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La storia scomparsa

Posted by on Ott 29, 2022

La storia scomparsa

Uomini e fatti di un’Italia da non dimenticare! Stemma araldico “Minerva di Mormanno”

Torino, 24.04.2006 – Premessa. Accogliamo, onorati e con un pizzico di orgoglio, Alberto Maria Minerva, Conte di Mormanno, con un articolo già pubblicato sul Periodico “Europa Reale”, ma aggiornato per questa occasione con commento e nuove interessanti notizie relative alla figura e alle vicende storiche del suo avo Francesco Minerva.

Alberto è nato e vive a Torino, mentre il suo predecessore Francesco, appartenente all’illustre famiglia Minerva di Canosa, cittadina il cui territorio, dal punto di vista storico-etnonologico è da considerarsi come facente parte dell’odierna Capitanata, è nato l’8/10/1831 e ivi morì il 10/2/1913.
Con questa testimonianza, a dir poco emozionante, Alberto ci fa rivivere le vicende appassionanti del suo bisnonno Francesco, un autentico pezzo di storia della sua e della nostra terra, un uomo che seppe tenere alto con orgoglio e dignità la fedeltà al suo Re S.M. Francesco II e alla sua Nazione, il Regno delle Due Sicilie. Non è poco per un popolo come quello meridionale, che a distanza di quasi 150 anni dall’occupazione sembra ancora oggi essere “sbandato” e che non solo non ha mai conosciuto la sua vera storia, ma ha anche smarrito quella dignità e quell’orgoglio di cui Francesco Minerva ne è un fulgido esempio.

E. Gemminni

In questa sede esamineremo, di volta in volta, le verità nascoste sul cosiddetto mito del “Risorgimento”, mistificazione storica voluta e creata dai Savoia per legittimare il nuovo Regno d’Italia, costruito sul tradimento e sul fratricidio (Leggi nota 1 a fondo pagina), basato sull’usurpazione degli Stati Sovrani preesistenti, annessi con la tecnica di un falso plebiscito oppure invasi ed occupati militarmente, senza alcun diritto, sobillando le popolazioni affinché con la ribellione coadiuvassero le truppe d’occupazione a destituire i legittimi sovrani (Leggi nota 2 a fondo pagina). Questo regno, mantenuto poi con la repressione più dura e con il genocidio d’intere popolazioni, come avvenne a Bronte, giunse al suo massimo aberrante culmine con l’aggressione alla Chiesa Cattolica Romana (Leggi nota 3 a fondo pagina), sia per mezzo dell’espropriazione dei beni dei religiosi, sia “dulcis in fundo” con la presa di Roma da parte delle truppe sedicenti italiane, ma in realtà composte di regolari piemontesi e da mercenari paramilitari come i garibaldini, animati solo dall’amor per la razzia ed i massacri, il cui vero credo era quello “massonico”, ed alla cui setta persino il Cavour e lo stesso Re, Vittorio Emanuele II, facevano parte. Unico intento, da parte dei cosiddetti “eroi”, fautori della tanto anelata Unità d’Italia, fu la spoliazione sistematica delle ricche terre degli altri Stati Italiani, conquistate con ogni stratagemma possibile ed impossibile da un piccolo stato da sempre in fermento d’espansione: il Piemonte, o meglio il Regno di Sardegna, una realtà sull’orlo della crisi economica ed alla vigilia della nuova era industriale e tecnologica, che già nell’alleata ed amica massonica Inghilterra aveva fornito prova di fiorenti guadagni e sproporzionata sperequazione economico-sociale tra le due classi che si venivano a delineare. Infatti, una nobiltà borghesizzata, che andava spogliandosi dei nobili princìpi del suo rango per mischiarsi ad una borghesia arrivista e priva di scrupoli, da una parte, ed una classe umile, sfruttata e ridotta ad un’esistenza miserrima, dall’altra, daranno vita a quella contrapposizione che sarà poi il fermento del germe del socialismo e del comunismo, reazione inevitabile prodotta dalla macchina del “capitalismo”.
La vicenda di questo numero è dedicata ad un Regno, che è stato proditoriamente attaccato senza una formale dichiarazione di guerra da parte del Regno di Sardegna e che, dopo una strenue ed eroica difesa, cessò di esistere con la caduta della fortezza di Gaeta il 15 febbraio 1861: questo era il cattolico Regno delle Due Sicilie; ma è anche dedicata ad un grande Re, che ha saputo amare talmente tanto il suo popolo da essere ancora oggi, a distanza di più di cent’anni dalla sua morte, ricordato e amato dal suo popolo (Leggi nota 4 a fondo pagina): questo vero Re fu Francesco II di Borbone.
Infine questa storia è dedicata ad un suo fedele suddito, Don Francesco Minerva, Nobile del Sacro Romano Impero e primo Conte di Mormanno, che non cessò mai di sperare nel ritorno del suo Re e che non volle mai riconoscere il nuovo Regno, quello d’Italia, né mai farsi riconoscere, da quegli usurpatori regnanti, quale il legittimo Conte di Mormanno.

