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LA LEVA MILITARE NEL REGNO D’ITALIA

Posted by on Feb 4, 2023

LA LEVA MILITARE NEL REGNO D’ITALIA

La chiamata per la leva nel Regno delle Due Sicilie non era totale. Il Re decideva il numero dei coscritti da chiamare alle armi in ciascun anno. Quel numero era proporzionalmente ripartito tra tutti i comuni del Regno. La Sicilia, che aveva un’autonomia amministrativa, era esentata dalla leva. In ciascun comune, nel giorno fissato per l’estrazione a sorte, venivano inseriti nel bossolo (un’urna) tanti biglietti quanti erano gli iscritti, con dei numeri a partire dall’1, e si procedeva all’estrazione.

Coloro che estraevano i numeri più bassi erano inviati nel capoluogo di provincia, dove il Consiglio di Leva li sottoponeva a visita medica. Gli idonei dovevano raggiungere la compagnia deposito del corpo a cui erano stati assegnati, dove venivano addestrati per circa sei mesi. Le reclute dovevano risultare di sana e robusta costituzione ed essere alte almeno cinque piedi (circa m. 1,62). L’obbligo di servizio era di dieci anni, dei quali cinque di servizio attivo e cinque nella riserva, ma il militare di leva poteva scegliere di svolgere otto anni di servizio attivo e poi ricevere il congedo assoluto. In una famiglia poteva essere arruolato obbligatoriamente solo un giovane, mentre gli altri fratelli erano esentati, per non pesare troppo economicamente su quel nucleo familiare. Il giovane estratto poteva essere sostituito da un fratello o da un parente con le stesse qualità fisiche; poteva anche effettuare lo scambio con un altro giovane della stessa leva, però l’anno successivo sarebbe stato sottoposto nuovamente al sorteggio se entro i limiti di età. Infine era prevista l’esenzione mediante un cambio, da prendersi a pagamento tra i soldati in congedo o tra i giovani esenti dall’obbligo di leva. La cifra era, però, alla portata di pochi: 240 ducati, cioè circa sei milioni di lire nel 1995, da consegnare al sostituto alla fine della ferma. In ogni caso le popolazioni delle Due Sicilie si erano gradualmente abituate alla coscrizione, tanto che nel 1860 i renitenti alla leva erano un numero irrilevante. Nel 1859, sulla base dei congedi previsti, furono chiamati alle armi 18.000 giovani dai 18 ai 25 anni.

Esisteva anche l’arruolamento volontario con una ferma di otto anni per i sudditi delle Due Sicilie e di quattro per gli stranieri. I volontari usufruivano di un premio di ingaggio e, insieme ai coscritti, avevano la possibilità di raffermarsi per altri otto anni o, in alternativa, per quattro o per due. I centri di reclutamento per i volontari stranieri erano in territorio asburgico (Bregenz e Lecco), in Francia (Besancon) e nel Granducato del Baden (Costanza). Questi mercenari venivano incorporati nei battaglioni cosiddetti “esteri”.

Alla fine del 1860, quando il Regno delle Due Sicilie era quasi tutto occupato dalle truppe piemontesi, a parte le fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, il governo di Torino emanò il Regio Decreto del 20 dicembre 1860 col quale chiamava alle armi tutti gli ex militari napolitani delle leve dal 1857 al 1860, mentre le classi più anziane erano poste in congedo illimitato perché ormai irrecuperabili. Il Regno d’Italia ancora non esisteva, ma era già attuata una leva obbligatoria non legittimata da una sovranità riconosciuta. Il termine di presentazione era fissato al 1° giugno 1861: chiunque non avesse risposto alla chiamata sarebbe stato perseguito per diserzione. Su 72.000 uomini previsti dalla chiamata nel territorio dell’ex Regno delle Due Sicilie se ne presentarono 20.000, molti dei quali riottosi ed inquadrati in unità di disciplina dove subivano una dura rieducazione. Il rischio era che i renitenti e gli sbandati si sarebbero uniti alle formazioni di insorgenti borbonici già in fase di organizzazione e che stavano infiammando il sud Italia. Quindi, la reazione del governo di Torino fu di mantenere reclusi al nord chi rifiutava di giurare fedeltà a Vittorio Emanuele e fu attuata nelle province meridionali una durissima campagna repressiva contro la guerriglia e contro la dissidenza, con migliaia di uccisi, fucilati, arrestati e deportati.

