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LA STORIA DI NAPOLI RACCONTATA DAI CANTI POPOLARI: “In galera lì panettieri”

Posted by on Ott 18, 2024

LA STORIA DI NAPOLI RACCONTATA DAI CANTI POPOLARI: “In galera lì panettieri”

I napoletani hanno da sempre cantato in ogni situazione, e non solo per raccontare l’amore, la bellezza, il dolore, la gioia, ma anche per vantare la merce che vendevano, per esprimere la loro devozione alla Madonna, per comunicare con i carcerati, e per commentare eventi storici, motteggiare un personaggio, rivendicare, protestare…

Ripercorrendo rapidamente la storia di Napoli, ci si accorge che dal XII secolo in poi, i canti scandiscono le epoche. E non è detto che, prima del suddetto periodo, non si sia cantato a Napoli: è solo che gli archivi prima di allora rimangono muti.

Il più antico canto del genere è indubbiamente quello delle “Lavandaie del Vomero” che, intonando Tu m’aje prummise quatte muccatora / oje muccatora, oje muccatora!, reclamano al regnante di turno le terre promesse (muccaturo, sta per fazzoletto, fazzoletto di terra). Il canto risale al XII-XIII secolo e si cantava ancora nel secolo XV, tant’è che molti scrivono che fosse diretto ad Alfonso d’Aragona. Agli inizi del ‘400, si commentava nelle strade l’assassinio di Gianni Caracciolo, il troppo potente amante della regina Giovanna II. Nel periodo vicereale, nonostante i divieti, le vie e viuzze echeggiavano di meravigliose villanelle ma anche di ritornelli satirici sulle avventure di Palazzo. E’ alla fine del ‘500 che risale “In galera li panettieri”, rielaborata da Roberto De Simone. Nacque a causa di una famosa serrata dei panettieri come risposta al mancato aumento del prezzo del pane da ‎ parte del Viceré, che si era opposto per paura di tumulti popolari:

In galera li panettieri
mò ca s’erano arreccuti
tutti s’erano resoluti
deventare cavalieri
in galera li panettieri
 Deventare cavalieri In galera li panettieri. Mò ca s’erano ingranduti

Nun vedevano li paput Ca turnavano comm”a ieri In galera li panettieri. Se credevano già baroni D’affamà la pupulazione Nun se devano penzieri In galera li panettieri. Oh che spasso che bellu sfizio Quanno venne la giustizia Ca diceva: “mò che ne spieri” Pave hoggi chello d’ajeri

In galera li panettieri.

Napoli ha una storia ricca di sommosse popolari, legate all’ingiusta distribuzione delle ricchezze e quindi alla miseria di una gran parte degli abitanti. La canzone (una Villanella) “In galera lì panettieri” risale addirittura al 1577, quando durante una carestia la folla si scagliò contro i fornai, accusandoli di speculare sul prezzo del pane. I panettieri vengono accusati di essersi voluti arricchire alle spalle della popolazione: si credevano già importanti come de nobili (“cavalieri” e “baroni”) quando, con grande soddisfazione dei poveri affamati, vennero arrestati.

Ma la descrizione di questa quasi ‎‎“rivolta del pane”, una delle tante accadute in Italia, dall’assalto ai forni milanesi del 1628, ‎descritto dal Manzoni ne “I promessi sposi”, alla “Strage del pane” a Palermo nel 1944, potrebbe ‎anche tranquillamente riferirsi proprio alla rivoluzione dei lazzari napoletani guidati da Masaniello ‎contro le gabelle spagnole e le imposte sui beni di prima necessità…‎