Questa nomina, ricevuta a Gaeta il 10 Febbraio 1861, “per averCi prontamente palesato il tradimento del 15° Battaglione dei Cacciatori, e per mostrargli il conto in cui teniamo i suoi sentimenti di attaccamento alla Nostra Real Persona” come sta scritto nel Decreto firmato da Francesco II quando, con un ultimo disperato gesto d’amore e di riconoscenza per chi lo aveva seguito fino alla fine, così decise “abbiamo determinato di nominarlo, come con il presente lo nominiamo Conte di Mormanno, titolo che accordiamo a lui ed ai suoi posteri, figliuoli e discendenti, per continua linea retta mascolina in infinito, senza oneri, per Nostra insindacabile e Reale Volontà”, da anni giaceva impolverata in una cornice, quasi dimenticata, in un angolo di Palazzo Minerva, a Canosa di Puglia, la settecentesca dimora storica dell’antica nobile famiglia, attuale residenza di S.E. l’Arcivescovo Francesco Minerva, Assistente al Soglio Pontificio, novantanovenne cugino primo dell’anziano padre del narratore.

Insieme a questa nomina, in un baule di quelli in cui ci si aspetta sicuramente di trovare un tesoro chissà quando dimenticato, un mazzo di documenti storici della Famiglia, fra i quali il testamento di Francesco Minerva, primo Conte di Mormanno, in cui compaiono le seguenti parole: “Non volli mai depositare, né registrare in uno Stato che non riconosco, codesta mia nomina che, dal triste dì del Suo ingiusto esilio, invano sperando nel di Lui ritorno, lasciai giacere tra queste carte, dove unisco queste mie brevi memorie e volontà, confermando la mia fedeltà alla Casa Reale di Borbone e la mia ostilità a questo Regno italiano ed alla famiglia regnante ancora oggi usurpatrice. Dopo aver vissuto una vita con onore e lealtà, fedele al mio Re, non posso sperare che tu, Giuseppe, mio erede, mantenga fede al giuramento che ci lega alla Reale Casa di Borbone, e così pure esorto te, mio diletto figlio Ottorino, quale mio secondogenito a vigilare che ciò avvenga, perché si continui ad onorare la di Lui memoria, e la mia, evitando di sottomettervi ad un Re invasore.”
Inutile affermare che mai nessuno dei suoi discendenti ha disonorato la sua memoria, tant’è vero che la nomina fu dimenticata fra le carte del passato e il relativo il titolo di Conte di Mormanno fu mantenuto solo nel ricordo del racconto tramandato di padre in figlio, perdendo, ad ogni volta, particolari e dettagli sulla storica vicenda; poi venne la Repubblica e con essa la scomparsa dei titoli nobiliari, o almeno l’annullamento delle prerogative ad essi legate ed il non riconoscimento di tali titoli da parte dello Stato.
La storia stava ormai scomparendo dalla memoria, così come i ricordi che si accavallano e si confondono finiscono per scomparire anche dalla mente del vecchio padre Francesco, penultimo Conte di Mormanno; quando, d’improvviso, si riaccende la fiamma, attizzata da una polemica sull’autenticità e sul diritto a fregiarsi di tale titolo e, in seguito, alla richiesta di ammissione al Sovrano Militare Ordine di Malta nella categoria di Grazia e Devozione del Terzo Ceto, da parte dello scrivente.
Parte così la ricerca: si vanno a riscoprire le vecchie carte, che vengono risvegliate dal loro sonno centenario, esaminate studiate e catalogate; incominciano le ricerche dei riscontri storici, da abbinare ai brandelli di memoria rimasti; affiorano, una ad una, le testimonianze dell’eroica vicenda, sepolta viva, se così possiamo dire, all’epoca dell’accaduto, onde evitare agli eroici Piemontesi, conquistatori di Gaeta e fautori del Regno d’Italia, di dover ammettere che la vittoria era stata ottenuta con il tradimento e con l’inganno.
