Alta Terra di Lavoro

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LA VERA STORIA E IL MARTIRIO DEL PICCOLO RE DI FRANCIA LUIGI XVII

Posted by on Ott 29, 2023

LA VERA STORIA E IL MARTIRIO DEL PICCOLO RE DI FRANCIA LUIGI XVII

Luigi Carlo di Francia nacque a Versailles il 27 marzo 1785, la sera di una radiosa domenica di Pasqua. Il Conte di Provenza, fratello del Re, gli fu padrino di battesimo. Investito del titolo di Duca di Normandia, terzogenito del Re suo padre (trentunenne e detto allora Luigi il Vittorioso) egli seguiva a una sorella, Maria Teresa Carlotta (Madame Royale) e a un fratello, Luigi, entrambi maggiori di lui, rispettivamente di cinque e quattro anni. La felicità della Regina, Maria Antonietta, era così completa.

Il piccolo Prìncipe era, stando ai suoi ritratti, di bell’aspetto, la fronte alta e spaziosa, le sopracciglia lievemente arcuate, i grandi occhi azzurri e dolci; boccoli biondo-castani incorniciavano il suo ovale perfetto; un naso Asburgo, una bocca finemente disegnata e messa in rilievo dalla fossetta sul mento.

Di portamento fine, egli aveva un carattere gaio e vivace; violento, ma anche tenero e amorevole. A causa del suo grande amor proprio difficilmente chiedeva scusa; tuttavia non persisteva nei suoi errori, obbedendo anche al minimo cenno di sua madre.

Così lo ritraeva Maria Antonietta, all’età di quattro anni, nel 1789 “fedele, ma indiscreto; il suo difetto più grave è di ripetere facilmente quel che gli altri dicono, spesso aggiungendovi, senza per questo voler mentire, ciò che la sua immaginazione gli suggerisce”.

Un giorno, a Bagatelle, si gettò dentro un cespuglio di rose e, ai rimproveri di Hue, il suo servitore, con grande prontezza di riflessi rispose: “Sono le vie spinose che menano alla gloria”. In un piccolo giardino, che il padre gli aveva concesso, posto sulla terrazza del castello, a Versailles, egli coltivava i “suoi fiori”: sua gioia più grande era di regalarli alla Regina, sua madre.

LA RIVOLUZIONE

Il 4 giugno 1789, mentre stanno per aprirsi gli Stati Generali, muore il fratello maggiore, affetto da tubercolosi ossea. Luigi Carlo, Duca di Normandia, diventa Delfino di Francia. Nell’età dei giochi e della spensieratezza entra così nella bufera. Il mattino del 6 ottobre 1789 viene svegliato di soprassalto e vestito in tutta fretta dalla sua governante, Madame de Tourzel. Sopraggiunge il Re, preceduto da una guardia del corpo sanguinante: si accerta delle condizioni del figlio, lo prende in braccio ed esce di palazzo attraverso un corridoio segreto. Fuori però la carrozza reale è circondata da una folla urlante.

Delle megere, messe a cavalcioni sui cannoni, cantano oscenità contro sua madre. Sotto gli occhi del piccolo Prìncipe, issate su picche, vengono agitate le teste di Varicourt e Deshuttes, le guardie del corpo cui egli era molto affezionato. “Mamma, è tutto molto brutto qui”, così le dice, ritrovandola alle Tuileries. “Vedo bene che ci sono persone cattive che fanno del male a papà.

Rimpiango le nostre buone guardie del corpo a cui volevo tanto bene, assai più di questa gente di cui non m’inquieto affatto”. Quella gente sono le guardie nazionali del Signor de La Fayette.

Alcuni fanciulli di Parigi hanno intanto costituito un reggimento Real Delfino: inquadrati da ufficiali della Guardia Nazionale, essi sfilano in parata nella loro divisa di guardie francesi e con la propria fanfara innanzi al Delfino, nominatone colonnello d’onore, il quale, in uniforme e fingendo una piccola spada, li passa in rassegna. Ma l’illusione è di breve durata. La notte del 21 giugno 1791, la notte della fuga di Varennes, la Regina sveglia il fanciullo: “Dovete recarvi ad un presidio militare ove comanderete il vostro reggimento”. “Presto, presto, sbrighiamoci”, le risponde il Delfino. “Datemi la mia sciabola, i miei stivali e partiamo!” Passa un anno: il 20 giugno 1792 i sanculotti sbraitanti di Santerre invadono la Reggia delle Tuileries, sfilano innanzi al Re e, dopo aver forzato le porte, anche davanti alla Regina, insultandola. Al Delfino viene posto in capo il rosso berretto frigio. Qualcuno evoca la notte di San Bartolomeo. “A che proposito? Qui non c’è un Carlo IX”, commenta un uomo lì dappresso. “Né una Caterina de’ Medici”, aggiunge il fanciullo settenne. Anche in questi giorni così convulsi, intanto, l’abbé d’Avaux, suo precettore, e Madame de Tourzel non cessano di curarne l’educazione. Al Marchese de Villeneuve, ch’è venuto a visitarlo, il Delfino mostra il suo nuovo giocattolo: una lepre che batte il tamburo. “So che voi ci amate”, gli dice. “Sapete: batte il tamburo per il Re la mia lepre, è monarchica; però non lo dite a nessuno, ché altrimenti la ucciderebbero!”

LA PRIGIONIA NELLA TORRE DEL TEMPIO

Il 10 agosto 1792, ancora prima dell’alba, le campane suonano a martello l’adunata; tuona il cannone. Il Re, costretto a recarsi dal castello all’Assemblea, viene immediatamente sospeso dalle sue funzioni.

Fuori rombano i cannoni, l’aria echeggia di spari e di urla di terrore. A due passi dall’Assemblea si massacra. Dopo due giornate sfibranti trascorse nella piccola stanza del logografo, la famiglia reale viene condotta al Tempio, non però nel palazzo che fu già del Gran Priore, ma nel torrione quadrangolare del secolo XIII ad esso retrostante e che sovrasta di cinquanta metri la cinta medievale del palazzo, già da molto tempo trasformato in abitazioni. In attesa di essere sistemati nella torre grande, il Re e la sua famiglia vengono alloggiati in una torretta più piccola che la fiancheggia e privati dei loro domestici personali. Al loro servizio (col compito di spiarli) vengono messi un certo Tison e sua moglie. Qualche giorno più tardi si aggiunge anche il fedele servitore Clery.

Le mancanze di rispetto ai Sovrani si susseguono: si parla loro col cappello in testa, si alita loro in faccia il fumo della pipa, si cantano canzoni oscene e si tracciano scritte orribili. Le passeggiate nel cortile diventano un vero e proprio supplizio, mentre le perquisizioni e i risvegli notturni si moltiplicano. Il Re viene spogliato della spada; anche lo scrittoio gli viene portato via. Il 3 settembre, sotto le finestre della Regina, viene agitata in cima ad una picca la testa della Principessa di Lamballe. Tra settembre e ottobre i Reali sono trasferiti nella torre grande del Tempio. All’esterno, la Comune fa abbattere i fabbricati adiacenti per costruire un alto muro di cinta, delimitante un vasto spazio rettangolare. Due corpi di guardia presidiano il cortile, in cui si entra attraverso un portone rinforzato da grosse sbarre di ferro che viene aperto da due guardiani con due chiavi diverse, l’una dall’interno, l’altra dall’esterno. Da trecento a cinquecento guardie nazionali, con sentinelle in armi e tanto d’artiglieri, sorvegliano il palazzo all’interno e lungo il perimetro esterno.

Alla torre si accede per una porta angusta. A pianterreno sono alloggiati i Commissari, prima otto poi quattro, designati dalla Comune nel suo seno e destinati alla sorveglianza personale dei prigionieri. A turni di quarantott’ore i Commissari restano, senza interruzione, giorno e notte, due nell’anticamera del Re e due in quella della Regina.

Per salire ai piani superiori ci si può servire solo di una scala a chiocciola vigilata, lungo il suo percorso, da sette posti di guardia; al primo piano stanno acquartierati una quarantina di armati che montano la guardia giorno e notte. Queste guardie municipali sono o dei truci sanculotti o della povera gente che la paura rende più malvagia e triviale: rari sono coloro che avranno gesti di benevolenza (che costeranno loro cari) verso la famiglia reale.

Al secondo piano è il Re col Delfino, strappato alla madre. Ogni piano è costituito da un solo grande vano, il cui ingresso è impedito da due porte, una di legno l’altra di ferro, saldamente chiuse con catenacci che solo il commissario responsabile può far aprire. Nell’interno, dove gli archi del soffitto poggiano su un unico pilastro centrale, sono ricavate, con leggeri tramezzi divisori, quattro stanze: un’anticamera (dal cui lato sinistro si accede alla stanza da pranzo, divisa da una vetrata dalla camera dove trova alloggio Clery, domestico del Re) e la camera del Re, di fronte, dove dorme anche il fanciullo. La piccola stanza della torretta ovest che dà sulla sua camera è adibita dal Sovrano a suo oratorio e sala di lettura. Un piccolo corridoio, che corre di fianco alla cameretta di Clery, permette di raggiungere il guardaroba e i servizi igienici. Il piano soprastante, assegnato alla Regina, assieme alla ventottenne Madame Elisabetta, l’angelo della famiglia e suo sostegno morale, e alla Principessa Maria Teresa di dodici anni, ha una disposizione analoga. Tutte le finestre sono sbarrate e delle tavole, inchiodate dall’esterno, lasciano filtrare la luce soltanto dall’alto, impedendo così di spingere lo sguardo all’infuori. La famiglia reale può tuttavia consumare i pasti in comune. Il Re, eccellente professore, séguita a curare personalmente, malgrado gli avvenimenti, l’istruzione del figlio, assegnandogli dettati e impartendogli lezioni di letteratura, storia e geografia. Uno di questi compiti, giunto sino a noi, ci rivela una calligrafia singolarmente formata e sicura per un bimbo di sette anni. Evidentemente il piccolo Prìncipe si rendeva conto degli avvenimenti.

Il Martirio di Sua Maestà Cristianissima Luigi XVI, Re di Francia.Figlio di San Luigi, salite al cielo!”, gli dice il confessore, mentre gli sgherri rivoluzionari coprono la voce del Re con il rullare dei tamburi per impedirgli di parlare al popolo.

