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LA MAFIA E IL SUO REGNO

Posted by on Ott 19, 2024

LA MAFIA E IL SUO REGNO

Pietrò Calà Ulloa, nel 1838, all’epoca Procuratore del Re a Trapani, scrisse a proposito della mafia, già presente allora in Sicilia, al Ministro di Grazia e Giustizia di Napoli: “…Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete.

Una cassa comune sovviene ai bisogni ora di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo. La mancanza della forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero dei reati! Il popolò è venuto a tacita convenzione coi rei. Così come accadono i furti escono, i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito. Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e s’inscrivon nei partiti…”. Insomma, la mafia c’era già allora, ma come sottolinea Pietro Calà Ulloa era “senza colore o scopo politico”. Essa nacque e fu mantenuta dalla generale diffidenza contro il governo; dalla sua impotenza e dal malvolere nel rendere giustizia, dalla coscienza profonda che l’esperienza aveva dato agli uomini che la giustizia bisognava farsela da sé e non sperarla dai poteri pubblici”. La mafia come reazione a uno Stato che non garantiva giustizia ai cittadini, i quali la giustizia la cercavano in altri modi: o facendosi giustizia da sé, o rivolgendosi alle persone che in lingua siciliana si definiscono ‘ntise’, ovvero persone che godono del rispetto generale, in parte perché si sostituiscono alla giustizia in parte perché sono delinquenti che godono di grande fama, anche fama di imprendibili, sia perché sono abili, sia perché sono protetti dallo stesso Stato. Questo malinteso senso della giustizia viene illustrato in modo molto chiaro dallo storico Salvatore Francesco Romano nel volume Storia della mafia. “… la voce mafia non si trovi registrata nella prima edizione (1838) del Dizionario siciliano – italiano del Mortillaro giudica che la parola e la cosa siano di data recente; e con compiacenza rileva che nella 3^ edizione (1876) a p. 648 venga registrata della parola mafia la seguente spiegazione: Voce piemontese introdotta nel resto d’Italia ch’equivale a camorra. Il Bennici alla sua volta fa derivare camorrista dai Gamos che furono i grandi proprietari di terra nell’antica Siracusa”.

Tutto cambia con la cosiddetta unificazione italiana. “Se nel 1861 l’Italia non fosse stata unificata sotto i Savoia, la mafia non si sarebbe probabilmente sviluppata, almeno non per come la conosciamo noi. Il motivo? Non si sarebbe verificata quella graduale marginalizzazione del Sud Italia (trasformato in realtà periferica dalle politiche piemontesi), che lasciò ai mafiosi un’ampia libertà di azione. Prima dell’unificazione, infatti, la mafia era un’accozzaglia di criminali che agivano per conto di baroni e ricchi possidenti locali. Poi, con lo sbarco dei mille in Sicilia, molti mafiosi ingrossarono le file delle Camicie rosse facendo da scorta a quest’ultimo. Il passo successivo della mafia fu quello di penetrare nelle pieghe dello Stato, sfruttando il vuoto di potere seguito alla cacciata dei Borbone dalle terre del Sud. Già dal 1861 parecchi mafiosi si infiltrarono nei governi cittadini e non solo, finché il fenomeno assunse dimensioni tali da porsi quale alternativa alle stesse istituzioni nazionali”. Con il Borbone la mafia era contro lo Stato e fuori dallo Stato; con l’avvento della vera o presunta unificazione italiana la mafia entra nelle pieghe del nascente Stato, con sfumature che cambiano a seconda del momento storico.

Probabilmente di ciò si rese conto anche Napoleone Colajanni, ex garibaldino siciliano e deputato parlamentare tanto da scrivere il primo libro sulla Mafia: “Nel Regno della Mafia” del 1900. Il Colajanni aveva ben capito che lo stato “dialogava” con la mafia già prima dell’Unità d’Italia e denunciò le connivenze tra mafia, politica ed autorità statali in relazione al clamoroso omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo (1893). Il 1º febbraio 1893, durante il tragitto in treno tra Termini Imerese e Trabia, fu ucciso con 27 colpi di pugnale da Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, entrambi mafiosi di Villabate, e il suo cadavere gettato giù dalla carrozza all’altezza del ponte Curreri, in agro di Trabia. “Dal processo (Notarbartolo) contro due ferrovieri, che man mano si trasforma in un processo contro una forza poderosa e misteriosa, risulta che c’è una grande accusata: la magistratura!”