Ma vediamo di narrare brevemente cos’era avvenuto, in quei giorni del lontano 1861, a Gaeta, lasciando che a parlare sia un testimone dell’epoca, Teodoro Salzillo (Leggi nota 5 a fondo pagina).
“Varcati da Cialdini i limiti del Regno, a fianco del suo Re, che, non chiamato dalle altrui grida lamentevoli, ma spinto soltanto dall’ambizione, si recava ad infelicitare, e non a liberare i popoli del Mezzogiorno. Traditi e non vinti, meno di tre mila uomini, gli contrastarono il passo al Macerone con tutta la quarta Brigata piemontese che ascendeva a 22.000 uomini.
Favorito dalla ritirata delle regie truppe, che da Presenzano si diressero alla destra del ponte del Garigliano; e da qui sloggiate, con le artiglierie dei legni da mare, si avvicinò a Gaeta il giorno cinque Novembre, spingendo gli avamposti fino alla Cappella Conca, mentre la squadra Sarda rimaneva ancorata innanzi a Mola.
Queste posizioni fino al giorno dieci non furono alterate, ma il dì seguente, alle quattro pomeridiane, alcuni battaglioni nemici avanzarono all’improvviso verso gli avamposti del presidio, che erano sul Colle dei Cappuccini, sul Colle Atratina, sul Lombone, sul monte S. Agata, ed a Torre Viola; e attaccarono, costringendo i regi a retrocedere: ma i cacciatori del presidio si slanciarono sul nemico con tanta energia, che non permise loro di prendere posizione, meno che sul Lombone, in cui quella del 14° cacciatori fu occupata dai Piemontesi, che, nel giorno 12, vennero di bel nuovo scacciati con una brillante azione dello stesso 14°, guidato dal Capitano Orlando.

All’alba del giorno 12 poi, il nemico, riconcentrate le forze, si diresse contro l’ala sinistra, ed impegnò su tutta la linea, un vivo fuoco, meno che verso l’estremo della destra. Alle due pomeridiane dello stesso giorno, urtando anche quest’ultima, Pianell, che la difendeva col 15° cacciatori, si dette al nemico, facendo fare prigioniero tutto il battaglione, previo anteriori accordi (Leggi nota 6 a fondo pagina), e per questo, i regi sopraffatti dalle forze, furono costretti ad abbandonare la posizione, dopo un sanguinoso combattimento. Al declinare dello stesso giorno fu trovata una lettera dell’aiutante di Pianell, diretta al colonnello Nunziante, cui premurava seguire il suo esempio con l’8° cacciatori; per la qual cosa il Nunziante fu sottoposto a Consiglio di Guerra come reo di fellonia.” (Leggi nota 7 a fondo pagina).
Un agente dei servizi segreti borbonici aveva individuato per tempo la stranezza del comportamento del Pianell, anche grazie alle informazioni ricevute dallo stesso capitano Quintavalle, e, avendone sospettato il tradimento, aveva prontamente messo al corrente del fatto S.M. il Re Francesco II, palesandogli quello stesso tradimento del quale il Re, forse per troppa fiducia nei confronti dell’ufficiale che a breve si sarebbe macchiato dell’infame gesto, forse chissà per quale altro motivo, questo non lo sapremo mai, troppo tardi, si trovò a prenderne atto.
Il 10 Febbraio, quando si rese conto che tutto sarebbe finito, a pochi giorni da una resa già ormai da egli stesso stabilita, Francesco II volle, tuttavia, ricompensare quell’agente che lo aveva seguito fedelmente fino alla fine e che lo aveva servito con lealtà e bravura, segnalandogli prontamente quel tradimento.