Clery ci riporta, a questo proposito, un aneddoto delizioso: Madame Elisabetta voleva far pervenire una scatola di pastiglie al domestico che si era ammalato, ma la vigilanza era strettissima. Ella allora mette la scatoletta nella piccola mano del Delfino, la sera, al momento di abbracciarlo prima di andare a letto, raccomandandogli di consegnarla a Clery. Alle undici di sera, quando Clery viene a preparare il letto del Re, si sente chiamare sottovoce dal piccolo Prìncipe. Preoccupato egli si avvicina al bimbo, che gli dice: “È una piccola scatola che mia zia mi ha dato da consegnarvi ed io non ho voluto addormentarmi senza prima avervela data. Era ormai tempo che veniste, perché i miei occhi si sono già chiusi più di una volta”. Il domestico bacia il suo Prìncipe, che prende subito sonno.
L’11 dicembre 1792 la Convenzione avvia il processo al Re. Quello stesso giorno, mentre gli sta dando lezione, gli viene tolto il figlio. Il 20 gennaio 1793 la Convenzione autorizza la famiglia reale, ormai separata dal Sovrano da oltre un mese, a rendergli visita per l’ultima volta: l’incontro avviene di sera e dura non più di un’ora e mezzo. II Delfino, così ricorda Madame Royale nelle sue memorie dalla prigione del Tempio, stava tra le ginocchia di suo padre: “Egli impartì a mio fratello dei buoni consigli spirituali e gli raccomandò soprattutto di perdonare a coloro che stavano per farlo morire”. Quindi lo benedice.

IL PICCOLO PRÌNCIPE, PRIGIONIERO NEL TEMPIO, È ACCLAMATO RE DI FRANCIA. I COMPLOTTI DEI RIVOLUZIONARI CONTRO LA REGINA

Il processo a Sua Maestà la Regina Maria Antonietta, nel corso
del quale i rivoluzionari le rivolsero le accuse più calunniose e
infamanti, incluso un presunto incesto con il figlio di otto anni.

Il 21 gennaio 1793 la testa del Re cade sotto la ghigliottina. Il Conte di Provenza (le ciniche che gli si attribuiscono non sono che dei falsi) i Prìncipi di Condé, i capi vandeani acclamano Re Luigi XVII. Verso il piccolo prigioniero del Tempio si appuntano ora tutti gli sguardi.

Profittando del caos democratico della primavera 1793 (causato dalla rivalità fra i vari demagoghi) che pareva aver indebolito e disorganizzato la sorveglianza del Tempio, vengono allora architettati due piani di evasione estremamente avventurosi, che ricevono anche un principio d’esecuzione: il primo ad opera del Cavaliere di Jarjayes; il secondo, ideato dal Barone de Batz, si avvale anche di tre guardie municipali, Toulan, Lepitre, Michonis, guadagnate in gran segreto alla causa. Tutti i progetti di fuga però falliscono: l’evasione era una chimera e, in seguito, lo sarebbe stata sempre più. Sentendosi in pericolo, la Repubblica, assalita da ogni parte, rafforza le misure di polizia: le finestre delle stanze dov’è alloggiato il Delfino vengono ermeticamente chiuse, col solo effetto di farlo cadere malato. In maggio è preda di convulsioni, quindi di un’infezione intestinale. A giugno si procura inoltre un’ernia al basso ventre, cavalcando un bastone. Il medico delle carceri (Thierry), uno specialista (Pipelet) ed un fabbricante di cinti ortopedici per ernie (Saupé) sono autorizzati a curarlo.

Hébert e Chaumette, i due scellerati rivoluzionari che furono i principali responsabili della condanna capitale della Regina Maria Antonietta e della morte in cella del piccolo Re Luigi XVII.

A Parigi regna intanto il terrore: battuti i girondini, i vincitori del momento sono Robespierre, Danton ed Hébert, quest’ultimo redattore dell’infame giornale Père Duchesne, nonché il sostituto procuratore e rappresentante della Comune, Chaumette. Questi ultimi due, Hébert e Chaumette, due autentiche canaglie, che avevano preso i soprannomi rispettivamente di Père Duchesne e di Anassagora, sono i protagonisti scellerati, su istigazione del Comitato di salute pubblica, del dramma del Tempio. Cinici e atei, avvezzi a vivere di mezzi disonesti e corrotti fino alle midolla, osceni quanto voluttuosi, essi non hanno rispetto per nessuno. Portati alle stelle per la loro ignobile logorrea di rivoluzionari, elogiano in pubblico le virtù repubblicane, mentre non celano in privato i loro disegni immorali.

   La Regina di Francia Maria Antonietta condotta alla ghigliottina.

La corrispondenza di Chaumette mostra un abisso di vizi.

Quanto a Hébert, avendo sposato una religiosa smonacata, si permette di parlare di Gesù come di un sanculotto. Entrambi dispongono di fondi segreti. Attraverso il loro giornale, diffuso a centinaia di migliaia di copie dall’organizzazione rivoluzionaria, tengono in pugno le strade, le sezioni, il volgo di Parigi. Saranno loro a organizzare, con livore blasfemo, i saturnali della Dea Ragione e dello spretamento.

In quell’estate del 1793, di Chaumette ed Hébert, Robespierre, avviato già alla dittatura, ha ancora bisogno: sebbene l’Incorruttibile, paranoico e incipriato, li disprezzi, essi gli sono tuttavia necessari per acquisire il controllo totale del Comitato di salute pubblica. Robespierre incarna perfettamente la logica della Rivoluzione, ch’egli vuole condurre verso la mèta: la morte del Re non basta. Egli stesso, del resto, l’aveva dichiarato alla Convenzione il 27 marzo: “La punizione di un tiranno, ottenuta dopo tante, odiose discussioni, sarebbe dunque il solo omaggio che noi abbiamo saputo rendere alla libertà e all’uguaglianza? […] La morte di Maria Antonietta deve ridestare in tutti i cuori una santa antipatia per la monarchia e conferire nuova forza allo spirito pubblico”. La parola d’ordine passa quindi alle sezioni e alla Comune: si chiede così “la morte dell’Antonietta”, di “Madame Veto”, della “moglie del tiranno”, della “lupa”, della “tigre femmina”, dell’”infame austriaca”.

Sua Altezza Reale la Principessa
Maria Teresa Carlotta, detta
Madame Royale, sorella di Luigi
XVII, anch’essa detenuta nella
prigione del Tempio.

Occorre tuttavia ottenerla, questa morte, in una certa maniera e a questo fine potrebbe essere utile un rampollo, discendente d’una razza esecrata (“la piccola scimmia generata dalla bertuccia”, secondo la più fine battuta di Hébert). Egli e Chaumette sono i soli a poter entrare nella prigione del Tempio come e quando vogliono; la gestione e la sorveglianza di quella prigione dipende infatti dalla Comune, ed essi vi hanno campo libero. Così, ad esempio, in seguito a una denunzia di Tison, Hébert si toglie la soddisfazione il 10 aprile di quell’anno, d’effettuare una perquisizione notturna nella camera delle Principesse, che terminerà alle quattro del mattino e durante la quale, a Madame Royale verrà strappato un Sacro Cuore recante una preghiera di consacrazione della Francia. Ritornerà da esse tre giorni dopo e ancora in giugno, assieme a Chaumette, entrambi ubriachi, per schernire e umiliare le prigioniere. Intanto essi mettono a punto il loro piano, che la moglie di Tison, la spia, intuisce dai preparativi che si vanno facendo: presa dai rimorsi, ella finirà per chiedere perdono alla Regina e a Madame Elisabetta per avere avuto parte nella loro morte e in seguito impazzirà.

LA “RIEDUCAZIONE” RIVOLUZIONARIA DI LUIGI XVII

Il 1° luglio 1793 una prima ordinanza del Comitato di salute pubblica dispone che il figlio del Capeto venga separato dalla madre e sistemato in un altro appartamento; una seconda ordinanza ne impone l’affidamento ad un istitutore, scelto dal Consiglio generale della Comune, cioè, in pratica, da Chaumette ed Hébert. Questa parola, “istitutore”, avrà senza dubbio provocato le risa dei due cinici compari, durante una delle loro laute cene.

Sua Maestà Cristianissima
Luigi XVII, Re di Francia.
Ritratto.

 Il 3 luglio, alle dieci di sera (le loro trame le compivano sempre con la complicità della notte) sei guardie /municipali vengono per strappare il fanciullo a sua madre. La Regina discute, protesta, lo difende: il bambino si getta fra le sue braccia. Un’ora trascorre fra diverbi, insulti, minacce. Infine le donne, in lacrime, debbono cedere.

Il piccolo prigioniero del Tempio, Luigi XVII, vessato dal suo “educatore” e carceriere Antoine Simon, che ne curerà la rieducazione rivoluzionaria. Il ciabattino “istitutore” Simon abbrutirà l’erede al trono di Francia insegnandogli a bestemmiare, a pronunciare parolacce e a cantare canzoni oscene. Lo farà ubriacare, lo corromperà facendolo iniziare da prostitute, fino a indurlo a testimoniare contro sua madre e sua zia con l’accusa infame di aver intrattenuto relazioni incestuose con lui; gli calcherà sul capo il berretto frigio dei sanculotti. Spingerà il povero bambino a inneggiare alla rivoluzione, alla decapitazione di suo padre e di sua madre, punendolo quando lo scopre di notte a pregare da solo nella sua cella.