Il neocostituito Regno d’Italia estendeva anche nel territorio meridionale la legge n° 1676 del 20 marzo 1854 votata dal parlamento di Torino che prevedeva il servizio di leva per tutti i cittadini, senza esenzioni, per una durata di 11 anni, di cui 5 in servizio attivo e 6 nella riserva. Per una famiglia rurale perdere uno o più figli giovani per cinque anni era un disastro economico insostenibile. Lo accenna anche lo scrittore verista Giovanni Verga nella sua novella «Cavalleria Rusticana», mettendo in bocca al suo personaggio Turiddu Macca, bersagliere in congedo, queste parole:

Mia madre, poveretta, la dovette vendere la nostra mula baia, e quel pezzetto di vigna sullo stradone, nel tempo ch’ero soldato. Passò quel tempo che Berta filava, e voi non ci pensate più al tempo in cui ci parlavamo dalla finestra sul cortile, e mi regalaste quel fazzoletto, prima d’andarmene, che Dio sa quante lacrime ci ho pianto dentro nell’andar via lontano tanto che si perdeva persino il nome del nostro paese.

La guerriglia antiunitaria che durò per una decina di anni, lo smantellamento del sistema industriale, l’aumento smisurato delle tasse e la chiamata alla leva generale dei giovani fece precipitare il territorio dell’ex Regno delle Due Sicilie in una miseria estrema.

La popolazione della Sicilia, che era stata il punto debole del reame borbonico e che aveva sostenuto con un buon numero di adesioni l’impresa di Garibaldi, si rese conto, soprattutto nelle sue classi più umili, del peggioramento della condizione socio-economica.

Lo storico meridionalista pugliese Raffaele De Cesare, di idee unitarie e senatore del Regno d’Italia, descrisse nella sua opera del 1894 le condizioni della Sicilia prima e dopo l’unità:

La vita nelle città era a un buon mercato inverosimile, e scarsi dappertutto i bisogni morali, anzi limitati alle classi più ricche. Nessuna legislazione fiscale inceppava il movimento della proprietà, e le fittanze a lunga scadenza, le enfiteusi temporanee e perpetue, le vendite, le espropriazioni e le stesse donazioni erano favorite da un sistema legislativo che non le opprimeva, benché una gran parte delle proprietà immobiliare fosse gravata di vincoli enfiteutici. […] Nella misura dei dazi di esportazione vi era trattamento di favore per la Sicilia. Così, quando nel 1856 venne ridotto il dazio di esportazione sugli olii di oliva, il dazio sugli olii di Sicilia fu della metà inferiore a quello, che colpiva gli olii del continente. Era favorita la marina mercantile nazionale, perchè questi dazi salivano del doppio se l’esportazione si compiva con legni esteri. Grazie al Florio l’esportazione era più che triplicata. Gli zolfi, il sommacco, i vini, gli olii, le paste, gli agrumi erano i prodotti che l’Isola esportava, e il Governo, come si è veduto, ne favoriva l’esportazione, prendendo alla sua volta dai contribuenti siciliani il meno possibile. Essi si lagnavano a torto per questa parte. La Sicilia, che paga oggi 120 milioni d’imposte, ne pagava allora poco meno di ventidue, e se mancava di ferrovie e di strade, di telegrafi elettrici e di cimiteri, aveva il porto franco di Messina, l’esenzione dalla leva e dalla gabella del sale e la libera coltivazione del tabacco. Il Governo si studiava di garantire ai poveri i generi di prima necessità a buon mercato, e la sicurezza alle classi benestanti. […] negli anni che son corsi dal 1860 ad oggi, la classe più pervertita è sempre quella contro la quale alzava la voce il Meli: la classe dei paglietti, dei fiscali e dei parassiti, precisamente di quelli che formano oggi la così detta clientela elettorale, da cui emana il potere.1

