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Il vero volto della Rivoluzione nel diario del cameriere del Re

Posted by on Ago 11, 2024

Il vero volto della Rivoluzione nel diario del cameriere del Re

«Io ho servito per cinque mesi il Re e la sua Augusta Famiglia nella Torre del Tempio; e, malgrado la vigilanza degli Officiali Municipali, che la guardavano, ho potuto stendere alcune memorie sui principali avvenimenti accaduti nell’interiore di quella prigione»: con queste parole ha inizio il Giornale di ciò che avvenne al Tempio durante la prigionia di Luigi XVI Re di Francia, scritto da Jean Baptiste Antoine Houet, detto Clery, nel 1798 a Londra. Houet fu il cameriere del Sovrano fra il 10 agosto 1792 e il 21 gennaio 1793, il solo dunque in grado di ragguagliare su quanto realmente accadde fra quelle tetre mura.

Houet nacque a Jardy vicino a Marnes nel 1759. Servì la Famiglia Reale già alle Tuileries sino all’assalto dei «congiurati» guidati da Luigi Filippo d’Orléans, il cugino del Re, lo stesso che architettò la presa della Bastiglia, nonché la precedente, impietosa campagna diffamatoria contro il Sovrano ed i suoi congiunti: in prima fila i «Marsigliesi» ovvero il battaglione di volontari giunto a Parigi da Marsiglia, intonando il Chant de guerre pour l’armée du Rhin, composto da Roget de L’Isle e divenuto poi l’inno nazionale francese, noto – proprio per questo – come La Marseillaise. A loro si erano uniti gli abitanti del sobborgo di S. Antonio.

Le forze armate all’interno delle Tuileries sarebbero state di per sé sufficienti per difendere la Famiglia Reale e per disperdere i facinorosi, ma non vi furono né coesione, né unità di comando: la Guardia Nazionale disertò e gli «Svizzeri», cui il Re diede ordine di non aprire il fuoco, vennero barbaramente massacrati. Houet scampò per miracolo all’assalto del castello, che si consumò durante l’assenza dei Sovrani, condotti di fronte all’Assemblea Nazionale.

Così Houet ricorda nel suo diario quegli istanti: «Io corsi da tutte le parti: gli appartamenti e le scale erano già coperti di morti. Io riuscii a saltare sullo sterrato da una finestra dell’appartamento della Regina». Poi si diede ad una fuga rocambolesca tra due fuochi, quello delle guardie e quello dei congiurati. Trovò rifugio in un’abitazione: il padron di casa, il signor Le Dreux, intuendo la situazione, lo tenne nascosto per circa sei ore: «Restai in quell’asilo dalle dieci della mattina sino alle quattro della sera, avendo sott’occhio lo spettacolo degli orrori che si commettevano sulla piazza Luigi XV. Alcuni assassinavano, altri tagliavano la testa de’ cadaveri; e varie donne, obliando ogni pudore, li mutilavano, ne stracciavano dei pezzi e li portavano in trionfo». Contemporaneamente, all’Assemblea il Re fu sospeso dalle sue funzioni e rinchiuso con la Regina ed i figli nel palazzo del Tempio. Tutto ciò, si legge, nonostante il popolo fosse sempre vicino al Sovrano: «L’opinion pubblica pareva sempre favorevole al Re».

Quando Houet li raggiunse, fu guardato con una certa diffidenza: entrò, infatti, per intercessione dell’avv. Péthion, personaggio di piccola nobiltà, Sindaco e poi Primo Console di Parigi, ma soprattutto – all’epoca – rivoluzionario di spicco. Péthion era un girondino, quindi era considerato un “moderato”, benché già noto ai Sovrani: fu, infatti, uno dei delegati che li ricondusse a Parigi dopo lo sfortunato tentativo di fuga conclusosi a Varennes. Che, tuttavia, Péthion fosse effettivamente un “moderato”, lo dimostra la sua tragica fine, che di lì a poco lo avrebbe atteso: arrestato, fuggì e si suicidò nelle foreste della Gironda. Il suo cadavere venne ritrovato alcuni giorni più tardi, divorato dai lupi. 

L’opera di Houet permette di evidenziare alcuni aspetti introvabili sui libri di Storia, benché significativi per comprendere la tragedia consumatasi al Tempio, una tragedia che avrebbe poi cambiato i destini dell’intero Occidente. Uno di questi consiste nell’evidente clima ideologico da cui fu dominato il periodo, come dimostra il tipo di sorveglianza cui fu sottoposta la Famiglia Reale, i cui alloggi dovettero spesso patire l’indiscreta presenza dei «Municipali», interessati alle letture fatte dai Sovrani o raccontate ai figli, decidendo quali testi potessero consultare e quali no. Non solo: per insegnare al Principino a far di conto, Houet aveva realizzato «una tavola di moltiplicazione, secondo gli ordini della Regina», allorché «uno sciocco Municipale» pensò che fosse un modo per parlarsi «in cifra; e convenne rinunziare alle lezioni di aritmetica». Lo stesso dicasi per i lavori preparati dalle Principesse in carcere: «I Municipali credettero che i disegni rappresentassero dei geroglifici, destinati a corrispondenze al di fuori e fecero venir un decreto che proibiva di lasciarli sortire dalla Torre».