Per istitutore viene scelto Antoine Simon, ciabattino, poi oste fallito. Cinquantasette anni, vedovo, risposatosi con Marie-Jeanne Aladame, di cui consumava i risparmi accumulati nel suo lavoro di guardarobiera, questo pezzo d’uomo semianalfabeta, è un imbecille, che ama bere molto e non lavorare mai. La Rivoluzione l’aveva reso cattivo, bestiale e, oltretutto, incredibilmente supponente. Tutte le riunioni di clubs e di sezioni lo vedono presente; al club dei Cordiglieri si distingue per il suo attivismo arruffone, per il suo continuo imprecare, per le sconcezze e per le sbevazzate selvagge. Eletto membro della Comune insurrezionale nel 1793, cinge la fascia tricolore della Guardia Nazionale; uomo di fiducia della Comune, tirapiedi di Chaumette e di Hébert, egli è l’individuo più adatto al compimento dei loro disegni. I ritratti autentici che di lui ci sono rimasti ce lo rappresentano al naturale: sguardo ebete, gli occhi da bruto, una bocca sadica.
La moglie, piccola, brutta, grassa, nella sua villania non vale molto più di lui, checché se ne sia scritto dopo la Restaurazione. Si prende cura del Delfino, è vero, ma anche questo rientra nella strana missione affidata alla coppia Simon nel luglio del 1793. I1 segretario del Comitato di sicurezza generale, Senar, annota: “Chiedendo istruzioni ai comitati a proposito del fanciullo, Simon così si espresse: «Che avete deciso circa il lupacchiotto? Egli era educato per essere insolente; io ne sarò la madre. Tanto peggio se crepa: dopo tutto io non ne rispondo. Deportarlo?» Risposta: «No». «Ucciderlo?» «No». «Avvelenarlo?» «No». «Ma che cosa dunque?» Risposta: «Disfarsene»”. “Del resto che importa un ragazzo”, scrive il Père Duchesne, “quando si tratta della salvezza della Repubblica?” E Chaumette, di rimando, reclama per lui un’educazione nuova, che gli faccia “perdere la dignità del suo rango”. D’altronde, se come istitutore gli è stato assegnato un Simon, ciò non è punto per insegnargli a leggere e far di conto, ma per impartirgli ben altro genere di lezioni!
Il piccolo prigioniero del Tempio, Luigi XVII, vessato dal suo “educatore” e carceriere Antoine Simon, che ne curerà la rieducazione rivoluzionaria. Il ciabattino “istitutore” Simon abbrutirà l’erede al trono di Francia insegnandogli a bestemmiare, a pronunciare parolacce e a cantare canzoni oscene. Lo farà ubriacare, lo corromperà facendolo iniziare da prostitute, fino a indurlo a testimoniare contro sua madre e sua zia con l’accusa infame di aver intrattenuto relazioni incestuose con lui; gli calcherà sul capo il berretto frigio dei sanculotti. Spingerà il povero bambino a inneggiare alla rivoluzione, alla decapitazione di  suo padre e di sua madre, punendolo quando lo scopre di notte a pregare da solo nella sua cella.

Quando Maria Antonietta viene a sapere che istitutore del piccolo Re è Simon, quest’uomo di “bassa insolenza”, come lo dipinge Clery, e che la Regina ben conosce per quello che è, la sua desolazione aumenta. Quanto risultano indecenti le lunghe dissertazioni svolte da certi storici su “questo bravo signor Simon”! Essi arrivano addirittura a far pronunciare queste parole alla stessa Maria Antonietta, contrapponendo ai ricordi del fedele Clery, le memorie che scrive al tempo della Restaurazione un certo Goret, guardia municipale. Ma se un’espressione del genere è stata mai proferita, essa avrebbe potuto essere pronunciata dalla Regina soltanto al princìpio della detenzione nel Tempio, quando il “buono a nulla”, improvvisamente assurto a factotum, la faceva da uomo importante.
“Povera madre!”, scrive Madame Royale. “Il suo solo piacere era di veder passeggiare da lontano mio fratello, scrutandolo da una piccola finestra nel guardaroba. Ella se ne rimaneva lì per due ore, in attesa di vedere quel fanciullo tanto amato”. Il bimbo piangerà per due interi giorni. “Simon”, prosegue Madame Royale, “maltrattava assai mio fratello nel vederlo piangere per la separazione da noi e il fanciullo, perciò, non ha più versato lacrime”.

La “rieducazione” rivoluzionaria a suon di botte
dello sventurato Re bambino Luigi XVII.

D’un tratto, sequestrato dai Simon, non lo si vede più, tanto che corre voce che il figlio di Luigi XVI sia stato visto sui boulevards; alcuni deputati vengono apposta al Tempio, per accertarsi che perduri la reclusione del piccolo prigioniero. Il Re bambino, sceso nel cortile, replica sdegnato: “Deploro che mi abbiate separato da mia madre e vi chiedo di mostrarmi la legge che lo stabilisce!” Stupefacente! Il piccolo Re non è dunque ancora disposto a capitolare. I miserabili fanno allora scattare il loro piano.
Il 2 agosto 1793 alle due di notte (secondo il solito) la Regina è svegliata dalle bestemmie e dalle imprecazioni del nuovo comandante generale di Parigi, Hanriot. A Maria Antonietta, terrorizzata dalle sue urla, viene letto il decreto della Convenzione che ne ordina l’immediato trasferimento alla Conciergerie, per predisporne il processo dinnanzi al Tribunale straordinario. Ma già il giorno precedente la Convenzione aveva votato una risoluzione di Robespierre, concernente “gli individui della famiglia Capeto”: Elisabetta resta internata nel Tempio in attesa di processo; i due Principini vengono ridotti allo stretto necessario (“è ormai tempo di sopprimere tutti i rampolli della famiglia Capeto!”, aveva esclamato il convenzionale Barère); infine si ordina, per il successivo 10 agosto, la distruzione “delle tombe e dei mausolei degli ex-Re”.
Profanare i Re, profanare le Regine, questi esseri sacri, è come mettere il marchio sull’opera della Rivoluzione, nel momento stesso in cui la Repubblica è minacciata da ogni parte, dalla guerra all’esterno e dai sollevamenti popolari all’interno. È una sfida di demoni: profanare non solo i morti, ma anche i vivi. Da un lato questa donna, Maria Antonietta, che ci si accinge a giudicare; dall’altro questo fanciullo di otto anni, che La “rieducazione” rivoluzionaria a suon di botte dello sventurato Re bambino Luigi XVII.
viene educato da un istitutore siffatto proprio per poterlo degradare fino al punto di accusare la propria madre. E così, al processo contro Maria Antonietta, si produrrà come teste d’accusa il figlio, il Re bambino, per poter inviare al patibolo la madre, la Regina, disonorando nello stesso tempo anche le due Principesse, Elisabetta e Maria Teresa. Fare appassire i gigli per sempre, annientandoli fisicamente solo dopo averli disonorati: questo è il piano.
A depravare il Re bambino, Simon (e sua moglie!) si adopereranno a dovere: l’istitutore, facendo anche uso della violenza. Gli storici che lo negano sono degl’impudenti, che non si curano di disprezzare anche le testimonianze più certe. Scapaccioni, calci, battiture, urla all’indirizzo del “lupacchiotto”, sarcasmi contro Capeto, sveglie notturne brutali, umiliazioni e asservimenti, questi sono i metodi.
Alle volte, da principio, il bambino ribatte, ma ben presto non può più farlo. Simon, istruito in precedenza da Hébert, sa alternare alle punizioni le lusinghe: blandisce il fanciullo, carezza la sua pigrizia, ne accende i sensi. Un carrettino, una voliera, una gabbia per canarini con un organetto, ricuperati fra gli scarti del vecchio palazzo sono altrettanti pretesti per divertirlo. Viene ritrovato anche un biliardo, attorno al quale, Simon con i Commissari e i soldati di guardia, giocando a carambola, fumando e bevendo, prendono in giro con risatacce il piccolo Capeto. Queste riunioni, divenute il grande divertimento del Tempio, ben presto degenerano in vere e proprie orge, tanto che il Consiglio deve ordinare che il biliardo ritorni in cantina.
I piaceri non distolgono tuttavia l’istitutore dal suo compito e cioè dall’insegnare al giovanissimo Re le maniere dei sanculotti: Simon, infatti, fa svestire il bambino del suo  abito da lutto, lasciandoglielo indossare soltanto in occasione dei funerali di Marat, in luglio; la moglie di Simon gli taglia i suoi magnifici capelli; assieme gli fanno indossare la carmagnola e gli mettono in capo il rosso berretto frigio con la coccarda. “Capeto, eccoti ora giacobino!”, gli dicono.
Naturalmente occorre che anche il linguaggio sia all’altezza dell’abito, e Simon glielo insegna: parolacce, imprecazioni, bestemmie, canzoni oscene. Ricorda Madam Royale: “Noi lo sentivamo tutti i giorni cantare con Simon la Carmagnola, la Marsigliese e altri orrori. Il berretto dei sanculotti in testa, una carmagnola addosso, era costretto da Simon a cantare vicino alle finestre, perché le guardie lo udissero, e pronunziare imprecazioni orrende contro Dio, contro la sua famiglia e contro gli aristocratici”.
Il Piccolo Re da principio vi si ribella, né le percosse bastano a piegarlo. Allora Simon prende a ingozzare il bimbo e a farlo bere, lui ch’era astemio e riservato. Così nell’ubriachezza il fanciullo bestemmia, ripete le parolacce e gli stornelli ingiuriosi contro sua madre, che gli si ordina di ripetere più e più volte: il giorno in cui pronuncia per la prima volta la parola “puttana”, Simon gli dà un buffetto d’incoraggiamento.
“Possibile che queste benedette puttane non siano state ancora ghigliottinate?”, esclama un giorno il fanciullo, sentendole camminare al piano di sopra. Sua madre se n’era accorta da tempo: ripetere facilmente quel che sentiva era sempre stato il suo difetto.
Frattanto il piccolo Re cade malato. Scrive Madame Royale: “A fine agosto il cambiamento di vita e i maltrattamenti fecero deperire mio fratello. Simon lo rimpinzava in maniera orribile e gli faceva tracannare molto vino, che mio fratello detestava. Così si procurò la febbre […] la sua salute si guastò: si era enormemente ingrassato, ma non era cresciuto”.
La guardia municipale Leboeuf ne ha un giorno abbastanza delle oscenità insegnate al piccolo Luigi XVII dal suo istitutore e si lamenta che si dia “al piccolo Capeto un’educazione troppo sanculotta”. Viene denunciato e il 5 settembre 1793 è accusato da Chaumette innanzi alla Comune “di aver adorato l’idolo Capeto” e “di aver proposto a Simon di fargli leggere la storia di Telemaco”4. Anche Naudin, medico della moglie di Simon, nel dicembre di quell’anno rimprovera aspramente l’irascibile  istitutore, che arrivava a trascinare il piccolo per i capelli, se rifiutava di ripetere dei versetti incredibilmente licenziosi ch’egli gl’insegnava.
Queste circostanze trovano conferma nei rapporti riservati che l’agente segreto inglese Drake invia a Lord Grenville, come in quelli che pervengono, in quello stesso febbraio del 1794, al ministro spagnolo Godoy: emerge da essi che al piccolo Re si fanno bere liquori forti, s’insegnano inverecondie e bestemmie, si fanno leggere “per divertirlo i libri più infami”. Il responsabile è individuato in Hébert. “È egli stesso”, si precisa nei rapporti, “a portare con sé nella stanza del fanciullo delle giovani prostitute”, anche se, “dopo la morte della Regina, a Luigi XVII non si presentarono più altre meretrici”. “Quanto a suo tempo fu fatto per farlo deporre contro sua madre”, commentano le stesse fonti d’informazione, “era stato dunque sufficiente per corromperlo e depravare”; e ancora “di quando in quando egli si rende conto del suo stato, piange e si dispera. Allora i Commissari lo stordiscono con dell’acquavite e lo fanno giocare a biliardo”. Spesso Hébert “minaccia di ghigliottinarlo” e questa intimidazione lo atterrisce a tal punto da farlo svenire. Potranno forse questi fatti, perché mostruosi, essere rigettati dagli storici come inverosimili? Che cosa si è dovuto fare, mimare davanti al bimbo, affinché l’immaginazione, eccitata, gli “facesse vedere” quanto avrebbe dovuto “ripetere senza mentire”, secondo le espressioni che sua madre aveva adoperato quattro anni prima per descrivere il difetto dominante del suo carattere? Sotto quali spoglie e che tipo di donne vengono introdotte nella sua camera, di primo mattino, per istruirlo su ciò che egli dovrà dichiarare di aver appreso da sua madre e da sua zia?
L’odio di Hébert è intanto giunto ad un grado d’incandescenza demoniaca. Informazioni riservate, provenienti da un precedente rapporto dell’agente segreto inglese, rivelano che nella notte fra il 2 e il 3 settembre 1793, nel corso di una riunione a porte chiuse del Comitato di salute pubblica tenutasi nell’ufficio del Sindaco di Parigi, Pache, Père Duchesne aveva espresso i suoi pensieri più nascosti: “Ho promesso la testa di Antonietta e andrò io stesso a tagliargliela, se si esita a consegnarmela. L’ho promesso, da parte vostra, ai sanculotti”. E, di fronte alle titubanze di Cambon, il quale faceva presente che la Regina avrebbe potuto servire come strumento di pressione nelle trattative con le potenze straniere, egli si era messo a profetare nella più grande collera, un terribile: “Noi periremo tutti!”, predicendo il crollo di tutto il mondo, dei Re e della Repubblica e dichiarando che ormai non bisognava vivere che per attuare un’immensa vendetta. “Spirando, lasceremo ai nostri nemici tutti i germi della loro stessa morte e, in Francia, una distruzione così grande, che non ne potrà giammai sparire il segno”.
Il 30 settembre 1793 l’istitutore termina le sue lezioni. Egli può così scrivere a: Père Duchesne: «Il repubblicano Simon al patriota, al maledettamente patriota Père Duchesse […]: vieni presto, amico mio, ho delle cose da dirti e avrei grande piacere di vederti. Cerca di venire oggi stesso. Mi troverai sempre schietto e bravo repubblicano».
Hébert, gongolante, viene così a sapere dall’istitutore che l’allievo conosce ormai perfettamente la sua lezione e ch’è pronto a ripeterla.

