Il sonno nella culla al suono di antiche voci di Alfredo Saccoccio
La storia delle ninne nanne entra, a buon diritto, in quella della nostra poesia.
La gente del basso Lazio,spesso indicata come il prototipo di una popolazione taciturna, si è rivelata, invece, spensierata, profondamente poetica.
E’ stato ancora possibile ascoltare dalla viva voce di qualche anziano contadino le strofe di certi “stornelli iche ci hanno dato la misura dell’arguzia e della genialità poetica di questa gente, dallo spirito satireggiante.Essi sono, quasi sempre, autentici pezzi di bravura, che non hanno perduto, nella trascrizione dei testti, la genuinità e la freschezza. Decine di stornelli, ora amorosi, ora mordaci ed anche melanconici e romantici, costituiscono quell’inesauribile repertorio cantato su motivi notissimi e comuni ad alnuni comuni del Lazio meridionale.
Un canto popolare itrano, per la sua genuinità e principalmente per la sua poesia, riproFattelapone una vecchia ninna nanna :”Fatte la ninna, fattela a gliu lietto”::
Da alcunene canzoni popolari, riportiamo le sestine. La prima : “ Eccote bella mia, mò so’ menuta, // gli
gran suspiri toi m’hannu chiamatu, // sarìa menuta cchiu primu e nun ho potutu, // so’ statu co’ catene ‘ncatenatu, // si nun me criri a me ca n’aggiu potuto, // guarda gliu visu miu quant’è mancatu. “ La seconda : “Che va fu, // ca dacchè tuornu nun ci sta nisciuna quaglia, // pigliàtegliu e purtategliu ‘n castegliu, // purtategliu a mangià’ fieno e paglia, // s’è messa la cioffa a gliu cappieglio, // a Pasca Befanìa se sbaraglia”. ( Cioffa, penna; se sbaraglia, si sposa). La terza “Dentu ‘sta chiazza ce sta ‘na lattuchella, // nisciun ca la tocca ca è la mia, // iì l’aggiuu amata che era peccerella, // ancora nun camminava pe’ la via, // mò che s’è fatta grossa e grandicella, // ognuno la desira e la vurrìa.” (chiazza, piazza). La quarta :” Caru amour miu che vai afflittu, // sembrate ave’ lu piantu agli occhi, // qualche cosa mammeta t’ha ditto, //li toi parenti t’hannu datu tuorto, // ‘n tante vote che te vedo afflittu, //te pigliu pe’ la mano e me te porto.”
Prendete questi versi e sottoponeteli ad un esperto di letteratura, Vi dirà subto che si tratta di composizioni antiche, che in esse c’è del manierismo. Magari un trecentista vi troverà l’antenata di un paio dilaude medioevalie o . Nessuno, però, può negare che ci si trova nel filone classico della poesia italiana. Questi versi altro non sono che un canto anonimo raccolto dalla voce di un contadino da cultori locali. Di serenate le giovanissime non sono aduse alle espressioni amorose e ignorano, poverine, le vertigini che può dare l’omaggio musicale personalizzato.
Chi scrive può attestare tale affermazione, non tanto per diretta esperienza, ma per memoria storica Sappiamo che la notturna canzone spesso scioglieva i cuori di riottose contadinotte appostate sul verone, ma, ancora più spesso faceva montare il sangue ai di loro sempre numerosi e robusti fratelli e padri, così il concerto in strada veniva continuato a suon di botte. Da queste parti se ne ricordano ancora di spettacoli del genere, ad opera di contadini che devono alla giovanile pensata il concretarsi del proprio sogno d’amore, che utlilizzano anche ex cantori di ingaggio, demandati dal’annamorato, rimastosene a letto, a ricevere sospiri e pugni, il contenuto di qualche recipiente e persino una fucilata.
A parte , però, questi problemi, ai quali tanti studiosi continueranno ad appassionarsi, resta la suggestione di questi canti,, la loro freschezza e la lo o poesia. Purtroppo le mutate situazioni etnologiche stanno disperdendo il più genuino patrimonio canoro delle nostre regioni : di molti canti restano ancora i testi e le musiche, ma ad essi mancherà,forse per sempre, l’atmosfera che li fa più belli. Oggin sarebbe ancora possibile, in qualche caso, ritrovare questa atmosfera, ma occorrerebbe giretr l’Italia in lungo e in largo, recandosi nel paest sperduti della Lucania,, della Calabria, della Sicilia e nelle altre regioni, per spiare e cogliere il momento in cui i canti nascono più spontanei sino a trasformarsi in espressioni di vita spirituale Occorrerebbe cioè girare, per settimane intere, la Liguria, alla ricerca di in autentico “ttallalero” o nel Friuli per ascoltare una originale “villotta” o la Puglia,alla ricereca delle canzoni della vendemmis e della mietitura. Ohn rregopne, addirittura ogni paese dell’Italia ha un suo repertorio colorito, vivace, talvolta drammatico, il cui senso è necessario cogliere nel suo ambiente naturale.