Ma ritorniamo ora alla nostra vicenda: il possesso del documento originale di nomina a Conte di Mormanno, come delle parole del di lui testamento, non costituivano prova certa della veridicità dell’accaduto, anche perché del fatto quasi nulla si sapeva o si riusciva a trovare e, soprattutto, non esisteva nessuna documentazione probante relativa alla effettiva esistenza del Nobile Francesco Minerva tra i nominativi delle persone presenti all’assedio di Gaeta, né il suo nome figurava tra i ruoli degli ufficiali borbonici. Era necessario, almeno, avere un riscontro di codesta nomina e si pensò di andare a ricercarlo all’Archivio di Stato di Napoli, nel Fondo Borbone, tra le carte del Re Francesco II a Gaeta, nelle poche pagine dove si elencano le nomine conferite sul campo. Non appariva nessuna nomina a Conte di Mormanno e nemmeno il nome di Francesco Minerva tra i beneficiati.
Il sospetto avanzato dagli esaminatori della questione fu di una mistificazione d’epoca, effettuata non si sa da chi e ai danni di chi, o a favore di chi; giacché però tale documento di nomina non era mai stato prodotto ufficialmente, e nemmeno rivendicato nel corso dei cento quaranta anni che lo hanno visto giacere, privo di significato e di valore, nella dimora storica della Famiglia Minerva, l’ipotesi della falsificazione storica d’epoca venne così a decadere, non essendoci stato né un utilizzo e quindi neanche un eventuale probabile profitto.
Per giungere ad una soluzione o per avere qualche ulteriore possibilità di capirne qualcosa di più su tale vicenda lacunosa, ormai divenuta quasi un “giallo” da best-seller, quale ultima ratio, fu affidato l’incarico allo Studio Legale Nobiliare Guelfi Camajani, con il preciso compito di andare a verificare la presenza di un qualsiasi probante riscontro fosse venuto alla luce, esaminando tutti gli Archivi di Stato, partendo chiaramente da quello di Napoli.
L’operazione, all’inizio infruttuosa, dopo alcuni mesi di ricerche, rivelò un’inaspettata sorpresa, proprio nell’Archivio dove meno si poteva supporre potesse esistere qualche informazione, Torino, ma che poi, leggendo il carteggio individuato, rivelò finalmente tutta la storia, dimostrando inconfutabilmente la veridicità del documento di nomina, ma portando anche a conoscenza di un particolare che mai nessuno, neanche all’interno dei membri della Famiglia Minerva, si conosceva.
Francesco Minerva, Nobile del Sacro Romano Impero, fedele suddito di S.M. Francesco II di Borbone, che nel suo testamento aveva sempre ribadito l’amore per il suo Re, non aveva però rivelato mai un particolare importantissimo: quell’«agente per conto di S.M.», che aveva smascherato per primo il tradimento del Pianell, era lui.
Del tradimento del 15° cacciatori non si trova quasi nulla; gli unici testi che rapidamente accennano, dando poca importanza all’evento e con poche righe, sono usciti solo da pochi anni (Leggi nota 8 a fondo pagina): come mai questo? Forse a tutti faceva comodo tener nascosto quell’ennesimo tradimento di cui è costellata la vittoria dei Piemontesi sul tanto schernito esercito di Franceschiello, perché è evidente che una vittoria così tanto enfatizzata ed esaltata non sarebbe stata la stessa se ottenuta col disonore.
Nel carteggio relativo, che si trova tra l’altro nella sezione “Materie Politiche per Rapporto all’Estero, (servizi segreti), – Corti Estere, Due Sicilie Mazzo I, non inv. 1358-1861, si fa anche esplicito riferimento, in una documentazione epistolare, allegata alle altre carte, dei motivi per cui la vicenda fosse stata occultata e tutti gli elementi rintracciabili, in loco, eliminati: la sua stessa vita era in gioco, in quanto agente e ricercato dagli “italiani”; qualcuno, forse molto in alto ed in Piemonte, gli aveva salvato la pelle: uno scambio di favori tra agenti segreti oppure una passata amicizia da prima della guerra? Questo non lo sapremo, forse, mai come non sappiamo chi sia il ricevente dell’intero carteggio, le cui iniziali sono scritte sul retro della lettera: E.S.C. (forse Eugenio di Savoia Carignano?).Alberto Maria Minerva di Mormanno