IL COMPIMENTO DEL PLAGIO: LE INFAMIE LANCIATE DAL FANCIULLO CONTRO SUA MADRE AL PROCESSO RIVOLUZIONARIO E LA MORTE DELLA REGINA

I1 3 ottobre 1793, con decisione fulminea, la Convenzione deferisce al Tribunale straordinario (che, di lì a un mese, assumerà la denominazione di Tribunale rivoluzionario) il giudizio a carico della vedova Capeto, con l’ordine di procedere senza indugio e senza interruzioni di sorta.
Fouquier-Tinville, il pubblico accusatore, pur dichiarando “di poter decidere a piacere dell’atto d’accusa”, fa tuttavia sapere che manca di prove e che le vecchie imputazioni rivolte alla Regina non bastano più: si scatena così la caccia al testimone d’accusa decisivo.
Il 6 ottobre 1793 (15 vendemmiaio) il Sindaco di Parigi, Pache, e il procuratore della Comune (il quale aveva appena tenuto, innanzi al Consiglio della Comune, un alto discorso morale in lode della virtù e contro i perversi costumi) bussano al portone del Tempio, seguiti da cinque tristi figuri, Commissari civili e funzionari di polizia. Salgono, agitati, fino alla camera del fanciullo, al secondo piano: Simon, che prima l’aveva tenuto apposta a digiuno (é Beauchesne, lo storico, a riferirlo) porta ora al bambino pasticcini e liquori. Il birichino si trova così nelle condizioni psicologiche più adatte: come previsto, denunzia subito alcuni Commissari che avevano dimostrato qualche indulgenza verso sua madre e dei quali Simon voleva vendicarsi.
Dichiara quindi di essere stato sorpreso diverse volte, da Simon e da sua moglie, nell’atto di commettere su se stesso atti impuri e di aver loro confessato ch’erano state sua madre e sua zia ad insegnargli quest’abitudine, tanto nociva per la sua salute; che anzi, molte volte, esse si divertivano a vedergli ripetere questi atti davanti a loro e che queste indecenze avvenivano più di frequente quando lo facevano coricare fra di loro.
Nella dichiarazione si legge, inoltre, che sua madre l’aveva un giorno fatto accostare a sé e che (sulla base delle spiegazioni fornite dal fanciullo) si capiva esservi stata copulazione, con conseguente rigonfiamento di un testicolo, a causa del quale, come attesta la cittadina Simon, il bimbo porta un cinto ortopedico. Si aggiunge che la madre gli aveva molto raccomandato di non parlare mai di tutto questo e che, nondimeno, quest’atto impuro era stato in seguito ripetuto più volte. Firmato: Luigi-Carlo Capeto. La sottoscrizione è autentica: tuttavia questo fanciullo, la cui grafia un tempo era così formata e sicura, ora non allinea che delle lettere tremolanti, scritte con mano incerta.
Controfirmano: Pache, Chaumette ed Hébert (che pure non aveva titolo per firmare e a proposito del quale il processo verbale dice ch’è sopraggiunto): egli infatti origliava alla porta, gongolante; ma, non credendo alle proprie orecchie, non aveva potuto trattenersi dall’entrare. Seguono altre cinque sottoscrizioni: artigiani, uno scultore, un medico. Anche Simon appone la sua firma.
Di fronte a questo documento gli storici restano sconcertati: quelli del secolo XIX tralasciano, per pudore, di scriverne. I moderni (Garçon, Marina Grey) sono spregevoli: essi s’industriano a cercare spiegazioni che possano discolpare questi “buoni Simon”.
Ma, alla fine chi, se non i Simon, era al corrente che l’abbassamento di un testicolo il bimbo se l’era cagionato da sé, correndo a cavallo di un bastone, come attestato dal medico curante, dottor Pipelet? Chi, se non Hébert e i Simon, architettò di servirsi di questo piccolo incidente per fabbricare le accuse contro la Regina? E la “cittadina Simon” si è prestata a una macchinazione del genere! Lei, che sapeva tutto, presenzia sia a questo interrogatorio che a quello del giorno successivo, per sorvegliare il bambino, affinché dia le risposte volute.
Il giorno dopo (presente, spinto dalla curiosità, anche il pittore David) i Commissari procedono, per tre ore, ad un interrogatorio prima, ad un confronto poi, con la sorella, Teresa Capeto: “Quando mi avvicinai a mio fratello”, scrive Madame Royale, “lo abbracciai teneramente; allora la signora Simon me lo strappò dalle braccia e mi disse di passare nell’altra camera. Chaumette mi fece sedere e si accomodò di fronte a
me. La guardia municipale impugnò la penna”.
Dopo averle notificato le denunce del giorno precedente, Chaumette domanda a questa giovinetta, di soli quattordici anni, “se, quando ella giocava con suo fratello, egli la toccasse là dove non avrebbe dovuto e se sua madre e sua zia fossero solite farlo coricare fra loro. Ella rispose di no”. Viene fatto entrare allora Luigi Carlo Capeto e lo s’invita a dichiarare se quanto ha esposto il giorno innanzi, circa i toccamenti indecenti sulla sua persona, risponda a verità. “Egli confermò le sue dichiarazioni, le ripeté e le sostenne innanzi alla sorella, insistendo nel dire ch’era la verità”.
Scrive, dal canto suo, Madame Royale: “Chaumette m’interrogò quindi su mille cose brutte e volgari, di cui mia madre veniva accusata; risposi che tutto ciò non era vero, ma che si trattava soltanto di un’infame calunnia; loro insistettero molto, ma io mi tenni sempre sulla negativa, ch’era d’altronde la verità”. Pudore della piccola Principessa! Molto tempo dopo ella confiderà: “Ho pianto d’indignazione”.
Segue l’interrogatorio della zia, Madame Elisabetta: le si chiese se “ha letto la dichiarazione di Carlo, a proposito delle indecenze citate […]. Replicò che una simile infamia era troppo al di sotto di se stessa per meritare risposta; che il fanciullo da molto tempo aveva quest’abitudine e doveva pur rammentare come sia lei che sua madre l’avessero rimproverato molte volte. Messo a confronto con lei, Carlo ribadì di aver
detto la verità su questo argomento […], insistendo che, pur non rammentandosi quando fosse successo, ciò era però accaduto spesso. Ella dichiarò allora che tutto ciò non la riguardava e che non avrebbe più risposto, né su questo né su altro oggetto, ritenendo la propria condotta al di sopra di ogni sospetto”.
Nuovamente interpellato su chi per primo l’avesse iniziato a queste pratiche, Carlo rispose: «Loro due assieme». E, alla domanda, se ciò avvenisse di giorno o di notte, egli rispose di non ricordarlo, ma di “credere che fosse al mattino”.
C’è però una risposta, che si mette sulle labbra di Madame Elisabetta, che mal si concilia con le altre e col contegno, così dignitoso, da lei mantenuto per tutta la durata del suo interrogatorio. Come potrebbe infatti una Principessa, sempre così all’altezza della sua educazione aristocratica e del suo rango, anche in una circostanza come questa, e che rifiuta con tanta fermezza e dignità di rispondere alcunché alle accuse infamanti con cui si tenta di disonorarla, lasciarsi poi andare a confidenze del genere con individui
tanto scellerati? In realtà, l’abitudine che il fanciullo aveva da molto tempo e a cui accenna Madame Elisabetta, non è quella che maliziosamente suggerisce la deposizione scritta (che, difatti, non è che un sunto, dal quale il segretario che verbalizza ha prima eliminato le parole sgradite, poi riletto frettolosamente e fatto firmare, creando così deliberatamente l’equivoco); l’abitudine per la quale Luigi XVII veniva ripreso allorché, appena settenne, viveva assieme alla Principessa sua zia, era quella di “ripetere facilmente quel che gli altri dicono”: è cioè il suo più grave difetto, già segnalato da Maria Antonietta quand’egli aveva solo quattro anni.
Durante il suo confronto con lui, Madame Elisabetta deve aver subito notato che il birichino non faceva che ripetere pappagallescamente una lezione imparata a memoria: era una sua abitudine. Ella fa allora sapere ai banditi che la interrogano, che non è affatto una credulona e ne approfitta, anzi, per richiamare all’ordine il nipote rammentandogli i rimproveri che in passato ha subìto proprio a causa di questo suo modo di fare.
Quanto, infine, all’esclamazione “Oh, il mostro!”, essa è attribuita alla Principessa (a proposito del nipote) da Goret che, nelle sue Memorie, dice di averlo appreso dal suo vecchio amico Daujon (anch’egli, al pari di Goret, guardia municipale) il quale verbalizzò materialmente quel “mostruoso” interrogatorio… In verità, “il mostro” era Chaumette, come Madame Elisabetta del resto sa bene.
Il 14 ottobre 1793 si apre il processo alla Regina; ad un primo rapporto di Chaumette, presentato al Consiglio della Comune con aria pudibonda e scandalizzata, fa seguito la deposizione di Hébert, quale relatore della causa: “Diverse, importanti missioni”, vi si dichiara, “delle quali era stato incaricato, gli provarono la cospirazione di Antonietta. Un giorno, in particolare, trovò al Tempio un libro di pietà, appartenente alla Regina, fra le cui pagine rinvenne uno dei quei simboli controrivoluzionari, in cui è
effigiato un cuore fiammeggiante, trapassato da una freccia, sul quale stava scritto «Jesu, miserère nobis»”. E vi si aggiunge che “il giovane Capeto, la cui costituzione fisica peggiorava di giorno in giorno, era stato sorpreso da Simon in atti indecenti e funesti alla sua salute, diretti a procurarsi polluzioni del seme: richiesto da Simon da chi avesse imparato questi toccamenti delittuosi, egli aveva risposto che ricadeva su sua madre e sulla zia la responsabilità di averlo iniziato ad un vizio così ripugnante. Il giovane Capeto aveva inoltre dichiarato, alla presenza del Sindaco di Parigi e del rappresentante della Comune, che spesso queste donne, fattolo coricare tra di loro, compivano atti di libertinaggio fra i più depravati. Che vi fosse stato poi anche un rapporto incestuoso tra la madre e il figlio, non era minimamente a dubitare: ed era anzi luogo a credere che questo contatto delittuoso non fosse stato tanto dettato dal piacere, quanto piuttosto dal disegno politico di indebolire nel fisico il fanciullo (che ci si illudeva potesse ancora sedere sul trono) sul quale, attraverso queste pratiche perverse e dominandone i sensi, ci si voleva assicurare influenza. A causa degli sforzi poi, impostigli da questi contatti carnali, egli aveva dovuto soffrire per l’abbassamento di un testicolo ed era costretto a mettere un cinto ortopedico; nondimeno, da quando il fanciullo era stato allontanato dalla madre, aveva riacquistato un fisico sano e robusto”. (È vero esattamente il contrario: sappiamo bene, infatti, che il bambino si era di nuovo ammalato, proprio a cagione di quanto gli faceva patire Simon).
Sebbene offesa, la Regina sarà di una dignità ammirevole: dopo aver risposto su ogni altra circostanza, di fronte alle triviali insistenze di un giurato, che indugia sulle accuse più infamanti che le vengono rivolte, esclama: “Se a questo non ho risposto, è perché la natura stessa si ribella davanti a una simile accusa, diretta a una madre. Mi appello a tutte la madri qui presenti!”. Un fremito percorre l’aula. Il presidente della Corte con fatica riesce a riportare l’ordine. Occorre forse dire che anche il “bravo Simon” si presenta alla sbarra per deporre contro la Regina? Ormai il gioco è fatto: il 16 ottobre 1793 anche Maria Antonietta sale, con semplicità e coraggio, alla ghigliottina. Regina più che mai, anche nella sventura.
                                                                            

