Alta Terra di Lavoro

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La Dea Ragione contro la Vergine Maria di Alfredo Saccoccio

Posted by on Dic 11, 2020

La Dea Ragione contro la Vergine Maria di Alfredo Saccoccio

La Rivoluzione per poco non fu fatale alla Nostra Signora, divenuta simbolo di oscurantismo religioso e vestigio troppo fiammeggiante dell’Antico Regime. Incoraggiati dalla legge (messa a disposizione della nazione beni del clero, Costituzione civile), eccitati dall’anticleralismo eccessivo di certi rivoluzionari (hebertisti in particolare), vandali e predoni di ogni risma si divertirono un mondo.

    Ci si attaccò innanzitutto all’esterno: decapitazione dei re di Giuda, distruzione delle statue poste nelle illuminazioni dei portali, eccetera. La guglia sormontante la crociera del transetto fu abbattuta come “contraria all’uguaglianza”.

   Poi fu la volta del’interno della cattedrale.  Dal 1789, la navata serviva da deposito di vino  degli eserciti della Repubblica e, dal 1790, nessuna messa  vi era celebrata. Gli oggetti di culto, essendo stati dichiarati inutili, tutto quello che conteneva metallo fu inviato alla Moneta per essere fuso  e riciclato per cannoni, per armi, per munizioni: le campane nel 1791, il piombo dei feretri dei vescovi nel 1792, eccetera…. Gli oggetti d’arte furono venduti per finanziare le guerre della Rivoluzione…o per arricchire i suoi capi più cinici .Fortunatamente, sin dal 1790, il pittore Alexandre Lenoir  riuscì a mettere, al riparo dei furiosi, parecchi capolavori : statue, tappezzerie, oreficerie.

   La demolizione della cattedrale fu anche contemplata, ma la Convenzione decise alla fine di consacrare Notre-Dame al culto della dea Ragione. Una festa della Ragione “contro la schiavitù del fanatismo” fu isituita e la prima cerimonia ebbe luogo a Notre-Dame il 20 Brumaio, Anno II /10 novembre 1793). Al posto dell’altare, con gli scenari dei balletti dell’Opéra, si costruì un tempio antico dedicato alla filosofia. Alla soglia di questo tempio, una statua della Libertà, ma, soprattutto, un trono su cui sedeva la dea Ragione, incarnata da una certa signorina Aubry, danzatrice all’Opéra. Ella era vestita di una veste bianca, di un mantello azzurro e del berretto frigio. Ciascuna delle sue apparizioni era preceduta dall’ “Himne à la liberté”, un testo del deputato alla Convenzione Marie-Joseph-Blaise Chénier (il fratello del poeta André-Marie Chénier, giustiziato il 7 termidoro 1794), messo in musica da Gossec e cantato da un coro di ragazze in tenuta immacolata:

      “ Discendi, o Libertà, figlia della Natura.

      Il popolo ha riconquistato il suo potere immortale…

     Sui pomposi resti dell’antica impostura

     Le sue mani  rialzano il tuo altare!”

   Occorse attendere la Pasqua del 1802 perché il campanone di Notre-Dame risonasse di nuovo in Parigi e che  si restituisse la cattedrale al culto. Grazie al Concordato firmato dal pontefice Pio VII e da un ex generaìe rivoluzionario, divenuto Primo console (in attesa di meglio) : Napoleone Bonaparte…

                                 I nuovi barbari

   Il 12 aprile 1982, mentre parecchie centinaia di turisti  visitavano la cattedrale, è scoppiato un incendio  sotto una bacheca di riviste, all’entrata sud di Notre-Dame. A meno di cinque metri dal fuoco, c’era più di una tonnellata di ceri in deposito. Di che provocare un inizio di incendio. Fortunatamente, il fuoco fu circoscritto rapidamente. Non era un semplice incidente ma un gesto criminale: parecchi testimoni avevano visto due giovanotti fuggire precipitosamente, dopo l’inizio dell’incendio. Più recentemente, nell’ottobre del 1998, un vandalo ha approfittato delle impalcature della facciata occidentale (poste in vista del restauro) per arrivare alle statue del portale Sant’Anna, a sei metri dal suolo. Egli ha mutilato cinque statue e ha decapitato la sesta, una scultura del Duecento.

