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“LA MORTE DI ANITA GARIBALDI” di Vincenzo Giannone

Posted by on Apr 20, 2023

“LA MORTE DI ANITA GARIBALDI” di Vincenzo Giannone

«La mattina del 26 giugno 1849, accompagnata dal fido Origoni, Anita arrivò improvvisamente a Roma e senza essere preannunziata comparve a Garibaldi al suo quartiere generale a Villa Spada, a Trastevere, dove il generale con Luciano Manara aveva posto il quartier generale. Anita era in evidente stato di gravidanza. Che aspetto aveva? Ha scritto Umberto Beseghi:

Hoffstetter, presente all’incontro a Villa Spada, ha fatto di Anita questo ritratto: «Era una donna di circa 28 anni, di carnagione molto scura e lineamenti interessanti, snella e delicata della persona. A prima vista si riconosceva l’amazzone in lei».

Se il 10 novembre del 1848 Garibaldi era a Bologna e Anita lo aveva lasciato da pochi giorni, quando giunse a Roma doveva essere incinta di oltre sette mesi. Alta circa un metro e sessanta­cinque centimetri, aveva un carattere forte e deciso. A Montevideo aveva seguito, in più occasioni, Garibaldi in battaglia. Si può dire che fosse nata a cavallo e che lei insegnò a cavalcare al marinaio Garibaldi. Anita era abituata alle difficoltà, ma era pur sempre una donna gelosa, la moglie di un generale italiano conosciuto in tutto il mondo per la sua audacia e coraggio. Per seguire il marito si era tagliati i capelli “alla puritana” e vestita da uomo.

Calato il sipario sulla repubblica romana, Garibaldi decise di andare a Venezia per combattere contro gli austriaci. Pur avendo con sé Anita incinta di sette mesi, «rifiutò l’offerta dell’Ambasciatore degli Stati Uniti di mettersi in salvo con la moglie su una corvetta americana». Tranne alcuni, che caddero nelle mani austriache e furono fucilati, tutti si erano messi in salvo: Mazzini, Sirtori, Mameli, Avezzana e Bixio. Garibaldi, invece, no.

Qualche decennio fa, il professore Alfonso Scirocco ha scritto:

La sera del 27 giugno, vedendo respinto un suo consiglio, in uno scatto d’ira fanciullesca, come Achille, traendosi dietro i suoi Legionari, abbandonò il Gianicolo e lasciò il comando al Rosselli, presuntuoso e incompetente. Aveva suggerito di attaccare i Francesi nelle retrovie per distoglierli dall’assedio e non fu ascoltato. Nel pomeriggio del 2 luglio radunò nella piazza di S. Giovanni Laterano le sue milizie e disse loro: «La fortuna che oggi ci tradì, ci arriderà domani. Soldati! Io esco da Roma. Chi vuole continuare la guerra contro lo straniero venga con me».

Il giorno dopo i francesi occuparono Roma e Garibaldi, dopo esser sfuggito con vari stratagemmi al loro inseguimento, si trovò incalzato dal generale austriaco D’Aspre, che la scorsa estate gli aveva dato la caccia sul lago Maggiore. Verso la metà di luglio, Garibaldi si trovò alle strette, i viveri scarseggiavano e i volontari, non essendo soldati di mestiere né mercenari, iniziavano a disertare. Era partito con circa 5000 avventurieri e alla fine del mese non ne contava più di 1500. Perché Anita era venuta a Roma in un momento così difficile? Era gelosa? Temeva per la salute del marito? Voleva seguirlo in quell’impresa eroica o sperava che vedendola gravida di molti mesi si sarebbe convinto a tornare a casa? La risposta potrebbe essere in due lettere, che Garibaldi le scrisse il 19 aprile e il 12 giugno 1849. Dalla prima si deduce che Anita aveva manifestato apprensione per la salute del marito, preso da continui attacchi di artrite e febbre malarica. «Per me non affliggerti, io sono più che mai robusto», le aveva risposto Garibaldi. Ecco alcuni passi della lettera:

Amatissima Consorte. Ti scrivo per dirti che sto bene […]

Io non sarò tranquillo sino ad avere una tua lettera, che mi assicuri, esser giunta tu felicemente a Nizza. […]

Tu donna forte e generosa! con che disprezzo non guarderai questa ermafrodita generazione d’Italiani, questi miei paesani, ch’io ho cercato di nobilitarle tante volte, e che sì poco lo meritavano. Evvero! il tradimento ha paralizzato ogni slancio coraggioso; ma comunque sia, noi siamo disonorati! il nome italiano sarà lo scherno degli stranieri d’ogni contrada.