I MISERABILI

Robespierre, machiavellico, sa di non avere ormai più bisogno di gente come Hébert o Chaumette.
Apprendendo, mentre sta cenando, come la Regina, con la sua nobile risposta, avesse commosso l’uditorio, sbotta: “Che imbecille quest’Hébert! Non gli basta che Antonietta sia una Messalina, occorre ancora che sia un’Agrippina!” E con un moto di rabbia (o di finta rabbia!) rompe il suo piatto davanti agli altri commensali.
Hébert, Chaumette capiscono bene la minaccia e vorrebbero evitarla. Non vi riusciranno: sono coinvolti in troppi scandali, troppe relazioni equivoche li tradiscono e hanno le mani in pasta in troppi giri di denaro, nei fondi di Stato, persino nella Compagnia delle Indie! Al Tempio non ci fu nessun arcano: tutto seguì una logica implacabile. Non serve immaginare misteri rocamboleschi che hanno per solo fine quello di distogliere l’attenzione dal crimine, singolare e ignobile, che qui fu a lungo premeditato, preparato e perpetrato. Uccisa “la lupa”, bisogna “disfarsi” ora del “lupacchiotto”. Il giglio, che già si è voluto far marcire moralmente, deve ora disseccarsi del tutto.
Si comincia, fin dai primi giorni di quell’ottobre 1793, con l’eliminare, per fare economia, una parte del già scarso personale del Tempio: viene così allontanato il domestico Turgy, di cui era fin troppo nota la fedeltà alle Principesse e ch’era un po’ l’informatore di Madame Elisabetta. Anche Tison, il servitore-spia che sa troppe cose, divenuto più umano dacché sua moglie era impazzita, viene allontanato e imprigionato senza motivo apparente nella torre piccola, per oltre un anno. Non spiccicherà più parola.
In novembre, la Comune chiede invano alla Convenzione di essere liberata dall’insopportabile fardello dei prigionieri del Tempio: “trasferite i piccoli Capeto”, propone la Comune, “in una prigione ordinaria” e “l’infame Elisabetta sia al più presto rinviata davanti al Tribunale rivoluzionario”. Ma non se ne fa nulla.
Simon comincia intanto ad annoiarsi; sempre più vincolato alla Torre, dalla quale gli è severamente vietato uscire, anche nelle feste repubblicane, egli che può tornare al suo vecchio domicilio solo con un permesso e accompagnato da due commissari, cerca di riportarsi al centro dell’attenzione. Il 26 ottobre (5 brumaio) scende nella sala dove soggiornano i Commissari, per chiedere che si ascolti una dichiarazione del piccolo
Capeto: si tratta ancora di una denuncia! Ma nessuno vi dà bado.
Il 3 dicembre (13 frimaio) l’imbecille ci riprova. “Carlo Capeto”, dice, “si affligge: egli sente il bisogno di denunciare dei fatti, che è bene siano conosciuti per la salvezza della stessa Repubblica”. Udendo dei rumori sospetti al piano di sopra, dove sono detenute le Principesse, egli aveva capito che sua zia e sua sorella rilasciavano e passavano attraverso la finestra falsi assegnati… Naturalmente né Hébert, né Chaumette, né il Consiglio generale della Comune ci credono e le guardie municipali di stanza al Tempio continuano a ubriacarsi.
Frattanto il trattamento carcerario delle Principesse viene reso ancora più rigido nel cibo, nel riposo, nella sorveglianza, nelle cose più minute: in novembre “fu ordinato”, scrive Madame Royale, “di perquisirci tre volte ogni giorno. Una di queste perquisizioni durò dalle quattro fino alle otto e mezza di sera. Le quattro guardie municipali che la eseguirono erano completamente ubriache. Si possono immaginare quali proposte fecero, le loro ingiurie, le loro bestemmie durante queste quattro ore”.
Quattro ore per perquisire quattro piccoli vani: era chiaro che si voleva compromettere la reputazione delle Principesse.
Datano a questo periodo, secondo Beauchesne, alcuni permessi che si accordano al “piccolo Capeto”: può così giocare con la piccola Clouet, la figlia della lavandaia, quando questa accompagna sua madre al Tempio, mentre Gourlet, il secondino, ed il suo aiuto Meunier, presi da pietà per il piccolo prigioniero del Tempio, gli riparano la gabbia per canarini e Meunier stesso s’incarica di mettervi gli uccelletti. Ma, ahimé!, il vecchio organetto della gabbia, ora aggiustato, suona il motivo della “marcia reale”. Irrompono allora le guardie, che hanno udito quest’inno sedizioso, e spezzano al fanciullo il suo fragile balocco.
Simon, intanto, si annoia; “l’istitutore” non sa ormai che farsene del suo allievo, stanco, malato, che sembra uscire adesso da un incubo. Anche la moglie di Simon si ammala. Beauchesne situa ai primi di gennaio del 1794 un episodio, di cui gli storici moderni (che pure saccheggiano impunemente le opere di Beauchesne in quel che loro aggrada) non fanno il più piccolo cenno: il carceriere sorprende il bambino, nel cuore della notte, in ginocchio e con le mani giunte. Gli versa allora sulla testa una brocca d’acqua, atterrendolo con manifestazioni di una collera spaventosa. La comare Simon, proprio lei, racconterà l’episodio alle sue amiche della sezione Marat (la vedova Crévassin e le signorine Ménager e Semélé) puntigliosamente interrogate da Beauchesne, al tempo della Restaurazione.
In quello stesso mese di gennaio, il dissesto finanziario si aggrava: su iniziativa di Pache e Chaumette, il Consiglio municipale vieta, con un’ordinanza, il cumulo delle cariche. I municipali, infatti, da virtuosi repubblicani, si sono regalate lucrose prebende e non partecipano più neppure alle riunioni del Consiglio. Coru, l’economo del Tempio, si dimette, lasciando una contabilità gravata dai debiti; Simon ne segue l’esempio e l’amministrazione del dipartimento di Parigi gli concede vitto e alloggio nelle antiche
scuderie del Tempio.
A chi affidare adesso il piccolo Sovrano? Chi sostituirà Simon? Il 17 gennaio 1794 (27 nivoso) il Comitato di salute pubblica risponde al Consiglio generale della Comune, che aveva sollevato tale questione: “II Comitato di salute pubblica considera inutile «la missione» di Simon e ritiene che i membri del Consiglio debbano sorvegliare da sé i prigionieri del Tempio”. Non c’è più bisogno quindi di un “istitutore”! II Consiglio decreta, perciò, che la custodia del piccolo Capeto sia affidata a quattro Commissari, che si daranno il turno ogni ventiquattr’ore. Il 19 gennaio, con gran baccano e con una montagna di fagotti, i coniugi Simon sgombrano dalla Torre: ma, scaltramente, prima di lasciarla, si fanno firmare una liberatoria dai quattro commissari di guardia che li scagiona da ogni responsabilità. In essa si precisa che il fanciullo si trova in buona salute. I commissari (Cochefer, Lasnier, Legrand e il dottor Lorinet) non firmano, se non dopo aver riconosciuto, per l’ennesima volta, nel bimbo il piccolo Sovrano. Essi lo conoscono, come del resto tutte le guardie che prestano ivi servizio, come gli ufficiali e gli arruolati di Parigi nella Guardia Nazionale, i quali già molte volte, a turno, hanno sorvegliato il Tempio. Come se ciò non bastasse, ad ogni cambio della guardia, si procede a1 riconoscimento del piccolo prigioniero. Lo stesso Simon tornerà più volte nel carcere del Tempio, in qualità di Commissario di guardia. Le disposizioni sono alquanto severe e l’epoca è abbastanza terribile, perché nessuno si addossi la responsabilità di trasgredirle.
Si aggiunga che, dal ’92, una parte del piccolo personale impiegato al Tempio, vi resta stabilmente: così Gagnié, capocuoco; il domestico Caron; Baron e Gourlet, i secondini. In mancanza di una sola, valida testimonianza contraria, tutto ciò è più che sufficiente a invalidare ogni ipotesi di sostituzione o di decesso del piccolo Re durante questo freddo gennaio del 1794.