Alfredo Saccoccio

 (47 righe)            

                            Ripensare la Rivoluzione francese

   Con il suo nuovo saggio, dal titolo “La Révolution une exception française?”,edito da Flammarion, Annie Jourdan ci fa discendere dal nostro piedistallo. No, la Rivoluzione francese non è unica. Essa prende posto in un insieme di sconvolgimenti politici e sociali, che, dalla parte e dall’altra dell’Atlantico, tra il 1770 e il 1799, agiscono e reagiscono gli uni in rapporto con gli altri, a rischio di disorientare lo storico. Poggiandosi su una storiografia poco praticata, anglosassone, ma anche olandese e tedesca, la storica, che aveva, nel 1998, smontato le messinscene napoleoniche (“Napoleone. Eroe, imperatore, mecenate”), firma sul fatto rivoluzionario  un libro magistrale e paradossale, tutto insieme relativista ed appassionato.

   In tre decenni, uomini di culture e di tradizioni diverse, vivendo in ordini politici differenti, hanno forzato le porte della democrazia. Questi uomini da rivoluzione (americani, olandesi, francesi, italiani e svizzeri infine) adottano le stesse preferenze repubblicane : partecipazione politica, virtù civica, patriottismo, sovranità popolare. Essi immaginano riti e forme di organizzazione identici : comitati locali e di corrispondenza, assemblee elette, clubs patriottici, stampa politica, petizioni, manifestazioni, ossessione del giuramento e moltiplicazione delle feste allegoriche. Da una parte e dall’altra dell’Atlantico, scrivono costituzioni fondate sulla volontà popolare e sulla rappresentazione. A differenza dell’asburgo Giuseppe II o del polacco Stanislav Poniatowski, che tentano di imporre le loro riforme dall’alto, le dinamiche americane, olandesi e francesi sono di natura rivoluzionaria, perché  ne oltrepassano gli scopi inizialmente fissati (una più grande autonomia delle colonie inglesi, la riforma fiscale in Francia). Esse sostituiscono un ordine ad un altro.

                                          Il peso delle resistenze

   In che, allora, imboccano esse vie differenti ? Ciò dipende essenzialmente dal terreno sul quale esse si iscrivono. Nei Paesi a dominazione protestante, come in Inghilterra nel 1688, il consenso, il compromesso e il contratto la vincono sulla legge. In Francia, al contrario, il peso del cattolicesimo, il centralismo monarchico, una cultura dell’esclusione e della forza hanno condotto i rivoluzionari a fare della legge il palladio del popolo, l’ncarnazione assoluta dello Stato.  Da una parte il pluralismo, delle strutture decentralizzate e federative, dall’altra l’unità e l’indivisibilità.

   Queste differenze trascinano maniere di fare la rivoluzione, che singolarizzano i modelli anglosassoni e francesi. Anche se i rivoluzionari americani ed olandesi hanno avuto i loro immigrati (I lealisti fedeli all’Inghilterra, agli Stati Uniti, i patrioti opposti allo Stadhouder in Olanda), le resistenze sono state molto più forti, le reazioni più violente in Francia, perché i controrivoluzionari si appellavano ad un potere forte, personalizzato e sacralizzato, percepito come il solo legittimo. Anche se ci sarebbe senza dubbio da dire sul deterioramento, in Francia, della coscienza del diritto divino nel Settecento, il peso di queste resistenze fa della Rivoluzione francese un caso particolare.

   In una prima parte, Annie Jourdan descrive tutto il processo rivoluzionario come lo sviluppo quasi meccanico di una serie di contraddizioni e di vicoli ciechi senza tregua superati dalle passioni e dalle lotte di potere. Però l’eccezione non è ancora lì. Essa non è, non più, in un universalismo alla francese che spiegano, sole, la posizione del regno in Europa e la crociata militare di largo respiro degli eserciti rivoluzionari contro i “tiranni”. Gli americani  anche pensavano la loro dichiarazione dei diritti dell’uomo e la loro Costituzione come universali. L’isolamento delle colonie inglesi e la minima risonanza della loro rivoluzione non fanno che uno.

