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La Notte dei Pugnalatori di Palermo

Posted by on Mar 30, 2023

La Notte dei Pugnalatori di Palermo

Nella notte del 1 ottobre del 1862, 13 persone sconosciute, in 11 luoghi diversi della città, vennero accoltellate contemporaneamente a Palermo

La Notte dei Pugnalatori è un fatto di cronaca che ha fatto scalpore nel giovanissimo Regno d’Italia. Ecco i fatti e le dicerie dell’epoca.

Il 1862 a Palermo era un anno particolare. Il neonato Regno d’Italia aveva già iniziato a svelare la sua vera natura ed il popolo, fino a poco tempo prima favorevole alla cacciata dei Borbone, adesso mostrava un diffuso malcontento per i duri metodi repressivi di uno stato straniero, che sfruttava la Sicilia come l’ennesima colonia e che puniva i suoi oppositori con pene crudeli ed esemplari.

In questo clima di forte incertezza sociale e politica, un atto di terrorismo, se vogliamo tradurlo in termini moderni, scosse enormemente il centro storico di Palermo. La notte del 2 Ottobre una squadriglia di pugnalatori ben organizzata e nel totale anonimato, iniziò a girare per i quartieri popolari del centro città armati di “scannabecchi”, dei comuni coltelli di campagna usati per la macellazione del bestiame. Le vittime di questa spedizione punitiva furono 13 comuni cittadini, che si erano trovati letteralmente nel posto sbagliato al momento sbagliato e il risultato fu una serie di accoltellamenti al ventre, che fortunatamente causò una sola vittima, per cui i soccorsi arrivarono troppo tardi.

Il piano era quasi perfetto, un colpo mirato letteralmente e metaforicamente alla pancia del popolo, per seminare paura e sfiducia. Tuttavia fu il caso a smontare questo castello, colpendo proprio il suo punto più debole.

Uno dei pugnalatori, tale Angelo D’Angelo, dopo aver accoltellato la sua vittima a piazza San Francesco, fu avvistato da alcuni poliziotti che si lanciarono subito al suo inseguimento. Tra di essi il più basso in grado, ma anche il più rapido e coraggioso, riuscì a tenere il passo svelto del pugnalatore, acciuffandolo in via Alloro, nei pressi dell’Hotel Patria, trovandogli addosso anche il coltello ancora sporco di sangue.
Come detto prima, il caso volle che proprio l’anello debole della catena venisse catturato, infatti lo stesso D’Angelo, un semplice lustrascarpe di 38 anni, si era rivolto alla polizia proprio pochi giorni prima chiedendo di essere trattenuto in prigione, per sottrarsi a delle pressioni e delle minacce che aveva ricevuto, tuttavia l’assenza di una qualsiasi accusa e l’intervento prepotente dei suoi fratelli, fecero sì che questi venisse subito rilasciato, prendendo così parte al piano da cui verosimilmente cercava di fuggire.
Ci vuole poco a capire che il coinvolgimento forzato del D’Angelo, unito ai metodi d’interrogazione della polizia dei tempi, fecero sì che la verità venisse presto a galla, scoperchiando una vasta rete di interessi politici, ben lontana dalla semplice bravata criminale alla quale si pensò all’inizio.

Si scoprì che tre reclutatori, gente comune, ma con una certa influenza tra il popolo, avevano avuto il compito di arruolare dei conoscenti disposti a seminare il panico in città, senza tuttavia uccidere nessuno. I pugnalatori (8 o 9 in totale) avrebbero ricevuto una lauta paga di 3 tarì al giorno, equivalente a circa un mese del loro normale stipendio.
L’indagine proseguì tra rivelazioni e sorprese sino ad arrivare al mandante, una figura troppo scomoda da accusare, Romualdo Trigona Principe di S. Elia, senatore del Re e figura di spicco della società palermitana.

Quando nel gennaio 1863 iniziò il processo, l’aula del tribunale era piana di gente, accorsa per conoscere i dettagli di quella storia e le sorti dei criminali. I tre reclutatori furono condannati a morte, i pugnalatori all’ergastolo e Angelo D’Angelo, tenuto separato dagli altri per paura di ritorsioni, ottenne uno sconto di pena grazie alla sua collaborazione e fu condannato a 20 anni di carcere. Tuttavia la storia di quest’ultimo finisce qui, dato che non si hanno più sue notizie da dopo il processo, e qualcuno addirittura afferma che D’Angelo non sia mai arrivato all’Ucciardone.

E per il mandante? Come detto prima il Principe di S. Elia non era una figura semplice da accusare, perché una sua condanna avrebbe scosso le fondamenta della società palermitana, e probabilmente anche del Regno dei Savoia, per cui le accuse a suo carico furono giudicate infondate e le colpe ricaddero genericamente sul partito filo-borbonico, nonostante la totale assenza di legami con i condannati.
Per tutta risposta la sera stessa del verdetto, il 13 gennaio, una nuova ondata di accoltellamenti colpì Palermo, ma pur di non ammettere una giustizia errata e parziale, la notizia fu presto insabbiata dalle autorità, tanto da non lasciarci altro che voci e dicerie.

Tra tutti i silenzi, i depistaggi e le iniquità della giustizia, il procuratore Giacosa, inviato direttamente dal Piemonte per gestire la spinosa questione siciliana, decise di svolgere delle indagini più approfondite, accertando un effettivo coinvolgimento di alte cariche pubbliche nella vicenda, tra cui proprio il Principe di S. Elia, tuttavia le sue indagini vennero continuamente ostacolate dalla mancata collaborazione di chi di dovere.
Quando Giacosa, infine, decise di sottoporre la questione direttamente al Ministro dell’Interno del Regno, il suo intervento fu tanto apprezzato da procurargli un’immediata promozione, che lo allontanava definitivamente dalla Sicilia per riportarlo in Piemonte, vicino ai suoi familiari.

La questione rimase insomma irrisolta, anche se il clima di terrore permise ai soldati del Regno di fare un po’ di pulizia tra gli oppositori ed i personaggi scomodi, grazie ad arresti, perquisizioni ed esecuzioni sommarie che culminarono con azioni sanguinose e rivolte, da cui la città di Palermo uscì moralmente distrutta e sottomessa, forse definitivamente.

fonte

https://www.palermoviva.it/la-notte-dei-pugnalatori-di-palermo/

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