IL MARTIRIO DEL PICCOLO RE E LA GLORIOSA MORTE DI MADAME ELISABETTA

Cos’avvenne del fanciullo? Fu murato vivo. “Non è possibile!”, si grida. “È esagerato!”, protestano i ricercatori moderni. E, invece, accadde proprio questo: lo attestano autori come Simien-Despréau, Eckard, Beauchesne e tutti gli storici cronologicamente più vicini ai fatti. Poco importa che il bimbo sia stato rinchiuso nella camera di Clery o in quella del Re: la metratura non supererà mai i 4,50 per 5.
Un rapido esame delle fatture, rilasciate in quei giorni, ai muratori che lavoravano al Tempio, ci permette di ricapitolare le opere che vi furono eseguite e di comprendere che cosa si era deciso: ripristino di uno stretto abbaino; serramento a spagnoletta per finestre, chiuso con un lucchetto; vasistas di sicurezza; porte chiuse a chiave; l’entrata che dà sull’anticamera, murata e divisa con un tramezzo, munito di spioncino (rinforzato da sbarre e a cui ci si prende la briga di mettere un vetro); collocazione della stufa all’esterno, nell’anticamera.
Un letto inutilizzato, un lettuccio costituito da un materasso senza lenzuolo, un tavolo, una seggiola: questo è l’arredamento. Infine, ovviamente, una tinozza per i suoi bisogni, mentre lo spurgo è rimesso al buon cuore dei carcerieri, come pure il poter disporre di una brocca d’acqua per la propria igiene.
Lo spioncino a vetro permette di accertarsi della presenza e delle condizioni del prigioniero bambino, sia di giorno che di notte, mediante un riverbero di luce, al momento del cambio della guardia: “Dormi tu, Capeto?”, gli si grida. I pasti (zuppa, bollito, legumi secchi, il normale vitto dei carcerati) gli vengono serviti attraverso uno sportello: è più comodo! Terminati gli ultimi lavori di sistemazione, la reclusione del piccolo Re ha inizio, a tutti gli effetti, il 21 gennaio 1794: durerà sei mesi, nell’inverno ghiacciato della Torre.
I1 medico delle carceri, Thierry, non visita più i prigionieri. I primi cinque giorni di detenzione, ci si dimentica perfino di cambiare la biancheria del bambino. In seguito, sottostando alle esigenze della nobildonna Clouet, la lavandaia, il bucato si limiterà alla sola biancheria intima, come calze e camicie. Il gilet, i pantaloni che indossa, non saranno più cambiati. Il piccolo orfano viene abbandonato a sé stesso, assolutamente solo, senza niente da fare, senza aria, senza cure, senza la possibilità di muoversi un po’, senza luce di sera e durante la notte. Inizia così a sfiorire.
E, del resto, come potrebbe resistere? Dove trovare la forza e i mezzi per lottare, per lavarsi, per tenere pulita la cella? S’introducono così e si stabiliscono in quello stambugio i parassiti, le cimici, i ragni, i ratti e i topi, la scabbia e tutto il resto… II bimbo si gratta la cute, corrosa dalla scabbia, scorticandola con unghie lunghe e dure come corna. “Non è possibile!”, scrivono scandalizzati certi storici: “Vi erano bene delle
persone pietose, guardie municipali amiche, il cortese Barelle, per esempio, al quale egli offrì insistentemente del cibo, in ringraziamento della sua bontà”. Oh, certo! Fra quanti si trovano al Tempio, ci sono delle persone pietose; sono però rare, rarissime. E, comunque, che potrebbero fare? Nulla! Si vive allora in pieno Terrore: alcuni erano già stati diffidati dal mostrarsi troppo indulgenti.
Gli stessi Jobert, i Vincent, i Beugnot, i Leboeuf non vengono lasciati stare, se non dopo aver fatto professione di fede repubblicana, se non dopo aver negato tutti i fatti, se non dopo essere comparsi, in vesti di accusatori, al processo contro Maria Antonietta.
Leggendo le loro deposizioni, alcune delle quali accusano direttamente la Regina, si è colti da un inesprimibile sentimento di disgusto, di fronte alla viltà umana. Come giudicarli, però? La paura attanaglia queste povere persone, che si sorvegliano e si denunciano a vicenda, secondo la diabolica invenzione di questo sistema di responsabilità collettiva che, dal 1789, ha fatto la fortuna di tutte le rivoluzioni.
Commuoversi, avere sentimenti di pietà, sono colpe. Soltanto la guardia municipale Michonis serberà qualche dignità durante il suo interrogatorio al processo contro la Regina e, per averle mostrato qualche riguardo anche durante la sua detenzione alla Conciergerie, verrà prima coinvolto nel cosiddetto “scandalo della collana”, quindi incarcerato egli pure. La seguirà sulla ghigliottina, assieme ad un suo collega, Dangé.
Se un Lepitre, imprigionato, riesce a scamparla per miracolo (e grazie a tutta una serie di fortunate coincidenze) non così avverrà del suo amico, il guascone Toulan, il solo ad avere realmente architettato un piano di fuga dei Reali dal Tempio, durante l’inverno del ’93: riacciuffato dopo la sua evasione, non potrà sfuggire alla sua sorte.
Ecco ciò che succede a quello sparuto drappello, a quella decina di guardie municipali, che osano spendere una parola di troppo in difesa della vedova Capeto! Gli altri, tutti i sorveglianti, inclusi i medici di guardia, sono, che piaccia o no, testimoni prima, complici poi, del nuovo crimine che si sta per consumare al Tempio e di cui è vittima designata Luigi XVII.
II testimone più veridico e imparziale del martirio del piccolo Re, resta Madame Royale, la quale, già all’indomani di Termidoro, poté ricostruire su fonti dirette ogni cosa: “Barbarie inaudita”, scrive, “di abbandonare un bambino sventurato, di otto anni, solo, chiuso sotto chiave e catenaccio dentro una cella, senz’altro soccorso che quello di un campanello, ch’egli non tirò mai, preferendo mancare di tutto piuttosto che supplicare i suoi persecutori. Mio fratello giaceva in un letto che non veniva rifatto da sei mesi e che non aveva la forza di mettere in ordine: cimici e pulci lo coprivano, i suoi indumenti e la sua persona ne rigurgitavano. I suoi escrementi rimanevano nella cella: egli non poteva gettarli, né mai altra persona glieli gettò via; la finestra non veniva mai aperta e, all’interno, non si poteva resistere, a causa di quell’odore ripugnante. D’indole egli era sporco e pigro e avrebbe potuto avere più cura della sua persona…”
Di questa lunga descrizione, fatta dalla Principessa, è solo l’ultima frase che, naturalmente, storici infami preferiscono citare, così da trarne le conseguenze più acconce alle loro tesi: si tratta qui, invece, soltanto della riflessione fatta da una giovinetta, assolutamente pura, precisa e corretta, a proposito di un fratello, ch’ella amava e conosceva, certo, ignorandone però la triste realtà della tubercolosi e scrivendo sull’impulso d’orrore, in lei suscitato dai racconti dei sorveglianti, i quali avevano interesse e necessità di discolparsi, scaricando la responsabilità delle carenze igieniche su suo fratello.
“Spesso non gli si dava neppure un lume; il poveretto moriva di paura, ma non domandava mai nulla. Trascorreva le sue giornate, senza poter fare niente e questa situazione fu molto nociva per il suo spirito oltre che per il suo corpo […]. Le guardie municipali lasciarono sempre che mio fratello languisse in mezzo agli escrementi e non entravano che per i pasti, senza sentire alcuna pietà per questo sventurato fanciullo.
Nessuno ebbe mai il coraggio di denunciare le crudeltà, a cui mio fratello fu sottoposto: sarebbe stato cacciato l’indomani”.
Ne volete una conferma? Nel processo verbale del Consiglio generale della Comune del 27 marzo 1794 (7 germinale, anno II) si può leggere quanto segue: “Cressend si è permesso di compatire la sorte del piccolo Capeto […]. Il Consiglio ordina che il cittadino Cressend sia escluso dal Consiglio e che sia inviato
immediatamente alla questura”.
Madame Royale, istruita dalla zia, reagirà alla prigionia: cura la propria igiene, spazza la sua cella, fa ogni giorno nella sua stanza un’ora di esercizi fisici e di cammino, si sforza di leggere e di rileggere i pochi libri che ha a disposizione, lavora a maglia, sebbene ciò l’”annoi molto”…. Ma il bimbo è senza sostegni, senza neppure un gioco per svagarsi!
Durante la sua prigionia il fanciullo, per tre giorni di seguito, rifiuta di mangiare: il cuoco Gagnié (che testimonierà questo fatto al tempo della Restaurazione) ottiene allora dal Comitato per la sicurezza generale l’autorizzazione a farsi aprire le porte della cella, per poter vedere il fanciullo e rendersi conto di persona di come stanno le cose. “Già nel salire le scale che conducevano alla sua cella”, ricorda, “io avvertii un fetore ammorbante […]. Affermo che, entrando nella stanza, vidi il giovane Prìncipe, riverso, in posizione curva, le calze arrotolate, con un ginocchio e un braccio tumefatti, nell’impossibilità di alzarsi, il collo roso dalla scabbia. Gli chiesi per quale ragione non avesse toccato cibo per tre giorni, ed egli mi rispose: «Che vuoi amico mio, desidero morire!»”.
Nella sua deposizione Gagnié precisa, naturalmente, che il bimbo da lui veduto era il figlio di Luigi XVI, ch’egli lo conosceva bene ed enumera anzi tutte le volte in cui l’aveva visto, dal momento del suo arrivo al Tempio: egli era stato infatti uno dei membri del personale di servizio che, a suo tempo, si erano adoperati, perché cessassero le orge attorno al biliardo. Gagnié aveva osservato allora (e di ciò renderà testimonianza in seguito) lo stato di eccitazione del tutto innaturale in cui si trovava il bambino e come le guardie se lo gettassero l’un l’altra, sfidando Gagnié stesso ad associarsi a questo loro gioco da canaglie alcolizzate.
Il cuoco Gagnié sarà uno dei pochissimi ad avere il coraggio di vergognarsi di tanta bassezza. Egli non ha dubbi: dopo che nulla era stato tralasciato per traviare il piccolo Sovrano, ora lo si voleva uccidere per asfissia, lasciandolo marcire solo e abbandonato. Il piano è, dunque, quello di sempre: “Disfarsene!” Chi ha impartito quest’ordine? Chi vuole murarlo vivo? Hébert e Chaumette, senza dubbio, sono stati i primi, ma si può dire che sia stato poi l’intero Comitato di salute pubblica, divenuto l’anima della Repubblica in quei primi mesi del 1794, a pretenderlo.
Il bambino non parla più e si comprende perché. Inutile vaneggiare di un sostituto sordomuto! Il piccolo cristiano, il piccolo Re (circostanze queste che molti storici trascurano o che non arrivano a concepire) col pensiero ritorna sui suoi giorni passati: ora che non è più costretto a bere e che la sua mente, tornata sobria, non conosce più l’euforia dell’alcool, di quali tristi pensieri diviene preda? Anche se debilitato, Luigi XVII resta pur sempre un bel bambino, intelligente e sensibile: egli si rende perfettamente conto (non c’è da dubitarne) di ciò che gli hanno fatto commettere e che cosa lui è diventato. Prende perciò partito di non più rivolgere la parola a persone tanto malvagie, come del resto farà anche sua sorella maggiore di lui.
Frattanto anche la Principessa Maria Teresa rimane sola: il piano di sterminio dei Reali è implacabile e non conosce soste. Il 9 maggio 1794, la zia, Madame Elisabetta, questa Principessa dal portamento e dai sentimenti così elevati, che tutti al Tempio hanno visto pregare, meditare, leggere libri di spiritualità e, soprattutto, dedicarsi con la più grande devozione al Re suo fratello, Luigi XVI, e ai suoi nipoti, così coraggiosa e attiva, sempre pronta a consolare e che spesso si mette perfino a cantare per tenere
allegri i fanciulli, viene prelevata dalla stanza che divide con la nipote e il 10 maggio affronta la ghigliottina: si sa con quale ammirevole e santa dignità.
Del gruppo dei condannati che vengono condotti al supplizio sulla sua stessa, eroica carretta, Madame Elisabetta è l’ultima ad ascendere al patibolo: le donne l’abbracciano; i gentiluomini, in segno d’ossequio, le rendono l’inchino, come un tempo a Versailles; i popolani la salutano. Ella ha per ciascuno una parola d’incoraggiamento e per ciascuno recita, a voce alta, il de profundis. “Per l’onore di vostra madre, Signore,
copritemi!”, esclama all’aiutante del boia che le vorrebbe strappare lo scialle. Quando, mozzata, cade la sua testa, un profumo di rose si spande sulla piazza.