Per non parlare degli oltraggi e delle offese, di cui la Famiglia Reale fu vittima: teste mozzate di nobili infilzate sulle picche e fatte danzare dinanzi alle finestre dei suoi alloggi, «epiteti ingiuriosi», sgarbi, insulti furono all’ordine del giorno. Il Sovrano fu costretto a consegnare tutte le proprie onorificenze ed a leggere i giornali solo quando contenessero «minacce atroci, calunnie infami». Sua Maestà non batté ciglio vedendo certi titoli, ma solo si limitò a considerare: «I Francesi sono ben disgraziati da lasciarsi così ingannare».

Lo stesso Houet fu sottoposto a processo da un tribunale rivoluzionario, ma miracolosamente riuscì ad uscirne indenne. Tanto da spingerlo a concludere: «A quest’epoca il carattere della maggior parte de’ Municipali, ch’erano scelti per venire al Tempio, indicava di quale specie d’uomini erasi fatto uso per la rivoluzione e per le stragi».

L’abolizione della dignità regale e la proclamazione della repubblica in Francia segnarono una svolta verso il peggio. Pochi giorni dopo, infatti, i rivoluzionari separarono il Re dalla sua famiglia, trasferendolo nella gran Torre, «una separazione – scrisse Houet – che annunziava mille altre sciagure». Qualsiasi, ulteriore contatto tra il Sovrano e la consorte coi figli fu impedito. Fu poi, senza alcun preavviso, la volta della Regina, cui venne strappato il figlio, il Delfino. Il suo dolore di madre – commenta Houet – «fu estremo».

Le gravi traversie, di cui la Famiglia Reale fu resa bersaglio, tuttavia, forgiarono e non piegarono la sua fede, rivelatasi di esempio per quanti ebbero la fortuna di poterla ammirare: «Il Re, dopo d’essersi levato – si legge nel diario – recitava l’officio de’ Cavalieri di Santo Spirito: e, siccome si era negato di lasciar dire la Messa nel Tempio anche ne’ giorni festivi, egli mi ordinò di comprargli un breviario all’uso della Diocesi di Parigi. Questo Monarca era veramente religioso – commenta Houet con ammirazione – ma la sua religione pura e illuminata non lo aveva mai distolto dagli altri suoi doveri». Ed ancora: «La Regina, avendo bramato dei libri di pietà simili a quelli del Re, Sua Maestà mi ordinò di farli comprare».  

Quando il Re fu condotto dinanzi alla Convenzione Nazionale, apprese della decisione di separarlo definitivamente dalla sua famiglia. Informatane la Regina, questa confidò di non nutrire alcuna illusione circa la sorte del coniuge: «Egli morrà vittima della sua bontà e del suo amore pel suo popolo, per la cui felicità non ha mai cessato d’affaticarsi sino dal suo innalzamento al Trono. Quanto è crudelmente ingannato cotesto popolo! La religione del Re e la sua grande fiducia nella Provvidenza lo sosterranno in questa crudele avversità», affermò. Nulla parve turbarli, confidando essi in Dio ed esercitando così quella carità e quella misericordia proprie del buon cristiano anche nei tempi avversi: il Sovrano, «quantunque certo del suo destino – si legge – non si sentiva mai né lagnarsi, né mormorare. Egli aveva già perdonato ai suoi oppressori».