L’annessione dell’isola al Regno d’Italia fece perdere tutti i benefici e portò alla moltiplicazione delle tasse e, come detto, alla leva obbligatoria. Le quote individuali di contribuzione fiscale dell’erario passarono da 18 lire annuali nel 1860, a 48 lire con il nuovo regno. L’aumento della miseria provocò uno stato di tensione che accese continui disordini, soffocati con l’istaurazione dello stato d’assedio e con una durissima repressione. Le libertà individuali subivano un netto regresso rispetto al governo borbonico. Per reprimere la diffusa renitenza alla leva, nel settembre del 1862 il governo di Torino inviò a Palermo uno dei più brillanti generali: Giuseppe Govone. Egli chiese e ottenne dal governo l’autorizzazione a mettere “ordine” in Sicilia, così militarizzò l’isola, attuando un controllo asfissiante del territorio e delle vie di comunicazione, tramite pattugliamenti di colonne mobili, perquisizioni, agguati.

Uno degli episodi più truci fu quello accaduto a Licata il 15 agosto 1863. Il maggiore Frigerio, comandante di un battaglione di fanteria, intimò alla popolazione della città che «se l’indomani alle ore 15 non si fossero costituiti i renitenti e i disertori, avrebbero tolto l’acqua, e ordinato che nessuno potesse uscire di casa sotto pena di fucilazione e di altre misure di più forte rigore.»

Un altro episodio di violenta repressione accadde a Salemi il 26 agosto 1863. Il 48° reggimento fanteria del maggiore Raiola cinse d’assedio la cittadina per tre giorni, chiudendo l’acqua potabile. Il professore Tommaso Romano così narrò il fatto:

Si ricercano i renitenti e, in assenza, si arrestano madre, padre, sorelle, fratelli, che legati come malfattori o galeotti sono trascinati in carcere. Si arresta senza discernimento. Si arrestano i parenti sino nei più lontani gradi, gli amici e chi niente ha in comune col renitente ma che lo vide nascere.

Tra le tante disposizioni antiliberali emanate, Tommaso Romano ne definì ironicamente una “perla di diritto”:

L’autorità politica ha prescritto che ogni cittadino assente dal proprio comune sia munito di una carta di circolazione. Tutti coloro che alla distanza di un chilometro dal paese ne saranno trovati sprovvisti verranno arrestati, né si rilasceranno prima che il Sindaco alla presenza del Delegato di Sicurezza Pubblica e del Comandante la stazione dei R. Carabinieri abbia assicurazioni sulla loro moralità”.

1 De Cesare Raffaele, La fine di un Regno, Longanesi, Milano 1969, pp. 446 e seguenti.

In poco più di un anno, nell’autunno 1863, il successo dell’opera repressiva dello Stato fu completa. Furono ben 154 i comuni circondati e posti in stato d’assedio e poi perquisiti, su 20.000 renitenti, ne vennero arrestati 4.000.

Lo stesso Francesco Crispi, colpito dalla durissima repressione del governo, così scrisse a Garibaldi: «Ho visitato le carceri e le ho trovato piene di individui che ignorano il motivo per cui sono prigionieri. La popolazione in massa detesta il governo d’Italia». Per i cittadini italiani del meridione non fu difficile fare un paragone pratico tra la “tirannia” borbonica e la “libertà” sabauda. Tutto il dissenso antigovernativo dei siciliani esplose nel 1866, subito dopo la III guerra d’indipendenza, che tanti lutti aveva provocato. Nel settembre, infatti, si accese la rivolta del sette e mezzo, un’insorgenza popolare corale che aveva tante anime, unite dal malcontento verso la politica unitaria. Del movimento facevano parte borbonici, clericali, repubblicani, radicali, separatisti, garibaldini delusi, renitenti alla leva e disertori. La rivolta fu soffocata in un bagno di sangue in sette

giorni e mezzo, utilizzando carabinieri, polizia, 40.000 soldati e la flotta, che bombardò Palermo.

La Legge 13 luglio 1862, n. 696 (relativa alla classe 1842), fu la prima del nuovo Regno che chiamava alle armi tutti i maschi italiani, ma non innovava sul piano organizzativo o funzionale la Legge organica piemontese del 1854. Solo nel 1871, con legge n° 349, il servizio attivo fu ridotto a 4 anni, e a 3 anni con legge 2532 del 1875.

Domenico Anfora

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