(Nota 1) Il Generale Cialdini agli occhi della moderna visione storica verrebbe sicuramente considerato un criminale di guerra per gli innumerevoli delitti contro la popolazione e l’esercito nemico, capziosamente considerati traditori in quanto considerati italiani e non sudditi del caduto Regno delle Due Sicilie. In aggiunta va considerata la deportazione dei prigionieri di guerra, per più di dieci anni, fatti morire di stenti e di malattie nei campi di concentramento di Fenestrelle e S. Maurizio Canadese.
(Nota 2) Infatti, Garibaldi, sfruttando in maniera politica la preesistente Società dei Beati Paoli, nata per far giustizia tra i proprietari terrieri e la manodopera, in una realtà agricola arcaica, dando a questa un’importanza politico-militare, di fatto, ne trasforma la struttura da antica società segreta a moderna “mafia”, i cui volontari locali, i “picciotti”, ne erano la bassa manovalanza.
(Nota 3) Primo dovere di un nobile nell’Ancien Régime era quello di difendere Santa Romana Chiesa: ma gran parte della nobiltà del Regno di Sardegna preferì confluire nelle file massoniche e disconoscere, anche se non apertamente, ma, di fatto, con il loro operato o anche solo con il loro consenso le ignobili vessazioni a cui vennero sottoposti i religiosi sotto il “nuovo regno”, vedi Leggi Siccardi: abolizione del Foro Ecclesiastico e confisca dei beni della Chiesa.
(Nota 4) A tal proposito si può prendere come dato di fatto l’accoglienza tributata dai napoletani ai Savoia per il loro “rientro” in Italia, tra fischi, fumogeni e bottiglie di acqua minerale scagliate su di loro e sullo sparuto gruppo di sostenitori, in una Napoli adornata, per l’occasione, di sventolanti bandiere borboniche bianco-gigliate.
(Nota 5) Teodoro Salzillo, molisano di Venafro, appartiene a quel gruppo di intellettuali meridionali che si schierarono a difesa della monarchia borbonica nell’ora di quelle complesse e tragiche vicende che conclusero l’esistenza dello Stato del Sud. Pagò la fedeltà con l’esilio e la persecuzione ad opera dei nuovi governanti italiani.
(Nota 6) Errico Pianell era al comando del 15° battaglione Cacciatori, messo a guardia nel borgo di Gaeta, quando con il pretesto di scambiare dei prigionieri si accordò con il generale Cialdini per farsi accerchiare dai Piemontesi ed arrendersi. Il capitano Gabriele Quintavalle si accorse del tradimento riuscendo a sottrarsi all’accerchiamento. Questi accordi anteriori, fatti con Cialdini, li può testimoniare l’onorato capitano Quintavalle, comandante la settima compagnia, al quale non sfuggì nessun movimento del colonnello Pianell.
(Nota 7) Teodoro Salzillo, 1860-61 L’assedio di Gaeta, Ed. Controcorrente, Napoli 2000, pp. 77,78,79.

fonte

https://www.adsic.it/2008/05/01/la-storia-scomparsa/#more-1868

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