   No, l’eccezione francese risiede in questo “enigma del Terrore”, che imbarazza Annie Jourdan e che lei tenta di capire con tanta più convinzione in quanto la Rivoluzione non è, ai suoi occhi, che una e non plurale. Per Terrore,l’autrice intende il “grande Terrore” robespierrista, da  febbraio a luglio 1794, che sopravviene allora anche quando la Repubblica si fa valere dappertutto, tanto all’interno che all’esterno. Raffrontando due dati rivoluzionari (quello che si ritrova dappertutto, di rigenerazione delle leggi e dei costumi, e quello, specificamente francese, di indivisibilità repubblicana), Annie Jourdan avanza una spiegazione seducente. E’ la combinazione di queste due “virtù” che costringe gli uomini dell’Anno II a pesare le opposizioni come tradimenti e li conduce a separare il buon grano dal loglio, distinguendo i buoni, da educare, i cattivi ed altri sospetti, da eliminare. Ella ne abbozza il termine. Questa eccezione del Terrore è anche quella di un Paese tagliato in due.  Due discorsi si oppongono : quello di Robespierre, che consiglia di condurre “il popolo con la ragione” e “i nemici con il terrore” e quello degli ultrarealisti del 1815,che sostiene il riparo della provvidenza divina.

    Queste osservazioni non rendono conto dell’insieme del lavoro di Annie Jourdan, che rivaluta la singolarità dell’avvenimento. Il suo libro, copioso di idee, è un vero e proprio laboratorio. In un saggio famoso, François Furet invitava, sin dal 1978, a “pensare la Rivoluzione francese” nel tempo, attraverso la storiografia delle sue due tradizioni, liberale e sociale. Jourdan esplora le rivoluzioni  dalla fine dei Lumi nello spazio politico e culturale del loro tempo. Due mondi, l’antico e il nuovo, si illuminano  reciprocamente. In ciò, “La Révolution, une exception française ?” è un’opera importante, da leggere assolutamente, perché essa conterà nella storia del dibattito intellettuale sulla questione .come sono da leggere”Le Siècle de Louis XV” e “Histoire des Français” di Pierre Gaxotte, una meravigliosa reincarnazione di Voltaire, che, a trentatre anni, scompiglia allegramente Aulard e la Sorbona pubblicando il suo libello. “La Rivoluzione francese” (1928),straordinaria bomba a scoppio ritardato. Il segretario particolare di Charles Maurras consacrò i suoi primi lavori storici ad un riesame dell’Antico Regime e della Rivoluzione, allora caccia riservata degli storici repubblicani Alphonse Aulard (partigiano di Danton) e Albert Mathiez (fedele a Robespierre). Nel 1928 Pierre pubblicava, per le edizioni Fayard, il suo grande affresco sulla “Rivoluzione francese”, regolarmente  rieditata dopo  e rimessa in luce con la collaborazione di Jean Tulard per l’edizione del 1975.

   Rimettendo in causa l’deologia ufficiale della Rivoluzione elaborata sotto la Terza Repubblica, Pierre Gaxotte sottolineava l’opera compiuta dagli intendenti dell’Antico Regime, il decollo economico della fine del XVIII secolo, contrastante con la dimissione progressiva del potere reale e con l’azione corrosiva dei filosofi e del sottoproletariato intellettuale, distruttrice dell’aura monarchica.

   Con “Le Siècle de Louis XV”, pubblicato nel 1933, lo storico lorenese proseguiva la sua opera di riabilitazione dell’Antico Regime, in maniera più convincente. Nella persona di Luigi XV, monarca denigrato da Michelet e dalla storiografia repubblicana, in seguito alla reputazione forgiata  dai suoi avversari, filosofi, parlamentari e seguaci dei gesuiti, il Gaxotte rivelava non solo il protettore delle arti, il promotore  dello sviluppo della civiltà francese, ma anche l’avversario lucido dei privilegi indebiti e delle resistenze particolari, che la pusillanimità e la carenza politica di Luigi XVI dovevano restaurare, di conseguenza condurre alla Rivoluzione.   

   Poco avanti la Seconda Guerra mondiale, Pierre Gaxotte faceva apparire un “Federico II”, che metteva in rilievo il rischio che rappresentò sempre per la Francia il militarismo prussiano  e l’espansionismo germanico. Dopo la guerra, lo storico prolungò questi lavori con una “Storia della Germania”  ed una “Storia dei Francesi”. Nella prima, Pierre metteva in luce il conflitto tra le pulsioni irrazionali, l’ideologia della terra e del sangue. E le forze della ragione; nella seconda, egli dimostrava che i periodi di grandezza della Francia coincidevano con l’abbassamento delle feudalità e dei particolarismi….. Paradosso ironico : questo dispregiatore della filosofia dei Lumi incarnava alla perfezione alcune delle qualità o delle mancanze  di cui Voltaire fu il portabandiere : lo  scetticismo, l’ironia, l’indulgenza, il gusto dei ragionamenti ben costruiti e della chiarezza di stile.