Io son sdegnato di appartenere ad una famiglia che conta tanti codardi; ma non credere perciò ch’io sia scorato! ch’io dubiti del destino del mio paese, più speranza nutro oggi, che mai. Impunemente si può disonorare un individuo, ma non si disonora impunemente una nazione, i traditori ormai sono conosciuti. Il cuore dell’Italia palpita ancora e se non è sano del tutto è capace ancora di recidere le parti infette che lo travagliano. […]

Scrivimi, ti ripeto, ho bisogno di sapere di te, di mia madre e dei bimbi; per me non affiggerti, io son più che mai robusto […].

Nella seconda lettera, inviatale pochi giorni prima del suo arrivo a Roma, Garibaldi le aveva scritto:

Mia cara Anita, io so che sei stata e sei forse ancora ammalata, voglio veder dunque la tua firma e quella di mia madre per tranquillizzarmi. I Gallo-frati del cardinale Oudinot si contentano di darci delle cannonate o noi quasi per perenne consuetudine non ne facciamo caso. Qui le donne e i ragazzi corrono dietro alle palle e alle bombe, gareggiandone il possesso. Noi combattiamo sul Gianicolo e questo popolo è degno della passata grandezza. Qui si vive, si muore, si sopportano le amputazioni al grido di Viva la Repubblica. Un’ora della nostra vita in Roma vale un secolo di vita! Felice mia madre! d’avermi partorito in un’epoca così bella per l’Italia. Questa notte trenta dei nostri, sorpresi in una casetta fuori le mura, da centocinquanta Gallo-frati, se l’hanno fatta a baionettate; hanno ammazzato il capitano e tre soldati, 4 prigionieri del nemico ed un mucchio di feriti. Noi un sergente morto, ed un milite ferito. I nostri appartenevano al reggimento Unione. Procura di sanare, baciami mamma, i bimbi. Menotti mi ha beneficato di una lettera, gliene son grato. Amami molto — tuo.

Roma 12 giugno 1849.

Garibaldi amava Anita, ma più di ogni altra cosa amava la guerra e neppure lo stato di gravidanza avanzato della moglie poteva fermarlo. Il 31 luglio, dopo un’estenuante fuga, inseguito dagli austriaci, giunse a San Marino. Si presentò al capitano della Repubblica e chiese ospitalità per sé e le sue truppe disastrate. Resosi conto dell’impossibilità di continuare la marcia, sciolse l’esercito. Anita, distrutta dal viaggio, stava già male. Giunti gli austriaci a San Marino, offrirono alla Repubblica le seguenti condizioni di resa della legione: consegnare le armi di Garibaldi; i legionari sarebbero stati amnistiati e inviati ai loro paesi d’origine e Garibaldi si sarebbe impegnato ad emigrare in America. Se fosse stato saggio, viste le precarie condizioni di Anita, Gari­baldi avrebbe dovuto accettare, invece, preferì salire a cavallo e dire ai suoi: «A chi vorrà seguirmi, offro nuove battaglie, patimenti e esilio: patti con lo straniero, mai!» Anita salì a cavallo e, si dice, Garibaldi tentò di convincerla a restare a San Marino. Alcuni anni dopo, come a volersi giustificare, l’eroe scriveva nelle Memorie:

Un carissimo e ben doloroso impaccio era la mia Anita, avanzata in gravidanza, ed inferma, io la supplicavo di rimanere in quella terra di rifugio [San Marino], ove un asilo almeno per lei poteva credersi assicurato, e dove gli abitanti ci avevan mostrato molta amorevolezza. Invano! Quel cuore virile e generoso si sdegnava a qualunque delle mie ammonizioni su tale assunto e m’imponeva silenzio colle parole: «Tu vuoi lasciarmi».

Il primo agosto, Garibaldi lasciò la repubblica di San Marino con circa 250 uomini per andare a Venezia. Il giorno seguente, sfuggito agli austriaci, che l’inseguivano, raggiunse Cesenatico e prese la via del mare. Durante la navigazione, le 13 barche da pesca (baragozzi) furono intercettate da un brigantino austriaco e dopo l’alt, non fermandosi, furono cannoneggiate. Molte barche furono catturate, alcune riuscirono a fuggire, solo tre raggiun­sero, il giorno dopo, la spiaggia di Magnavacca. Anita con una semplice sottoveste e calze stava molto male. Garibaldi scese dalla barca portandola sulle braccia. Con lui c’erano padre Bassi, il capitano Leggero, Ciceruacchio ed altri legionari. Raggiunti da un certo Nino Bonnet, che li aveva osservati da lontano, Garibaldi e Anita trovarono rifugio nel casolare di Ignazio Cavalieri abitato dalla una vedova di nome Caterina. Poi si trasferirono alla Cavallina (un podere). Qui, Anita ebbe le prime cure dalla padrona di casa, che ignorava l’identità degli ospiti. Anita fu risto­rata con un buon brodo caldo. Il Bonnet, tratto Garibaldi con un braccio fuori della casa, lo sconsigliò dal proseguire la marcia verso Venezia e, a proposito di Anita, gli disse:

È necessario ve ne dividiate. La Anita non trovasi in grado di sostenere i pericoli e le snervanti emozioni di una fuga. Il suo stato, gravissimo, sarebbe di non lieve impaccio all’attuazione del mio disegno. Io la farò trasportare a Comacchio, presso la mia famiglia, che le procurerà le risorse dell’arte, e voi verrete a riprenderla in tempo migliore, seppur saremo tanto fortunati da strapparla alla sorte che la minaccia.

Dalla Cavallina, Anita, Garibaldi e il capitano Leggero si trasferirono al podere di Mattia Zanetto, un colonnello della Guardia Nazionale, amico del Bonnet. Intanto, le condizioni di Anita peggioravano sempre di più. Bonnet le consigliò di separarsi da Garibaldi, ma ella si pose a supplicarlo con lagrimevole accento perché non la separasse dal marito e la lasciasse morire al suo fianco. Al tramonto, per raggiungere la cascina Guiccioli nei pressi di Ravenna, Anita fu adagiata in una barca su alcuni cuscini. Ma durante la notte furono costretti a sbarcare nei pressi di un capanno perché il barcaiolo, timoroso, non volle proseguire il viaggio. Allora, Bonnet fece ricorso ad un altro amico. Corse alle Mandriole e avvertì il fratello e la sorella del fattore Stefano Ravaglia, in quel momento assente. Anita fu posta sopra un materasso preparato in un biroccino (un carretto), il padrone del carretto guidava il cavallo a passo lento, Garibaldi a piedi la proteggeva dai raggi del sole con un ombrello, dietro li seguiva il capitano Leggero.

Quando Bonnet, di ritorno da Ravenna, dove era andato per organizzare la fuga di Garibaldi, giunse alla fattoria Guiccioli, gli andò incontro Stefano Ravaglia, che gli disse: Anita è morta ed è stata sepolta. Dove? Chiese Bonnet, e aggiunse: «Bisogna dissotterrarla e trasportare la salma in un luogo più sicuro». Ravaglia, non attenne alla promessa, e lasciò il cadavere laddove lo aveva inumato, e per molto tempo fu creduto da molti che l’avesse strangolata per derubarla.

Un inquietante documento sulla morte di questa giovane e coraggiosa donna fu pubblicato nel 1885 dal siciliano Enrico Ximenjes nel libro Epistolario di Giuseppe Garibaldi. Ximenjes, fu l’unico autore che parlò della morte di Anita. Egli scrisse:

Anita morì [sabato] il 4 agosto 1849, a Mandriole nelle valli di Comacchio in casa del fattore del Marchese Guiccioli in seguito ai disagi della gloriosa ritirata di Roma. Apprestata, dal giovane maggiore Leggiero, la fossa in una cava vicina [profonda circa 50 cm], venne deposta [sotto la sabbia] la cara salma, poscia i due compagni di sventura, accomiatatisi dal pietoso fattore, un tal Giuseppe Ravaglia, al quale diedero in dono l’anello nuziale tolto alla morta [che il fattore, si dice, rifiutò], partirono subito per Ravenna.

Nel 1887, Gioacchino Bonnet scrisse: «Il medico professor Foschini, incaricato degli accertamenti di legge, errò nel suo giudizio, e dichiarò che l’Anita, forse ad oggetto di derubarla, era stata strangolata.» Che cosa era realmente accaduto la sera del 4 agosto? Dal rapporto del delegato di Polizia, Locatelli, riportato da Ximenjes, si deduce chiaramente che Anita era stata strangolata. Nella sua relazione, il Giudice processante Giuseppe Francesconi aveva scritto:

…Nessun segno di maleficio fu rilevato nella periferia di quel cadavere, e soltanto nel collo un segno di depressione nelle sue parti anteriore e laterale, come vi si trovò rotta la trachea, od meglio dire divisa totalmente nei suoi anelli, e le cartilagini componenti la laringe, anche esse disunite. Fu di più osservato, avere gli occhi sporgenti, e così sporgente la lingua per oltre un pollice. Questi marcati segni somministrarono al perito fiscale argomento per giudicare che l’individuo aveva cessato di vivere a causa di strozzatura. […]

Il documento non lascia dubbi: Anita fu strangolata. Nel corso del processo, che seguì la scoperta del corpo, si disse che la diagnosi di «strozzamento» fatta dal dottor Luigi Fuschini era da attribuirsi alla decomposizione avanzata del cadavere. Nel 1932, l’argomento fu ripreso da Umberto Beseghi nel libro Il Maggiore “Leggero”e il “trafugamento” di Garibaldi. La verità sulla morte di Anita. Nel rapporto sintetico, redatto dal Giudice processante Giuseppe Francesconi, riportato in Appendice al libro di Umberto Beseghi, si legge:

…Alle opportune fattegli domande [al dott. Fuschini], se gli [sic] riscontrati segni di alterazione al collo, e nel volto di quel cadavere potessero derivare da causa indipendente da maleficio, rispose affer­mativamente a causa dell’avanzata putrefazione, adducendo in proposito i motivi sui quali appoggiava tale ulteriore giudizio.

Perché il dottor Fuschini cambiò versione nel corso del processo? Garibaldi era un personaggio molto amato dai liberali e in particolare dai romagnoli, e certamente il processo fu pilotato per salvare l’immagine dell’eroe dal sospetto d’aver strozzato la moglie. Scrisse Beseghi:

Da questa circostanza nacque la fosca leggenda che il Ravaglia, per sbarazzarsi dell’ospite pericolosa, lasciata da Garibaldi morente alla fattoria, l’avesse malamente strozzata e poi sepolta in grande fretta e senza cura nella landa. Altri osarono persino affermare che lo stesso Garibaldi, aiutato da Leggero, avesse affrettata la fine della donna tanto amata! […]

Nel 1933, Gustavo Sacerdote, nella Vita di Giuseppe Garibaldi, accennando alla morte di Anita, scriveva tra l’altro:

La fantasia popolare ci fece sopra i soliti ricami. Un giornale reazionario arrivò a stampare che Anita era stata uccisa dallo stesso «bandito» Garibaldi, il quale vedeva che ormai quella donna gli avrebbe resa impossibile la fuga. […]

I Ravaglia furono arrestati il 14 agosto sotto l’accusa di «correità o complicità nel supposto omicidio della incognita donna del ben noto Garibaldi». Fotunatamente la magistratura giudicante fu saggia e sollecita. Si rintracciò la verità. Il prof. Fuschini convenne che la sua supposizione di strangolamento era infondata. E al 7 settembre i fratelli Ravaglia, riconosciuti innoncenti.

Perché il dottor Nannini, che visitò Anita e nell’inchiesta giudiziaria disse di trovarsi nella casa del fattore (che era assente) per visitare la moglie, (forse chiamato dallo stesso Bennet per visitare Anita), non pensò di salvare il bambino se la madre era morente? La causa della febbre e del malessere di Anita poteva essere stata la morte precoce del bambino, che portava in grembo? Nulla fu detto nel rapporto del Giudice Francesconi e nella relazione, che il Presidente del Tribunale di Ravenna inviò al Ministro di Grazia e Giustizia. Possibile che il dottor Nannini non si fosse accorto che Anita, così piccola ed esile, era gravida di otto mesi? Possibile che Garibaldi nulla gli avesse detto sullo stato gravidico di Anita e si era limitato a osservare che da più giorni era affetta da una febbre perniciosa? È evidente che nel processo non fu detta tutta la verità e il dubbio sulle cause della morte di Anita a resta. Nelle Memorie, Garibaldi scrisse che Anita morì appena deposta sul letto al piano superiore della casa del fattore e che non fu presente alla sua sepoltura perché si era allontanato subito dopo, «essendosi tutti fatto a pressarlo per una immediata partenza a scanso di guai…». Ma se Anita era già morta prima della sua partenza, come spiegare lo strangolamento? Tutti sapevano che quell’uomo era Garibaldi e tutti avevano un gran terrore di trovarsi compromessi con gli austriaci, e l’aiutarono a fuggire a scanso di guai. Ecco il rapporto redatto dopo la scoperta del corpo di Anita dal delegato pontificio Locatelli:

GOVERNO PONTIFICIO

DIREZIONE PROVINCIALE DI POLIZIA IN RAVENNA

Rinvenimento d’ignoto cadavere

Eccellenza Reverendissima! Mi reco a premuroso dovere di rassegnare rapporto a V. E. Rev. Sul rinvenimento d’ignoto cadavere.

