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La scrittrice Isolde Kurz  e “Le notti di Fondi”

Posted by on Lug 11, 2024

La scrittrice Isolde Kurz  e “Le notti di Fondi”

   E’ la figlia di Hermann Kurz l’autrice del romanzo “Le notti di Fondi”, ambientato nella cittadina del basso Lazio, più nota del padre. , che, verso il 1930, quando aveva già superato  i settanta anni, ebbe con il romanzo “Vanadis” un momento di celebrità, anche fuori dalla Germania.

 Era la seconda figlia, venuta al mondo nel 1853, dopo il fratello Edgar, che, in qualità di medico presso la colonia tedesca di Firenze, precede Isolde di qualche mese nella dimora di Toscana.

 Nei suoi scritti autobiografici, tutti appassionati  e pieni di affetto (con la sya generosa, breve monografia, “Hermann Kurz, mein  Vater” (1901) non le riuscì  di rinverdire come sarebbe stato giusto, la fortuna letteraria del padre) Isolde ricordò, non senza  fierezza,che sua madre, Marie  von Brunnow,      una baltica, di  sangue principesco, dovette presentarsi, mentre era incinta di lei , al giudice istruttore di un tribunale, perché accusata di attività rivoluzionaria (pochi anni più tardi del 1848). Dopo la morte del padre, nel 1873, Isolde, aiutata  da Paul Heise, che le trovò, per qualche tempo, lavoro, a Monaco di Baviera, seguì, poco più che ventenne, il fratello Edgar a Firenze, dove, tranne qualche viaggio in Germania e uno in Grecia e le dimore estive di Forte dei Marmi, rimase ininterrottamente, per quarant’anni, fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Crediamo che sia stata la scrittrice, a nzi lo scrittore, in lingua tedesca che più a lungo di ogni altro abbia avuto dimora a Firenze. Isolde morì più che novantenne, aTubinga, nrl 1944.

Che cosa Isolde (alla cui attività letteraria si deve una quarantina di volumi, tra romanzi e novelle, poesie, rievocazioni storiche e di città e di paesaggi) ereditò dalla severità del padre e dalla vitalità, alle volte irruenta, della madre’? Isolde diventò, con quasi quarant’anni di vita a Firenze,una fiorentina? Riuscì ad assorbire in profondità i caratteri italiani?

   A quest’ultima domanda si può rispondere abbastanza facilmente, e senza scrupoli, in maniera negativa. Alla prima domanda si potrebbe obiettare maliziosamente che Isolde poco ebbe del tormento creativo del padre, di quello che chiamiamo “il dramma dell’onestà”, della passione vera e nascosta che Hermann ebbe per la grande arte, della sua nobile malinconia di non poter arrivare alle altezze geniali e che della personalità della madre con un’eco forse fin troppo vivace e costante, rimase nell’entusiasmo inesauribile della figlia per Firenze, per il sole, il clima, i fiori, soprattutto per le bellezze artistiche e storiche della città del giglio. Una certa vena sottile di vanità si insinuò in questa zitella, venuta giovanissima dal nord, del resto austera e rispettabilissima, ma un po’, come direbbero i tedeschi, “schrullig”, un poco stravagante e bisbetica.

   Se dicessimo così, e nient’altro, saremmo, a nostra volta, troppo severi e troppo maliziosi. Bisogna aggiungere che l’innamoramento di Isolde per Firenze, così visibile in tanti libri, romanzi e novelle, scritti di storia e di rievocazioni artistiche, ha dato molte pagine vive, specie nel volume “La città di vita” (“Die Stadt des Lebens”) uscito nel 1902, e che una parte dell’impegno serio del padre discese negli studi della figlia a Firenze, nella coscienziosa preparazione per capire e gustare le bellezze, la storia della città toscana.

   C’è un episodio che a noi sembra molto importante. Lo raccontò lei stessa. Nei primi tempi in cui era a Firenze e studiava alla  Biblioteca Nazionale fece conoscenza con un giovane tedesco, che si interessava, anche lui, della storia e delle bellezze  artistiche della medesima città e avrebbe voluto scrivere  una grande guida, con serietà di informazioni, sulla città di Dante, qualche cosa di simile a quanto il Burckart aveva fatto con il suo “Cicero” per Roma. Si misero a lavorare insieme, raccogliendo gran copia di notizie e di documenti. La collaborazione procedeva bene, ma il giovane tedesco, tornato in patria per passarvi l’estate, improvvisamente s’ammalò e morì.

   Rimasta sola nel suo lavoro, Isolde prese una decisione. Non avrebbe scritto la guida storico-artistica, ma avrebbe usato il materiale raccolto per comporre novelle d’ambiente fiorentino.

   E’ una confessione che dice molto. Non dunque un’esperienza diretta della vita fiorentina, della vita di tutti i giorni, di persone incontrate o conosciute, di casi visti con i propri occhi; ma un materiale storico-artistico d’altri tempi, chiamato a diventare novella o romanzo.

   Orbene, una sorta di diaframma libresco e non solo nei romanzi a carattere storico, in cui potrebbe  di sembrare naturale, ma anche in quelli moderni,rimane sempre nei libri narrativi di Isolde Kurz. Alle volte si tratta soltanto di un velo sottile e delicato, di nobile fattura, dotta ed equilibrata. Il velo, però, c’è.