  Refrattario allo spirito di sistema,  alle grandi teorie riduttrici, alle spiegazioni monoteiste – “E’ una grande follìa di voler spiegare tutto in storia con un principio unico” – Pierre Gaxotte metteva in guardia contro il pericolo della “ragione nella Storia”  e dei determinismi storici.

   La Storia, per lui, era un miscuglio di determinazioni e di contingenze, di necessità e di casi, la cui ragione d’essere e lo scopo ci restano per sempre estranei. Essa possiede un corso, non un senso. O piuttosto questo senso è determinato, ad ogni minuto, dagli avvenimenti che si sono prodotti o sono in procinto di prodursi. Contrariamente alla preminenza accordata alle masse come motori della storia, Pierre non teneva per trascurabile il ruolo dei grandi uomini, in cui si incarna talvolta l’anima di un popolo .Questi seccatori hanno una forza retroattiva : “Essi danno un nuovo senso a quello che li hanno preceduti. Quello che era prima di essi diviene quello che doveva generarli.”

   Di fronte all’invasione di Clio con le serie e le statistiche, egli non tratteneva un sorriso garbato. I mezzi, sempre molto consolanti, diceva Pierre,  danno agli storici il senso che sono uomini di scienza. Non è proibito servirsene, a condizione di maneggiarli con prudenza,  poiché “la vita reale non è fatta che di casi particolari” e

 “la media è una costruzione dello spirito. Per ogni individuo essa è una menzogna”.

   Per natura come per esperienza, Pierre Gaxotte manifestava un’estrema sfiducia riguardo ad un certo storicismo  e all’uso abusivo che si può fare della storia : “Non  può farsi, scriveva egli, una reputazione di pensatore se non si scrive Storia  con una maiuscola e se  non si sa porre a proposito – manìa che risale ad Hegel –  l’aggettivo “storico”. Stiamoci attenti. Questa storia che si invoca ad ogni proposito non è la conoscenza del passato, a cui sarebbe legittimo chiedere elementi di analogia o di previsione. La Storia di cui ci si opprime è la storia da fare che si dà come fatta, la storia sconosciuta che si dà per fatale. Si è demolita la Provvidenza per sostituirla con la Storia, nuova dea che dice quello che si vuole farle dire…”.

   Dal suo passato di storico e di osservatore della politica del XX secolo, questo scettico chiaroveggente traeva questa lezione di saggezza a favore degli uomini politici: “La riflessione sulla storia è benefica; l’ossessione di un destino storico è un segno di decadenza o di follìa.”

                                         Clio vista da destra

   Singolare destino quello di Pierre Gaxotte. All’inizio degli anni Trenta, storico già riconosciuto del periodo classico, egli dirige “Candide”e partecipa al lancio di “Je suis  partout”. Le sue speranze e le sue ripulse sono allora quelle di una destra muscolosa, che, al di là  o al margine del nazionalismo integrale della sua guida Charles Maurras , guarda con simpatìa all’esperienza dell’Italia fascista.

   Per tutta una generazione di giovani intellettuali, Brasillach, Rebatet, altri ancora meno talentuosi, Gaxotte è un modello. Insieme essi attaccano la Repubblica, i parlamentari, l’infiacchimento delle élites, l’invasione della Francia  da parte degli stranieri. Talvolta, sotto le loro penne, scoppia l’insulto.  Nel gennaio del 1936, quando il gabinetto Pierre Laval cade, in seguito alle rivelazioni, secondo le quali il capo del governo avrebbe fatto delle aperture a Mussolini, Pierre Gaxotte, nelle colonne di “Candide”, si scatena con quel miscuglio di senso comune, di invettiva e di ironia assassina che è il marchio dell’Azione francese. Per lui, la caduta di Laval è

 il risultato delle manovre di Edouard Herriot, il trionfo di una consorteria infame, che, dai radicali ai “Miliardari apatridi”, legati a forze occulte, raggruppa tutti quelli che vogliono la guerra con il Reich, l’isolamento e l’abbassamento della Francia.