PROSEGUE IL MARTIRIO DEL PICCOLO RE: LUIGI XVII DALL’INCORRUTTIBILE. MONARCHIA E REPUBBLICA FACCIA A FACCIA. HÉBERT: MORTE DI UN INFAME

“Venne un giorno un uomo”, ricorda Madame Royale, “che io credo fosse Robespierre. Le guardie municipali gli manifestavano grande rispetto e la sua visita rimase segreta. Neppure le persone della Torre lo riconobbero”. (Madame Royale allude qui al personale di servizio, col quale Robespierre si era mischiato). “Venne da me, mi scrutò con protervia, esaminò i libri e, dopo aver bisbigliato qualcosa alle guardie, se ne andò”.
Madame Royale non mente: alcuni ragguagli del suo racconto coincidono con alcune notizie riservate, contenute nei rapporti stilati dall’agente segreto inglese presso il Comitato di salute pubblica. Questi rapporti riflettono, com’è logico, il continuo fluttuare delle opinioni e le crisi che agitano il Comitato, ragion per cui spesso l’informatore registra, accanto a notizie esatte, semplici voci di corridoio; annota le accuse, le concussioni, i ricatti con cui Hébert si fa versare mille scudi o con cui la Comune o il club dei Cordiglieri si fanno pagare; segue i giri di denaro di questa banda di bricconi e d’incapaci, che stanno liquidando la ricchezza nazionale, i tesori dell’arte e il patrimonio della Chiesa, per coprire le loro spese, stipendiare i loro agenti e le loro armate, fra congiure e macchinazioni di cui si accusano a vicenda.
Ebbene, cosa traspare da questi rapporti riservati? Che le sorti della famiglia reale sono legate alle convulsioni della Repubblica: dapprima sono Hébert, la Comune, i Cordiglieri «che vogliono sgozzare i prigionieri del Tempio»; poi sono Robespierre e Sieyès che, sgomenti, minacciati nel marzo 1794 dalla frazione hébertista, decretano, per anticiparla, che “occorre assolutamente disfarsi dei prigionieri”, «distruggere quello che resta del Tempio» con “una sommossa popolare” e saziare così la folla, facendo per di più un piacere a Pitt (!), “che voleva la distruzione della dinastia dei Borboni”. “Il Comitato deve pensare”, dichiara Sieyès, “che la morte di Luigi XVII può essere la salvezza della Repubblica, perché questo evento modificherebbe subito il corso della guerra”.
Intanto Hébert viene arrestato la notte del 4 marzo 1794, con l’enorme accusa di essere, lui, il signore della Comune, nientemeno che un agente di Pitt, il Primo Ministro di Sua Maestà britannica, e di brigare per ristabilire sul trono il piccolo Capeto! Lui, Hébert, stando all’accusa, avrebbe dovuto presiedere addirittura il Consiglio di Reggenza! E mentre la stampa provvede a divulgare le imputazioni contro di lui, il 24 marzo, Père Duchesne e la sua cricca di Arrabbiati vengono giustiziati. Mai un condannato più pavido e più vile salì sul patibolo. Chaumette, il suo compare, nonostante l’avesse rinnegato in un estremo tentativo di salvarsi la vita, lo seguirà nella tomba con la stessa imputazione.
Quanto a Simon, egli riesce invece a passarla liscia: quando già stavano per venire a galla i suoi errori e le sue compromissioni, egli ha l’astuzia di farsi robespierrista.
Qualche giorno più tardi riceverà, in ricompensa, una nuova prebenda: i carriaggi di Parigi.
Nell’aprile del 1794, sono Danton e gli Indulgenti (Camille Desmoulins, il ladro Fabre d’Églantine) a passare sotto la ghigliottina per crimini di moderatismo e di tentata restaurazione monarchica. In nessuno di questi processi, nel corso dei quali anche le verità più scomode e più aspre vengono gettate in faccia agli avversari e in cui non si bada certo a ricatti, si solleva mai una questione di evasione o di sostituzione del piccolo Luigi XVII.
A Robespierre, passato questo terribile momento di panico, è dunque riuscito di eliminare tutti i suoi avversari: il Terrore impera, la ghigliottina furoreggia ovvero furoreggia il piccolo avvocato di Arras, l’ideologo dalla folle ambizione. Mentre la Francia giace esangue ai suoi piedi, egli rende noto il suo programma ideologico e prepara la propria apoteosi, nella festa dell’Essere Supremo.
Decide perciò di prendersi un giorno di riposo, per gioire del proprio trionfo e per godersi lo spettacolo delle sue vittime: “Nella notte fra il 23 ed il 24 maggio”, scrive l’agente segreto britannico, “Robespierre si recò a trovare il Re al Tempio e lo condusse a Meudon”. Il fatto è certo, quantunque ne fosse al corrente soltanto il Comitato di salute pubblica. “Si assicurò poi che fosse ricondotto al Tempio la notte fra il 24 ed il 25. Si crede che l’intento fosse quello di dimostrare con quanta facilità ci si poteva impadronire del fanciullo”. Quest’intento è, naturalmente, una finta: l’agente inglese s’inganna, come quando, in aprile, dà credito alla notizia, falsa, secondo cui Luigi XVII godrebbe di miglior trattamento.
L’Incorruttibile approfitta poi di questa sua visita al Tempio, per vedere anche la sorella del Re, gettandole quello sguardo protervo, che la Principessa non ha mancato di notare. Robespierre, l’incarnazione della Repubblica intransigente e pura, contempla a Meudon l’incarnazione della Monarchia decaduta, quel piccolo Sovrano, erede avvilito di una stirpe di Re da lui tanto aborrita.

TERMIDORO: LIEVI ADDOLCIMENTI E NUOVE SOFFERENZE PER LUIGI XVII

Uscito un  solo giorno, il bambino viene di nuovo imprigionato nel suo stanzino. Il caldo soffocante di quell’estate del ’94 si fa sentire. “Tale era il nostro stato”, racconta Madame Royale, “quando giunse il 9 termidoro” (27 luglio 1794). “Sentimmo le campane suonare a stormo per chiamare l’adunata. Ero assai
inquieta […]. Il 10 termidoro, alle sei del mattino, si udì al Tempio un gran trambusto; la sentinella dava l’allarme, rullavano i tamburi per l’adunanza, porte si aprivano e si chiudevano.
Tanto clamore era per alcuni membri della Convenzione nazionale, che venivano a vedere se tutto al Tempio era tranquillo. Il rumore del catenaccio che apriva la porta di mio fratello mi fece balzare giù dal letto. Mi vestii in tutta fretta, appena in tempo per vedermi entrare in camera i membri della Convenzione Barras e Delmas in alta uniforme, il che mi meravigliò un po’, perché non vi ero abituata”.

Robespierre alla ghigliottina, dopo il colpo di
Stato detto di Termidoro (27 luglio 1794).

Ma se “il tiranno” Robespierre è stato eliminato (seguìto, stavolta, anche da Simon) non per questo a Luigi XVII è consentito uscire dalla sua prigione. Quei membri della Convenzione, che hanno tratto vantaggio, prima dalla Rivoluzione e poi dal Termidoro, non vogliono saperne, neanche loro, del piccolo Capeto.