Esemplare e commovente anche il suo testamento, scritto il giorno di Natale del 1792. Vi si legge: «In nome della Santissima Trinità, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Io Luigi XVI di nome, Re di Francia, (…) lascio la mia anima a DIO, mio Creatore; io Lo prego di riceverla nella Sua misericordia, di non giudicarla secondo i di lei meriti, ma secondo quelli di Nostro Signore Gesù Cristo (…). Muoio nell’unione di nostra Santa Madre Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana (…). Compiango di tutto cuore i nostri fratelli, che possono essere in errore; ma io non pretendo di giudicarli e li amo tutti egualmente in Gesù Cristo, secondo quello che c’insegna la carità. Prego DIO di perdonare tutti i miei peccati (…). Non potendo io servirmi del ministero d’un Sacerdote Cattolico, prego DIO a ricevere la confessione, che gliene ho fatta, e sopra tutto il pentimento profondo (…). Prego tutti quelli, che potessi aver offesi per inavvertenza (…), o quelli, a cui potessi aver dato cattivi esempi o scandali, a perdonarmi il male ch’essi credono ch’io possa loro aver fatto. (…) Perdono di tutto cuore a quelli che si son fatti miei nemici, senza che io ne abbia dato loro alcun motivo; e prego DIO a perdonar loro (…). Raccomando a DIO mia moglie, i miei figli, mia sorella, le mie zie, i miei fratelli e tutti quelli che mi sono attaccati per legame di sangue o per qualunque siasi altra maniera. (…) Raccomando a mia moglie i miei figli: (…) Le raccomando principalmente di farne dei buoni Cristiani e degli uomini onesti, di non far loro riguardare le grandezze di questo mondo (…) che come beni pericolosi e transitori e di rivolgere i loro sguardi verso la sola gloria solida e durevole dell’Eternità. (…) Prego mia moglie di perdonarmi i mali che soffre per me e i dispiaceri che io potessi averle dati nel corso della nostra unione. Ella può esser sicura, che io non ho niente contro di Lei, sebben credesse d’aver qualche cosa a rimproverarsi. (…) Raccomando a mio figlio, se mai avesse la sventura di esser Re, di pensare, ch’egli deve darsi tutto alla felicità de’ suoi concittadini; che deve dimenticare ogni odio e risentimento ed in ispecie ciò che ha relazione alle disgrazie e agli affanni ch’io provo; che non può fare la felicità de’ popoli, che regnando secondo le leggi (…). Io perdono ben volentieri anche a quelli, che mi facevano la guardia, i cattivi trattamenti e le pene ch’essi han creduto dovermi far soffrire. Ho io però trovate alcune anime sensibili e compassionevoli. Piaccia al Cielo di far loro godere quella tranquillità che meritano (…) Luigi».

Compresa qual sorte si stesse predisponendo per il Re, molti – anche Commissari e Municipali – gli chiesero oggetti di sua proprietà: chi la cravatta, chi i guanti,… «Anche alla vista di molte delle sue guardie le sue spoglie erano già sacre», ha appuntato Houet nel suo diario.

Il 17 gennaio 1793 l’avvocato del Sovrano, il Signore di Malesherbes, diede la terribile notizia: era stata pronunciata la condanna a morte di Luigi XVI, sia pur in forza di una maggioranza risicata. A decretarla furono solo cinque voti in più. Del resto, «alla porta dell’Assemblea vari assassini, consacrati al Duca d’Orleans e alla Deportazione di Parigi, spaventavano colle lor grida e minacciavano di pugnalare chiunque ricusasse di dar il voto di morte»: ciò aiuta a capire in quale clima e sotto quali pressioni fu formulata una sentenza, strappata con vergognose minacce e crudeli ricatti. Il Re, accusato di «cospirazione contro la libertà della Nazione e di attentato contro la sicurezza generale dello Stato», non «fece alcun movimento che annunziasse sorpresa o agitazione». Per considerare poi amaramente: «Io non cerco alcuna speranza, ma sono molto afflitto che il Duca d’Orleans, mio parente, abbia votato per la mia morte». E poi, ancora: «Io non temo la morte, ma non posso pensare senza fremere alla sorte crudele ch’io lascio alla mia famiglia» ed al popolo, «dato in preda all’anarchia» e destinato a«diventar la vittima di tutte le fazioni; i delitti succedersi l’un l’altro e lunghe discordie lacerare la Francia».

Notificatogli il verdetto, Luigi XVI ebbe a dire: «Mi s’imputano dei delitti; ma io ne sono innocente; e morrò senza paura. Io vorrei che la mia morte facesse la felicità de’ Francesi e potesse allontanare le disgrazie, che prevedo». Soltanto a questo punto gli fu permesso di vedere un sacerdote e di incontrare finalmente la sua famiglia, momento a dir poco straziante.

21 gennaio 1793, «i tamburi e le trombe annunziarono che Sua Maestà aveva abbandonato la Torre… Un’ora dopo si sentirono le salve dell’artiglieria e le grida di viva la Nazione, viva la Repubblica… Il migliore dei Re non era più». Con queste parole si conclude il diario di Houet. Diario, che ha un merito, quello di mostrare ciò di cui i libri di Storia non parlano, né lo potrebbero. Subito dopo la Francia conobbe il periodo detto – non a caso – del «Terrore». Le più tristi, ma realistiche previsioni di Luigi XVI, purtroppo, si avverarono.

Alla morte del Re, Houet fu incarcerato, perché sospettato di aver favorito corrispondenza clandestina per conto del Sovrano. Ma fu anche rapidamente assolto: rimase prigioniero, infatti, solo sino al 9 Termidoro ovvero sino al 27 luglio 1794. Quando poté uscire dalla Francia, un anno dopo, si recò in Germania prima ed in Inghilterra poi. Nel 1798, a Londra, pubblicò il Giornale di ciò che avvenne al Tempio durante la prigionia di Luigi XVI Re di Francia. L’opera riscosse un incredibile successo e giovò molto alla causa realista. Lui non ce la fece però a veder tornare sul trono il legittimo pretendente: morì cinque anni prima, nel 1809, nei pressi di Vienna. 

Mauro Faverzani

fonte

Il vero volto della Rivoluzione nel diario del cameriere del Re – di Mauro Faverzani | Corrispondenza romana

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