Alla fine del 500, in pieno vicereame spagnolo, l’amministrazione del potere in città era affidata agli eletti dei seggi nobili (con sei rappresentanti) e a quello del seggio popolare (un solo eletto). Il rapporto, dunque, era di cinque voti a uno, decisamente sbilanciato a favore dei nobili, che delle istanze popolari se ne fregavano allegramente. Nel 1585 la sciagurata decisione del viceré, il duca di Ossuna, di esportare il grano napoletano in Spagna, con il conseguente aumento del prezzo del pane, provocò una drammatica carestia che sfociò in una violenta insurrezione, la quale ebbe il suo culmine il 9 maggio con il linciaggio dell’Eletto del popolo, Giovanni Vincenzo Starace. Che in quell’occasione indossò i panni del perfetto caprio espiatorio.
Il poveretto, al termine di un’assemblea imposta da una moltitudine tumulante, fu giudicato colpevole per aver dato il suo assenso, con gli altri eletti della città, all’esportazione di grano. Ma sarebbe meglio dire per non essere riuscito a evitarla. Né riuscì ad evitare la «beffa del pane». Gli eletti dei seggi nobili, infatti, avevano decretato la riduzione del peso del pane (da 28 a 24 once) lasciando tuttavia inalterato il prezzo: 4 grane. A difesa di Starace bisogna dire che in quei giorni era bloccato a letto da una malattia debilitante. A ogni modo, pur malato e privo di forze, l’Eletto provò a mediare, ma non fece in tempo a far valere le sue ragioni. E pagò con la vita i suoi errori.
Un luogo, più di altri, ci riporta a quegli anni, a quel clima, a quell’insurrezione che precedette di sessant’anni la rivolta di Masaniello. Quel luogo è Sant’Agostino alla Zecca, dove si tenevano le adunate popolari e dove aveva sede il Seggio del Popolo. Qui l’Eletto Starace, che aveva cercato (senza riuscirci) di rimediare alla scellerata decisione del viceré, fu trascinato dalla folla inferocita e accusato pubblicamente di non aver tutelato gli interessi del popolo. Tra insulti, sputi e bestemmie, il capro espiatorio fu condotto alla gogna. Per sottrarsi al linciaggio cercò di nascondersi in una cappella della chiesa, ma fu raggiunto dai manifestanti più scalmanati, ferito con una stoccata al petto e rinchiuso, ancora vivo, in una tomba della cappella. Poi, agonizzante, fu tirato fuori dal sepolcro, portato di peso, ormai morente, in piazza della Sellaria (oggi Piazzetta Archivio di Stato, all’epoca uno dei quartieri più popolari della città) e finito a colpi di pietra. Infine fu squartato, mutilato del cuore, delle budella e definitivamente smembrato. I resti vennero sparsi per le vie della città. E tanti saluti al rappresentante del popolo.
L’uccisione di Starace fu carica di macabri rituali simbolici: «strascinamento», mutilazione ed evirazione del cadavere, ostentate minacce di cannibalismo, antropofagia, vendita della carne «cristiana» (vedi Rosario Villari, Un sogno di libertà). Il sangue di Starace chiamò altro sangue. Contro i panettieri, accusati più o meno subdolamente dalle autorità di speculare sulla carenza di grano, si scatenò la vendetta della plebe.