Le prime indagini portarono a sospettare della complicità di due ferrovieri e di un boss della cosca mafiosa di Villabate, Giuseppe Fontana, ma al termine della prima istruttoria furono rinviati a giudizio solo i due ferrovieri presenti sulla carrozza al momento dell’uccisione e quindi ritenuti correi degli assassini.

Nel 1899 si aprì quindi il primo processo che, per legittima suspicione, si celebrò a Milano. Durante lo svolgimento delle prime udienze nella città lombarda, Leopoldo Notarbartolo, il figlio della vittima, accusò pubblicamente in aula l’onorevole Raffaele Palizzolo di aver ordinato l’omicidio del padre. Subito, la Camera dei deputati, su pressione del Presidente del Consiglio Luigi Pelloux, concesse all’unanimità l’autorizzazione a procedere contro Raffaele Palizzolo, che venne dunque arrestato dal questore di Palermo Ermanno Sangiorgi insieme a Giuseppe Fontana, che stava trascorrendo la latitanza presso le tenute agricole del principe Pietro Mirto Seggio, dove svolgeva la mansione di campiere. Nel 1900 il secondo processo si aprì presso la Corte d’Assise di Bologna e furono chiamati a deporre ben 503 testimoni e tra di essi figuravano ex ministri, deputati, senatori, prefetti, questori e funzionari di Pubblica sicurezza. Le udienze vennero seguite con attenzione dai corrispondenti delle principali testate nazionali e colpirono profondamente l’opinione pubblica: per la prima volta si parlava apertamente di delitto di mafia, delle sue implicazioni politiche e dei tentativi di depistare le indagini, circostanze che furono pubblicamente denunciate dai deputati Napoleone Colajanni e Giuseppe de Felice Giuffrida. Nel luglio 1902 Palazzolo e Fontana vennero giudicati colpevoli e condannati a 30 anni di reclusione, ma la Cassazione annullò la sentenza di Bologna per vizi di forma. Lo scandalo assunse proporzioni tali che si costituì addirittura un “Comitato Pro-Sicilia”, cui aderirono intellettuali quali Giuseppe Pitrè e Federico De Roberto, il quale mirava a difendere l’isola offesa dalle accuse lanciate nel processo, negando addirittura l’esistenza della mafia, ritenuta un’invenzione dei settentrionali per diffamare la Sicilia. Nel nuovo processo che si tenne a Firenze venne convocato un solo importante testimone nuovo, Matteo Filippello, un sicario di mafia il quale si era deciso a confessare il delitto e ad accusare l’ex compagno Fontana e il mandante Palizzolo ma venne trovato impiccato prima di testimoniare, ufficialmente “suicida”. Perciò nel luglio 1904 Palizzolo e Fontana vennero assolti dalla Corte d’Assise di Firenze per insufficienza di prove.

“La Mafia, quindi rese i più grandi servizi alla causa della rivoluzione contro i Borbone; e in questo addentellato politico sta una delle cause del rispetto e della devozione della medesima verso l’aristocrazia, che in massa era avversa ai Borbone. I più noti mafiosi furono i più valorosi combattenti nelle cosiddette squadre nel 1848; gli stessi Mafiosi si batterono prodemente nel 1860 tra i picciotti di Garibaldi alle porte di Palermo e dentro Palermo. Quando trionfa la leggendaria spedizione dei Mille di Marsala, nel momento in cui una nuova vita doveva cominciare per la Sicilia, la mafia, specie nella provincia di Palermo, si trovò circondata dall’aureola del patriottismo e col battesimo del sangue versato in difesa della libertà.

“Sotto l’aspetto amministrativo la mezza libertà dei cittadini e la mezza autonomia degli enti locali sotto i Sabaudi segnarono un vero peggioramento sulle precedenti condizioni sotto i Borbone. Municipi e provincie servirono a gravare enormemente le imposte, a ripartirle per fini individuali, senza unità collettiva, a scopo di nepotismo e di favoritismo, per preparare candidature politiche”.

