Il Toro Farnese: a Napoli la scultura antica più grande al mondo
Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli vanta una delle più importanti collezioni di sculture al mondo, molte delle quali appartenenti alla “collezione Farnese”: basti pensare all’Ercole Farnese, opera simbolica per tutta la storia dell’arte.
La collezione originariamente custodita nella villa della famiglia Farnese, appunto, a Roma venne portata a Napoli da Ferdinando IV di Borbone, che la ereditò da sua nonna Elisabetta, ultima discendente della famiglia capitolina.
Nonostante la simbolicità dell’Ercole, la vera perla della collezione è “Il Supplizio di Dirce”, meglio conosciuto come il “Toro Farnese”. Si tratta, infatti, della scultura antica più grande attualmente pervenutaci. L’opera venne realizzata con un unico blocco di marmo: impressionante se consideriamo che pesa 24 tonnellate, è alta quasi quattro metri e la sua base è di 9 metri quadrati; incredibile se notiamo il realismo con cui è stato scolpito l’animale ed il dramma degli umani rappresentati.
Parlando del dramma, spieghiamo cosa raffigura questa meraviglia. Il supplizio di Dirce ha le sue radici nella mitologia greca e, come tanti miti greci ha inizio con una scappatella di Zeus, padre degli dei. In questo caso il dio si accoppiò con la giovane Antiope, figlia di re Nitteo, che non gradì particolarmente la gravidanza che seguì il rapporto. Subito dopo il parto i due gemellini, Anfione e Zeto, vengono affidati ad un pastore, mentre la madre è costretta a fuggire, trovando ospitalità a Sicione, da re Epopeo.
La pace per Antigone dura poco: suo zio Lico, re di Tebe, invade Sicione, uccidendo Epopeo e prendendo la nipote come schiava. Per 20 anni la donna subisce le peggiori angherie da Lico e da sua moglie Dirce, invidiosa della sua bellezza. Un giorno, Zeus decise di intervenire per aiutare Antigone facendola fuggire. Braccata dalle guardie e dalla stessa Dirce la donna cercò rifugio sul monte Citerone, dove incontrò due giovani che si offrirono di aiutarla.
Come sempre nei miti greci, il destino entrò in gioco: i due giovani erano Anfione e Zeto che, dopo aver scoperto la verità sul loro conto, si erano messi in marcia per salvare la madre. Così, quando, Dirce arrivò per punire l’odiata Antigone i due gemelli reagirono e punirono la carceriera della madre facendole scontare tutti i soprusi in un colpo solo: la donna venne legata viva ad un toro imbizzarrito fino a quando i movimenti e la furia dell’enorme animale non le fecero esalare l’ultimo respiro.
Il “Toro Farnese” rappresenta il momento esatto in cui Dirce viene legata al toro, la paura nei suoi occhi, le sue suppliche per aver salva la vita, i muscoli dei due giovani tesi per stringere le funi, lo sguardo di Antigone, in piedi dietro all’orrore e, soprattutto, la perfetta fisionomia della creatura che sembra quasi volersi muovere nel marmo.
Non sappiamo precisamente quando venne realizzata la scultura e da chi. La fonte più attendibile sull’argomento è Plinio il Vecchio che in “Naturalis Historia” scriveva che la statua prese forma intorno al II sec. a.C. a Rodi dalle mani dei fratelli Apollonio e Taurisco di Tralle. Venne poi trasferita a Roma per arricchire la vastissima collezione di Asinio Pollione, politico e letterato molto famoso in età cesariana. Altre fonti smentiscono questa versione adducendo che Plinio parlasse di un’altra opera e datano il nostro “Toro” intorno al III sec. d.C..
In ogni caso, la scultura venne ritrovata nelle Terme di Caracalla, a Roma, nel 1545. Papa Paolo III ordinò di bonificare gli antichi bagni romani e portare tutte le statue ritrovate al loro interno nella Villa Farnese, al tempo di sua proprietà. La statua, infatti, rimase lì fino al suo trasferimento a Napoli.
Uno studio, pubblicato su Repubblica il 6 ottobre 2009, ha dimostrato che la scultura, in realtà, avrebbe potuto essere una fontana. Già poco dopo il suo recupero Michelangelo Buonarroti presentò un progetto per utilizzarla come fontana in Campo dei Fiori, proprio fuori Villa Farnese, ma il progetto non andò mai in porto. Eppure, il genio rinascimentale ci aveva visto giusto: il marmo della scultura, infatti, sarebbe scavato all’interno da vari condotti e bacini che sarebbero serviti a far defluire e fuoriuscire l’acqua.
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