Certo non è facile poter fare tutto questo : non poche, infatti, sono ststate le difficoltà incontrate da due famosi etnomusicologi, un italiano ed un amweicano, i quali hanno percorso tutte le regioni d’Italia raccogliendo una documentazione qusi completa sulle nostre canzoni popolari. I due etnomusicologi, Diego Carpitella, del centro nazionale di studi di nmusuca oioilare dell’Accademia di S. Cecilia e lella Radio Telelevisione Italiana, e di Alan Lomax, uno dei più noti folcloristi americani, hanno curato la registrazione di più di tremila nanzoni , effettuandola, ogni volta, nel loro ambiente naturale. Al termine del loro viaggio, durato dei mesi, essi hanno selezionato il materiale raccolto ed hanno curato la pubblicazione di una antologia canora, che comprende ben settantasei pezzi tra canti e musiche.
Questa antologia musicale si compone di due dischi microsolco inciusi dalla “Word Library of Fplk and primitive music-Columbia Masterawirks” ed è la prima antologia di questo genere. I m due albums sono stati presentati ad un pubblico di appassionati nel Museo delle tradizini popolari dellEUR, ed hanno riscosso un nsuccesso quanto mai lusinghiero, che sta a testimoniare come da noi si abbia ancora intatto il senso delle nostre tradizioni più vere e significative.
Le canzoni corali marinare durante la pisca del tonno, in Sicilia; i canti del zolfatari, dei carrettieri, dei salinari siciliani; i racconti dei cantastorie; i magnifici balli dei pastori della Barbagia, in Sardegna;i “vatoccu” dell’Umbria; le lamentazioni funebri della Lucania; i canti della comunità albanesi e slave del Molise e della Calabria; le tarantelle, i balli dei contadini della Campania;i “maggi” dell’Emilia e
Della Toscana; gli stornelli; le ninne nanne; le nenie di Natale, al suono della zampogna o delle ciaramelle fanno di questa antologia una raccolta veramente preziosa e interessante.
Se osassimo scavare fino in fondo l’insieme di nozioni, emozioni e ricordi che costituiscono il nostro immaginario, personale e collettivo, tra i primi dati nella “tabula rasa” della mente e dell’anima troveremmo i ritornelli cantilenanti delle ninne nanne. Ben prima delle fiabe, di Cenerentola e Cappuccetto Rosso, la dolcezza, il tepore che emanava dalle filastrocche bislacche, unite al ritmico din-dalan della culla, si accompagna all’infanzia, torna naturalmente per propiziare il sonno deiu nostri figli v e nipoti.
Oggi sembra segno di ingenuità, passatismo, invitare le mamme a ninnare i bambini. Toccherebbe, comunque, imparare a memoria, perlomeno ripassare, parte del repertorio ricchissimo, fantastico che custodivano le nostre nonne. Per improbabili e rari maniaci, malati di nostalgie pericolosamente antimoderniste è uscito, a cura di Tito Saffioti un libro delizioso, dal titolo “Le ninne nanne”. Le nine nanne sono raccattate qua e là, per monti e piani, per riviere e colline, trascritte e tradotte dal dialetto, ritrovando, in molti casi, perfino la musica e gli spartiti.Tantissime ninne nanne sono andate perdute, estinte con le tante vecchine di paese, come gran parte della nostra più viva cultura popolare, affidata all’oralità. Una cultura tramandata di generazione in generazione e affidata dai primi vagiti ai neonati, che stabiliilssero i primi contatti con i suoni e la realtà proprio alle voci della madre, nonna, sorella, balia. E, più grandicelli, si accostassero alle parole nuove, a rime,, assonanze, alla preghiera, perché il sentimento religioso è una costante dell’intero panorama delle ninne nanne, e non solo italiane. Del resto ha legami con la religiosità l’antico rito dell’”incantamentum” con cui melodia e parole ipnonitizzavano l’ascoltatore. E lo avvicinavano al dio. Ninna e poi nanna, cioè sonno sonno, con la ripetizione di due voci dal valore fonosimbolico, che si ritrovano pressoché identiche nei diversi secoli e nei diversi Paesi : dal latino “nenia”, come l’arabo “nanni”, tunisino, o come “ninna”, egiziano, che significano dormire, il greco “nanoìzo”, lo spagnolo “nana”, l’indiano “navna”.
Non aspettatevi storie ed immagini per forza tenere e liete, stereotipati e commoventi quadretti di calore domestico, manifestazioni di dedizione e affetto. E’ un condizionamento romantico la ricerca, a tutti i costi, nel popolare, nel semplice, di poesia e ispirazione Nelle nonne nanne, oltre alla fantasia, alla voglia di scherzare, passava anche tutta la stanchezza, la fatica delle donne, capaci al più di abbozzare sconclusionati accostamenti di suoni : o la recriminazione, lo sfogo per le difficili condizioni dell’esistenza in una sola società per lo più contadinaa. E povera. Erano spesso dolorose, tristi, vere lamentazioni, che si espriumrvano ancor di più conm l’oscillazione ritmica del busto: il bambino innocente, discreto, ignaro, era un ascoltatore attento e partecipe delle preoccupazioni materne. La bellezza, la grazia sono stare state rese dalla rielaborazione letteraria di queste umili cantilene del sonno: privilegiando, non a caso, la dimensione dolce, fatata, da Teocrito a Giovanni Pontano, da Alessandro Adimari a Pascoli, Carducci, D’Annunzio: la storia delle ninne nanne ha una sua appendice che entra, di buon diritto, nella storia della nostra poesia.
Alfredo Saccoccio