   Voluta da Stalin in persona, la fine dell’Unione nazionale segna, secondo lui, l’inizio dei tempi catastrofici. Nei ranghi della giovane destra, questa filippica è calorosamente applaudita.

   Tuttavia, sin dal 1937, Pierre Gaxotte abbandona la redazione  da capo di “Je suis partout” e in questo periodico, al quale collabora fino al 1940, i suoi articoli si oppongono sempre più a quelli di Robert Brasillach. Sin dall’indomani dell’armistizio del giugno 1940, egli consiglia, invano, a Charles Maurras di interrompere la pubblicazione dell’”Azione frrancese”. Rifugiato a Clermond-Ferrand,, vi resta, silenzioso,  durante l’Occupazione, certo dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti, dunque della disfatta della Germania. Al momento della Liberazione, è  così  uno dei rari seguaci di Maurras, di primo piano, a non essere compromesso.  Il seguito è conosciuto.  Nel 1953 il biografo di Federico II entra all’Accademia francese, eletto alla poltrona di René Grousset. Grazie all’amicizia di Pierre Brisson e di Pierre Lazaref, prosegue ugualmente la sua carriera giornalistica, rinunciando ormai alle collaborazioni compromettenti o ai soggetti spinosi. Negli anni Cinquanta, si vedrà anche regolarmente la sua firma in “Ovest France”. Intelligenza, esatta valutazione delle forze in campo, tutto ciò spiega  senza dubbio  la destrezza con la quale Pierre Gaxotte seppe negoziare la delicata svolta del 1940… L’uomo, inoltre, non mancava di coraggio come lo provò lottando con stoicismo contro diverse malattie lungo tutta la sua esistenza. Tuttavia,è giocoforza ammettere che la sua attitudine non fu sempre compresa. I suoi vecchi avversari vi videro una prudenza  priva di franchezza. I suoi amici di ieri si stupivano, non senza qualche  verosomiglianza, di essere perseguiti, mentre, talvolta, non avevano fatto che applicare le parole d’ordine del loro ex patron. Come troncare ?  Gaxotte visse un dramma di coscienza? In pubblico, in ogni caso, si astenne da ogni commento :  i suoi due affascinanti volumi di ricordi (“La Marquise et moi”, prefazione di Georges Dumézil, apparve nel 1986) si fermano verso la metà degli anni Venti, un’epoca ancora felice, in cui le questioni ideologiche  non invadevano tutto.

   Per il suo procedimento storico originale in ogni modo, Pierre Gaxotte occupava, a destra, un posto a parte, da lungo tempo. Nella sua giovinezza, per  arrotondare i suoi fine mese, era stato il collaboratore di Louis Bertrand e, più tardi, egli ebbe l’eleganza di rendere omaggio  a questo storico dimenticato, che restava, ai suoi occhi, un “ammirevole colorista”, un fine psicologo, “uno di quelli che capirono meglio l’Islam”. In seguito, le sue attività alla redazione de “L’Azione francese” lo misero in rapporto con Jacques Bainville. Di cui lodò sempre la sagacia e il talento.  “Lui ed io, preciserà tuttavia,  non abbiamo della Storia  la stessa idea. Quella di Bainville era tutta politica. La sua “Storia di Francia” è un discorso politico sulla maniera di fare e di conservare una nazione. La prestazione d’opera, le strade e gli intendenti mi avevano costretto ad occuparmi di circolazione, di commercio, di agricoltura, di economia generale, di diritto d’amministrazione. Vi avevo preso gusto.”

   Di fatto, all’inverso di un analista come Bainville o di un semplice narratore quale La Varende, Pierre Gaxotte si volle sempre uomo di mestiere, privilegiando lo studio degli archivi.

   Puntando i riflettori su eroi, quali Luigi XIV o Luigi XV, Gaxotte evidentemente non era neutrale, ma, incontrando una storia ufficiale, che egli giudicava tendenziosa, intendeva, alla maniera di Hippolyte-Adolphe Taine, replicare sullo stesso terreno e con le stesse armi. La lunga relazione  che intrattenne con Georges Dumézil   dopo i loro anni comuni all’Ecole normale superiore attesta il livello in cui situava il dibattito, come la qualità delle opere pubblicate sotto la sua direzione , per Fayard, nella collezione “Les Grandes Etudes historiques”.  

Alfredo Saccoccio

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