La rivolta del pane mostrò una notevole capacità di mobilitazione degli strati subalterni della popolazione. Il duca d’Ossuna stroncò l’insurrezione alla maniera sua (e della Corona di Spagna): con un bagno di sangue. Da un lato si rimangiò le disposizioni sul pane: anzi, fece importare farina. Dall’altro, per vendicare l’Eletto del Popolo, organizzò una delle più terribili cacce all’uomo della storia del vicereame. Le vittime furono decapitate e i loro corpi dilaniati come quello del povero Starace. Mani e teste mozzate, a futura memoria, furono appese in una gabbia di ferro alla Sellaria, dove abitava l’Eletto. Il duca d’Ossuna, un viceré megalomane e sanguinario, sarebbe passato alla storia per aver completato il restauro del famoso acquedotto della Bolla. Tolse il pane ai napoletani, ma non gli fece mancare loro l’acqua. Un anno dopo il massacro, fu sostituito dal conte di Miranda Juan de Zunica.
Il martirio dell’Eletto Starace è ricordato oggi da una strada che porta il suo nome: via Eletto Starace, appunto. È la traversa che dal numero 128 del corso Umberto conduce, dopo una breve rampa di scale, in via Ferri Vecchi e in via Lucrezia d’Alagno, nei pressi della fontana della Sellaria. È la strada attraverso la quale l’uomo del popolo fu condotto al martirio. Piazza della Sellaria e Sant’Agostino alla Zecca erano a quei tempi tra le zone più popolari dela città. La Sellaria, oggi piazzetta Archivio di Stato, è stata fino alla metà del 400 sede del Seggio del Popolo. Quando il Seggio fu abbattuto la sede fu trasferita proprio a Sant’Agostino alla Zecca.
La chiesa di Sant’Agostino alla Zecca, teatro del supplizio dell’Eletto Starace, fu chiamata così perché, nel 1681, vi fu edificato accanto l’edificio della Zecca. In tempi remoti in questa zona della vecchia Napoli, fuori porta Forcellese, era stato eretto un cenobio di suore benedettine. Carlo I d’Angiò, che ampliò la città portandone le mura fino a piazza Mercato, aveva talmente a cuore il benessere delle nobildonne napoletane in ritiro nel vecchio cenobio da far ampliare il convento, dotandolo di ricche rendite.
A Napoli c’è un vicoletto che, più di altri, ricorda l’antica e nobile categoria dei panettieri. Si snoda parallelamente a via Duomo, inerpicandosi da via San Biagio dei Librai a piazza Girolamini. È il «vico nero» che «non finisce mai» e che ispirò il celebre brano Carmela, frutto del sodalizio tra due geni, il poeta Salvatore Palomba e il maestro Sergio Bruni. Vico Panettieri è chiamato così fin dal XIV secolo per la presenza, nelle vicinanze, di numerosi forni pubblici. Vi sorgeva il Conservatorio dei poveri di Gesù Cristo, poi divenuto seminario arcivescovile. Attualmente ospita le suore di Madre Teresa di Calcutta, che da anni mettono a disposizione i locali dell’antico convento, a due passi dalla chiesa dei Girolamini, per accogliere chi non riesce a garantirsi neanche un pasto al giorno.