Venerdì scorso, 10 corr., da alcuni ragazzetti in certe larghe, di proprietà Guiccioli alle Mandriole, in distanza di circa un miglio dal porto di Primaro, e di circa 11 miglia da Comacchio, fu trovato sporgere da una mota di sabbia [un terreno smosso, scavato da qualche animale] una mano umana. Presso la ricevuta notizia andette [sic] ieri la curia in luogo dove giunta fu osservata la detta mano in parte del corrispondente avambraccio che erano stati divorati da animali e dalla putrefazione. Fatta levare la sabbia che vi era per l’altezza di circa mezzo metro fu scoperto il cadavere di una femmina, dell’altezza di un metro e due terzi circa, dell’apparente età di 30 o 35 anni, alquanto complessa, i cappelli già staccati dalla cute, e sparsi fra la sabbia, erano di colore scuro, piuttosto lunghi, così detti alla puritana.

Fu osservato avere gli occhi sporgenti, e metà della lingua pure sporgente fra i denti, nonché la trachea rotta ed un segno circolare al collo, segni non equivoci di sofferto strangolamento. Né alcun’altra lesione fu osservata nella periferia del di lei corpo, fu veduto mancarle due denti molari alla mandibola superiore alla parte sinistra ed altro dente pur molare alla parte destra della mandibola inferiore. Sezionato il cadavere fa trovata gravida di un feto di circa sei mesi. Era vestita di camicia di cambrik bianco, di sottana simile, di bournous ugualmente di cambrik fondo paonazzo fiorato bianco, scalza nelle gambe e nei piedi, senza alcun ornamento alle dita, al collo, alle orecchie, tuttoché forate.

Li piedi mostravano d’essere di persona piuttosto civile e non di campagna, perché non callosi nelle piante. La massa delle persone accorso dalle Mandriole di Primaro, di S. Alberto e d’altri finitimi luoghi non seppero riconoscere il cadavere. Non si è potuto stabilire il colore della carnagione per essere il cadavere in putrefazione, nel qual caso non presenta il color naturale. Né si credette trasportarlo in più pubblico luogo per la ricognizione, atteso il gran fetore, per cui fu subito sotterrato anche per riguardo della pubblica salute. Tutto ciò conduce a credere che fosse il cadavere della moglie o donna che seguiva il Garibaldi, sì per le prevenzioni che si avevano del di lei sbarco da quelle parti, sì per lo stato di gravidanza.

Fin qui è oscuro come sia giunta quella donna in quei siti, e come sia rimasta vittima. Si stanno però praticando le opportune indagini, delle quali sarà mia premura sottomettere all’E. V. Rev. all’opportunità l’analogo risultato. Intanto con perfetta stima e rispetto ho l’onore di ripetermi di V. E. Rev.

Ravenna, 12 agosto 1849. Dev. obb. Serv. A. Locatelli, Delegato

Ricordando quei tristi momenti nelle Memorie, Garibaldi affermava che, prima della sua fuga, Anita era già morta e che aveva pregato «quella buona gente […] di darle sepoltura». Ecco le sue parole:

Il giorno era già avanzato quando salpammo da Cesenatico […].

S’io non fossi stato addolorato dalla situazione della mia Anita, che trovavasi in uno stato deplorabile, soffrendo immensamente, avrei potuto dire che superate tante difficoltà e sulla via di salvazione, la condizione nostra poteva chiamarsi fortunata; ma i patimenti della mia compagna erano troppo forti e più forte era tuttora il mio rammarico di non poter sollevarla […].

In un passo successivo aggiunse:

Nel posare la mia donna sul letto mi sembrò di scoprire sul suo volto l’espressione della morte. Le presi il polso… più non batteva! Avevo davanti a me la madre dei miei figli, ch’io tanto amava, cadavere! Essi mi chiede­ranno della loro genitrice al primo incontro! Io piansi amaramente la perdita della mia Anita! di colei che mi fu compagna inseparabile nelle più avventurose circostanze della mia vita! Raccomandai alla buona gente che mi circondava di dar sepoltura a quel cadavere, e mi allontanai, sollecitato dalla stessa gente di casa, ch’io compromettevo rimanendo più tempo».[1]


[1] Estratto da: VINCENZO GIANNONE, La Garibaldite, Aleliographic, Scafati 2020, pp. 175-181.

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