Colajanni scrive che Alongi, funzionario di P.S. nel 1893 afferma: “Il 90% dei Comuni in Sicilia era amministrato con criteri e forme tali che fanno desiderare il tipo dell’antico governo paterno perché allora si aveva il diritto d’inchiodare sulla gogna i tirannelli locali, il conforto e la speranza di un avvenire migliore e, di tanto in tanto l’intervento violento, ma pure sempre riparatore, del governo centrale”. Il giudice Rocco Chinnici, che conosceva bene storia e mondo della mafia, partiva da un assunto: “Prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione, non era mai esistita in Sicilia… La mafia… nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. In realtà, pur avendo Chinnici un buona parte ragione, nel senso che la mafia presente nello Stato comincia proprio con la nascita dell’Italia, tra il 1860 e il 1861, ma come abbiamo ricordato c’è un aspetto della mafia, precedente alla vera o presunta unità d’Italia, che merita di essere approfondita.

Le ultime righe del libro di Napoleone Colajanni sono fulminanti: «Per combattere e distruggere il regno della mafia è necessario, è indispensabile che il governo italiano cessi di essere il re della mafia».

Uno dei primi saggi mai scritti sulla mafia. Uno sconvolgente documento per capire che nulla in centosessanta anni è cambiato!

Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, banchiere e politico. È considerato la prima vittima eccellente di cosa nostra in Italia. Nel febbraio 1876 è nominato dal governo Minghetti direttore generale del Banco di Sicilia, cerca con la sua autorità di riorganizzare il sistema bancario siciliano, scosso dopo l’Unità d’Italia. Il Banco di Sicilia è sull’orlo del fallimento, e l’operato di Notarbartolo è orientato a evitare il collasso dell’economia siciliana. Crea una rete capillare di agenzie e opera una stretta sulle erogazioni di credito, da sempre effettuate senza garanzie e sulla base di principi clientelari, inimicandosi pertanto molti speculatori.
Il consiglio d’amministrazione del Banco è composto principalmente da politici, molti dei quali legati alla mafia locale. È affiancato in particolare dal parlamentare Raffaele Palizzolo, con il quale ha già avuto non pochi screzi a causa delle speculazioni avventate da lui messe in atto. C’è addirittura il sospetto che sia il mandante del sequestro messo in atto ai danni del marchese nel 1882 mentre si trova nei suoi possedimenti a Caccamo, per il quale Notarbartolo è costretto a pagare un riscatto di 50000 lire. Nel 1889 Notarbartolo provò a denunciare questa situazione in due lettere inviate al ministro dell’Agricoltura e del Commercio Luigi Miceli che però vennero trafugate dal tavolo del ministro e ricomparvero misteriosamente nelle mani di Palizzolo, il quale le mostrò agli altri consiglieri d’amministrazione.

Raffaele Palizzolo, fu nominato nel consiglio di amministrazione del Banco di Sicilia in contrasto con l’allora direttore generale, il marchese Emanuele Notarbartolo. Azionista della Navigazione Generale Italiana, fu implicato in speculazioni di borsa realizzate mediante denari del Banco.
Il giurista palermitano Gaetano Mosca così lo descrisse: «Era popolarissimo se la popolarità consiste nell’essere facilmente accessibile a persone di ogni classe, di ogni ceto, di ogni moralità. La sua casa era indistintamente aperta ai galantuomini e ai bricconi. Egli accoglieva tutti, prometteva a tutti, stringeva a tutti la mano, chiacchierava infaticabilmente con tutti; a tutti leggeva i suoi versi, narrava i successi oratori riportati alla Camera e, con abili allusioni, faceva capire quante e quali aderenze potentissime avesse».
Aveva rapporti con diversi mafiosi, fu incriminato come mandante dell’uccisione di Notarbartolo avvenuta il 1º febbraio 1893. Nel 1902 venne giudicato a Bologna colpevole e condannato a 30 anni di reclusione, ma la Cassazione annullò la sentenza e, nel nuovo processo che si tenne nel luglio 1904, fu assolto dalla Corte d’assise di Firenze per insufficienza di prove. Dopo l’assoluzione, al suo ritorno a Palermo, fu acclamato come un eroe, vittima di un complotto per diffamare la Sicilia. Scrisse addirittura un libro autobiografico intitolato Le mie prigioni e nel 1908 compì un viaggio a New York per raccogliere voti presso le comunità di emigranti siciliani ma non venne rieletto e terminò così la sua carriera politica.

fonte

https://unpopolodistrutto.com/page/2

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