Giovan Vincenzo Starace era un ricco figlio di commerciante di drappi e seta, forse nativo di Piano di Sorrento, che nel 1576, fu nominato, grazie alle sue fortune personali, “eletto del Popolo napoletano” governandolo per due anni; rieletto poi nel 1583, per la sua insaziabile ambizione e dall’ansia di nobilitazione, cominciò a firmarsi come “Storace” per mascherare le sue origini “borghesi”. Altezzoso e tronfio, passò alla storia non per essere riuscito a nobilitare la sua “casata” facendo sposare il figlio Marzio con la nobile Diana d’Afflitto tant’è che il nome dei loro discendenti divenne, appunto, Storace d’Afflitto, ma per la drammatica rivolta popolare del maggio del 1585 causata dalla penuria di grano a Napoli a seguito della spedizione in Spagna da parte del Vicerè Pedro Girón duca d’Osuna, su richiesta del Re Filippo II, di 400.000 tomoli di grano che avrebbe dovuto porre fine ad una terribile carestia che stava mettendo in ginocchio l’intera Spagna. Per fronteggiare il problema che questa infausta decisione creò a Napoli, in una riunione del Parlamento dei Sedili i cinque Deputati dei Seggi nobiliari proposero di diminuire il peso di vendita del pane, con aumento del prezzo. Due delegati del Popolo, in sostituzione di Starace assente per malattia, si opposero a questa assurda proposta e la decisione pertanto fu rinviata. Incominciò a serpeggiare in Città, una protesta nei confronti di Starace, ritenuto, ingiustamente, fautore della proposta, solo perché “uomo di molto ricapito, ricco, buon parlatore, bianco e pieno di carne”. Per arginare queste calunnie, Starace convocò per il giorno seguente un’assemblea del Popolo, invitando i rappresentanti ufficiali: 29 capitani del popolo e 10 consultori, oltre altri due delegati per ogni ottina (quartiere). Nel frattempo si diffuse la voce in Città che non c’era più pane ed a questa assemblea si presentarono migliaia di popolani del ceto “basso” inferociti che iniziarono ad insultare ed a cercare di aggredire fisicamente Starace che, invano, cercò di calmare la folla giurando che non aveva mai detto di voler aumentare il prezzo del pane, né di volerne diminuire il peso per mandare il grano in Spagna! Sciolse pertanto l’assemblea e propose di recarsi in delegazione, il giorno dopo, dal Vicerè per manifestargli la volontà popolare. Forse perchè il luogo era più vicino al Palazzo Vicereale, fu scelto di riunirsi a Santa Maria La Nova; era il 9 maggio ma la moltitudine che si presentò era impressionante! Starace era arrivato su una sedia (perché sofferente di gotta), portata a mo’ di portantina da due uomini. Questa scena indispettì ulteriormente la folla che incominciò ad urlare che il Parlamento dove il Popolo era uso riunirsi era a Sant’Agostino alla Zecca e non un altro! Starace rispose che non si stava facendo “Parlamento” ma la folla allora lo sollevò di peso sulla sedia, portandolo a S. Agostino «sospeso con le spalle voltate, senza baretta» ed Il trasportarlo così, di spalle, rispetto alla direzione di marcia e senza berretto, simboleggiava dispregio e negazione dell’autorità. Il corteo si gonfiava sempre di più di esagitati che, al grido di Serra! Serra! insultavano l’Eletto e gli lanciavano sul viso ogni genere di sporcizia. Giunti a Sant’Agostino, Starace tentò di mettersi al sicuro in una cappella ma fu raggiunto alla fronte da un mattone; si buttò allora in una sepoltura ma fu tirato fuori a viva forza. Due gendarmi accorsi per aiutarlo, furono scacciati con minacce ed armi improvvisate. A Starace fu messo un cappio al collo e trascinato a faccia per terra per le vie della Città, venne smembrato e fatto a pezzi mentre il tumulto della prima ora ormai era diventata una vera e propria rivolta che infiammò tutta la Città. La folla con il cadavere smembrato dell’Eletto Starace giunse a Palazzo e dopo due giri intorno al Palazzo, gli tagliarono, infine, la testa buttandola ai piedi del Vicerè gridando : “ecco il malgoverno”! il duca d’Osuna, rispose: “Viva il Re” ma il popolo reclamò il pane!”. La rivolta si era ormai diffusa in tutta la Città.

Alcuni popolani saccheggiarono la casa di Starace fino a sera. La rivolta continuò per settimane e cominciarono a vedersi cartelli che incitavano a sollevarsi in armi per il giorno di San Giovanni. La protesta infine si placò grazie anche all’intercessione di un sacerdote teatino, Lancillotto Avellino (conosciuto poi come Sant’Andrea Avellino) che organizzò una solenne processione penitenziale che durò tutta una notte, passando per tutte le chiese cittadine, compresa la Cattedrale, dopo aver distribuito ai poveri, il poco pane che c’era nel convento. Ma Il regime, spaventato per possibili nuove ribellioni, mentre nelle Fiandre un’analoga rivolta già aveva messo in crisi il Governo vicereale, reagì nella maniera più dura; oltre ottocento processi; esecuzioni capitali di massa, centinaia di torturati e condannati alle galere o all’esilio; la casa del principale capo della rivolta, il capitano del Popolo, Giovan Leonardo Pisano che era riuscito a fuggire, fu rasa al suolo ed i ruderi furono cosparsi di sale! Fu innalzato, al suo posto, un macabro monumento con delle nicchie dove vennero esposte, per diversi mesi, 24 teste mozzate di altrettanti condannati per ribellione.
Di quel tragico monumento, ci resta una stampa coeva ed a memoria della estrema crudeltà umana, una targa in una piccola via, intitolata ad un Eletto che il suo stesso popolo elettore odiò fino alla morte. Pochi, passando per quella strada, conoscono questa storia vera e non sanno cosa possa significare la denominazione “Eletto Starace”.

https://unpopolodistrutto.com/page/2

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