoniche fino a quando il sole non tramontò definitivamente su quel giovane generale corso, divenuto poi imperatore.
Il Sanfedismo fu, pertanto, un fenomeno di popolo, autentico e spontaneo che riuscì a condensare al suo interno lo spirito di un popolo, delle sue tradizioni, restie a cedere il passo ad una sostituzione di valori – come se fosse un asportazione chirurgica – per applicare una rivoluzione che finì per essere una farsa, ben lontana da quell’immane tragedia d’oltralpe.
fonte
https://loccidentale.it/il-sanfedismo-e-la-controrivoluzione-napoletana/