   Si direbbe che Isolde Kurz non sia stata capace di penetrare nel carattere complesso dei fiorentini moderni, nella loro “verve” maliziosa, nel loro spirito spregiudicato e beffardo e, qualche volta, crudele.

   Isolde Kurz li vede ancora (eco, forse, dei suoi studi o del suo entusiasmo per l’arte) come i fiorentini del Quattrocento, con le loro qualità e i difetti di allora, al tempo del Savonarola e di Lorenzo il Magnifico. Forse Isolde Kurz rimase troppo chiusa nel cerchio delle sue conoscenze  di tedeschi e di stranieri a Firenze, non frequentando l’ambiente italiano della borghesia e del popolo, non mescolandosi con la vita delle strade e  dei mercati.

   Tanto è vero che le uniche volte in cui quella patina letteraria e culturale cade è quando Isolde Kurz mette nelle sue novelle, brevi o lunghe, figure di  donne di servizio: le sole persone forse che veramente conobbe e con le quali fu a contatto per tutte le ore del giorno. Figure di popolane viste con simpatia e, quel che più importa per l’arte, con acume, con comprensione.

   Non a caso le più belle novelle sono quelle che hanno a protagonista una donna di servizio. Ne ricorderemo almeno tre: “La nostra Carlotta” (“ Unsere Carlotta”, che è una novella di salda struttura, forse un poco troppo drammatica nella parte finale; “Pensa”, che prende il titolo dalla protagonista di questo nome, e soprattutto “Cora”, che è forse la creatura più gentile (non proprio donna di servizio questa, in verità) tra le figure femminili della Kurz, la quale in Italia non è stata fortunata, non solo perché la critica  l’ha completamente ignorata, ma anche per le traduzioni. Se non fosse stato uno dei pionieri della germanistica italiana, Carlo Fasola, direttore della “Rivista di letteratura tedesca”, amico a Firenze della famiglia Kurz, il quale tradusse un breve componimento narrativo, uno dei più giovanili, “Anni pestis”, niente di questa scrttrice  quasi fiorentina sarebbe apparso  nella nostra linga. Ebbene qualcuna delle novelle, in cui sono figure di popolane, potrebbe forse reggere al rischio di una traduzione italiana. Bisona , però, tener conto di un altro pregio di questa scrittrice: i paesaggi, il senso della campagna , in genere, quello della natura, sono vivi. Certe abetaie e pinete in scoscesa, certi prati isolati, certe coste pietrose e aride della campagna toscana, non lontana da Firenze,sono vive. Lo stare in villa è, in genere, riuscito a questa scrittrice più che lo stare in città, in mezzo alla realtà delle case e, ha giovato. E non parliamo solo dei dintorni, più o meno immediati di Firenze, ma anche della  Toscana, della Marina di Pisa.

   E soprattutto Forte dei Marmi. Pochi forse sanno una notizia curiosa: che lo scopritore di quella spiaggia, che ora è Forte dei Marmi e che allora  era solitaria e selvaggia, fu il medico Edgar, il figlio di Hermann e fratello si Isolde, che per primo, verso la fine dell’Ottocento, si innamorò  del luogo, facendosi costruire una casa. E poi venne la sorella e poi gli amici di Firenze: un cerchio di amici abbastanza vasto, quasi tutti tedeschi e stranieri.

   Meno persuadono il lettore di oggi i romanzi  propriamente detti: “Le notti di Fondi” e uno degli ultimi, il lungo e fortunato “Vanadis” (1931); oppure  le confessioni,  dal giovanile “Traumland” (“Paese di sogno”) alla lunghissima “Pilgerfahtrt nach dem Unerreichlichen” (“Pellegrinaggio verso l’irraggiungibile”), in cui c’è il compiacimento di ogni particolare della propria vita. Specie in questi scritti della vecchiaia, il romanzo “Vanalis” compreso, quella vena di nascosta vanità, a cui abbiamo accennato, l’alta considerazione di sé, un nobile orgoglio, si fanno avanti con  troppa insistenza, anche se saggiamente di tutto alla fine è compreso il fondo fatuo. Questi ingredienti diversi, in “Vanasdis” (la storia di una donna che ha tutto, ricchezze, gioielli, ville, vestiti, meno la propria  personalità di donna)  costituiscono una ricetta eccellente  per avere successo, ma si capisce come presto decadano, con la moda dei tempi.

   Meglio valgono le cose fiorentine e italiane: non solo “La città della vita”, di cui sono da ricordare specialmente le pagine intitolate “ Die stille Konegin”(“La regina silenziosa”, allora). Oggi Firenze è città rumorosa non meno delle altre, ma anche “ I ricordi fiorentini” (1909), nei quali sono celebrati parenti ed amici illustri, le “Novelle fiorentine”(1890) e pure i “Racconti italiani” (1895). Valgono più dei romanzi e delle poesie, nonostante i difetti inguaribili della Kurz: : una femminile sovrabbondanza di entusiasmi e di ripulse, una mancanza, perlomeno qualche volta fortunata, di un approfondimento vero negli sviluppi della narrazione e nelle figure, l’assenza di un estro sicuro…

   Però l’amore per Firenze, la descrizione di paesaggi e di ville della campagna toscana, la rappresentazione di alcuni tipi di popolane, sono cose vive e schiette in questa scrittrice tedesca, che visse per quasi quarant’anni nella città di Lorenao de’ Medici. I fiorentini farebbero bene a non dimenticarla.

Alfredo Saccoccio

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