Nelle sue Memorie, Lombard de Langres narra la visita di Barras al piccolo Prìncipe, basandosi sui ricordi dello stesso Barras, di cui egli era segretario: “Rifiuti corporei giacevano accumulati in più angoli della cella […]. Ciò che impressionò di più il generale Barras fu un lettuccio, a forma di culla, collocato in mezzo alla stanza e costituito da un materasso senza lenzuolo, sul quale il figlio di Luigi XVI se ne stava rannicchiato. Quella culla era davvero troppo piccola per la sua altezza e non poteva contenerlo, quando vi si sdraiava […]. Barras pensò che dormisse, ma poi si accorse che teneva gli occhi aperti. Gli domandò allora, perché preferisse quella culla al suo letto, dove avrebbe potuto riposare più comodamente. Senza neppure muoversi, il bambino rispose che soffriva di meno in quella culla che nel suo letto. Allora il generale gli chiese, se fosse malato e dove sentisse male: invece di parlare, il bimbo si accontentò d’indicargli la testa e le ginocchia […]. Barras ordinò allora ad un ufficiale della guardia municipale e ad un ufficiale di servizio di sollevarlo con cautela e di metterlo in piedi, per vedere se poteva camminare. Il bimbo non si prestò che a malincuore a questi tentativi, pur se fatti con qualche riguardo. Non riuscì infatti a stare in piedi, tanto che volle appoggiarsi alla culla, dove subito si gettò con la testa. Di nuovo Barras ordinò che si provasse a rialzarlo, tenendolo sollevato per le braccia; ma, fin dal primo passo, il bimbo denunciò dolori tanto forti che subito fu fatto sedere. Vestiva un gilet e pantaloni di panno grigio; i pantaloni gli andavano stretti e pareva gli dessero fastidio. Per accertarsi del male, Barras fece allora tagliare le calze in alto e i pantaloni da entrambe le coste, fin sopra i ginocchi, che riscontrò estremamente gonfi e lividi all’aspetto”.

Ancora una volta ogni ipotesi di sostituzione del fanciullo si rivela impossibile: il giorno in cui Barras viene a trovare Luigi XVII, è infatti commissario di guardia al Tempio il medico Lorinet, cioè uno dei quattro Commissari che ne avevano materialmente rilevato la custodia dalle mani di Simon, il 19 gennaio di quell’anno. Inoltre Barras descrive il piccolo Re, pallido, con dei gonfiori alle mani, alle caviglie, ai ginocchi: sono precisamente i mali (negli stessi punti) che aveva riscontrato Gagnié.

Racconta, Barras, di aver dato disposizioni, affinché fosse fatto venire il medico Desault: in realtà nessun medico visita Luigi XVII. Barras si disinteressa totalmente di lui, salvo assegnare al Tempio, “come guardiano dei figli del tiranno”, un suo fido, un creolo ventiquattrenne, Laurent, intelligente, convinto repubblicano e democratico solerte. Questo guardiano sostituirà nel loro incarico i Commissari della Comune. I fatti di Termidoro non cambiano, nella sostanza, la condizione dei prigionieri. Il Comitato di salute pubblica decreta infatti che «il servizio al Tempio si svolga nella maniera consueta»; vi è dunque solo un addolcimento formale. Laurent è un repubblicano fanatico, ma non un sanculotto; il suo arrivismo, il desiderio di far dimenticare la reputazione di giacobino violento e di terrorista che si era guadagnato in passato, lo spingono a comportarsi con grande affabilità verso la giovane Principessa. E Madame Royale, che non vi più abituata, lo percepisce. Ma Laurent resta inflessibile nell’adempimento delle sue mansioni, che esercita alla lettera, rifiutando anche di rispondere alle domande della Principessa. Madame Royale, rimasta sola nella sua cella, non riceve nessuna notizia: non sa neppure dell’esecuzione di sua madre e della zia. Al piccolo Re, sempre recluso e isolato nella sua cella, Laurent finalmente fa cambiare il letto; lo fa lavare dall’ostessa del Tempio, madre Mathieu, che gli taglia i capelli e lo pettina; gli fa medicare, di quando in quando, le piaghe al collo e alla testa da parte di una guardia municipale-chirurgo.

Ma questi riguardi non nascondono neppure un attimo di commozione e, meno ancora, un mutamento d’opinioni. Da zelante repubblicano, il 31 luglio 1794 (13 termidoro) scrive nel suo rapporto: “Tutto è calmo e tranquillo. Le mansioni vengono espletate con vigile sollecitudine. Cinquecento uomini compongono la guardia. I prigionieri non comunicano con nessuno e stanno bene. Le camere dei due figli del tiranno sono chiuse e ben sbarrate. È urgente che la Convenzione nazionale mi dia un aiutante, perché, da solo, malgrado la mia buona volontà, non ce la faccio più”. Laurent ripeterà questa richiesta, come un ritornello, in tutti i suoi rapporti. Come immaginare che un uomo del genere, che invoca un aiutante per la sorveglianza del Tempio, possa al tempo stesso progettare il rapimento o la sostituzione di Luigi XVII? Sul momento però Laurent ottiene soltanto del personale “per pulire la stanza del figlio di Capeto e per disinfestarla dai parassiti introdottisi a causa della sporcizia”. Ma la disinfestazione tarda ad arrivare. Passa settembre, passa ottobre e l’aiutante non si vede. Laurent non si rassegna e scrive lettere su lettere al Comitato; in esse, oltre alla solita richiesta, spiega di avere una responsabilità terribile in un momento in cui i legittimisti rialzano la testa; afferma che gli uomini del contingente di guardia, non vedendo mai i Principini, si domandano, “se stiano lì a sorvegliare delle pietre o qualche cosa”; rivela, infine, d’essere stato denunciato durante le adunanze della sezione del Tempio. Denunciato, in effetti, lo fu, ma come distrattore di fondi pubblici, disertore, terrorista e vecchio amico di Robespierre.

Per farsi passare come un buon diavolo e per cercare di entrare nelle simpatie di chi comanda, questo furbo giovanotto propone, nelle sue lettere, risparmi e tagli di spesa nell’ingarbugliata gestione economica del Tempio, in un momento più che difficile per le pubbliche finanze. Risparmi e tagli di spesa che non compromettono in nulla, però (com’egli stesso osserva in un suo rapporto al cittadino Aumont, capo dell’amministrazione di polizia civile) la sicurezza dei prigionieri affidatigli. Come inferire dunque da queste lettere un piano d’evasione?

LA FALSA NOTIZIA DELL’EVASIONE DEI PRINCIPINI DAL TEMPIO. INUMANITÀ DELLA CONVENZIONE RIGUARDO AL PICCOLO RE

Fra i politicanti della Rivoluzione e nel giro delle spie e della polizia, a Parigi come a Londra, si sparge frattanto la voce di un’evasione dei Reali dal Tempio e di un’ipotetica restaurazione. Ciò era, ovviamente, impossibile, com’è ampiamente documentato dal carteggio con i suoi amici di Mrs. Atkyns, questa romantica signora inglese che, nella sua smania di salvare la famiglia reale, si fa derubare da dei falsi informatori. Alla fine tutti i suoi corrispondenti debbono ammettere, dopo aver acceso false speranze, d’essere stati raggirati. Nessuno comunque crede a ipotesi d’evasione o di sopravvivenza e il più categorico è il generale Frotté. Già il 1° settembre 1794, dopo l’esplosione della polveriera di Grenelle, i convenzionali Dumont e Goupilleau de Fontenay, si recano al Tempio, per assicurarsi che perduri la detenzione dei Principini. E Goupilleau, che accompagnava Barras durante la sua visita al piccolo prigioniero nel luglio di quell’anno, riconosce ancora nel fanciullo il Re Luigi XVII.

Quindi, il 28 ottobre 1794, nel cuore della notte, su ordine del Comitato per la sicurezza generale, il Tempio viene ispezionato dai due delegati Reverchon e, ancora, Goupilleau. Quest’ultimo, che già conosceva il fanciullo, lo riconosce così di nuovo, per la terza volta. Non esiste una sola testimonianza diretta e attendibile, per situare a questo momento una sostituzione e meno che meno una serie di sostituzioni a cascata, con tanto di nascondigli e inganni, salvo non si vogliano davvero prendere sul serio le false lettere di “Laurent”, dirette a un ignoto generale, che si diceva essere, nel secolo scorso, nientemeno che il generale Frotté! Più d’uno ha accolto questi falsi grossolani, privi degli originali e definitivamente smascherati da Gustave Bord. Frattanto, in seguito a questo falso allarme, il Comitato ingiunge al comandante militare del Tempio d’impartire le disposizioni, le più rigorose, al fine di “prevenire anche solo l’ombra d’una possibile evasione” e impone “la nomina di un cittadino di provata fede repubblicana”, da aggiungere alla guardia del Tempio, cui si accompagnerà un Commissario delle sezioni civili di Parigi, che sarà avvicendato ogni giorno.

Il falso allarme fa ottenere a Laurent, finalmente, l’aiutante che tante volte ha richiesto: si chiama Gomin e si presenta al Tempio l’8 novembre 1794. Nel timore che si possa accusare la Convenzione di eccessiva indulgenza, il convenzionale regicida Mathieu comunica alla tribuna che “il Comitato per la sicurezza generale non ha inteso curare sotto un profilo materiale un servizio affidato alla sua sorveglianza. Esso è ben lungi da qualsiasi idea di migliorare le condizioni di prigionia dei figli di Capeto o di affidarli ad istitutori. I comitati e la Convenzione sanno come si fanno rotolare le teste dei re, ma ignorano come si educhino i loro figli […]. II figlio di Capeto resterà umiliato”. Ed è proprio Mathieu che viene incaricato dal Comitato, il 19 dicembre (29 frimaio) di procedere ad un’ispezione al Tempio, accompagnato dai convenzionali regicidi Harmand de la Meuse e Reverchon: a meno d’immaginare un romanzo (come si è fatto!) costoro, tutti, vengono per riconoscere un fanciullo ben determinato e da loro ben conosciuto, e non certo per raccontare frottole o fare la commedia.

Harmand de la Meuse scrive nel 1814, sotto la Restaurazione, la cronaca di questi fatti. Nonostante lo stile ampolloso, le opinioni e il ruolo che il buon uomo si attribuisce (i quali sono evidentemente più che discutibili, tanto che si è soliti mettere in dubbio la sua attendibilità) raccontando di questi fatti egli si dimostra invece chiaro e sicuro: descrive la stufa, la porta sbarrata. Sottolinea la pulizia degli ambienti, che ora viene fatta regolarmente. Il fanciullo ch’egli vede, nel corso di quest’ispezione, è incontestabilmente lo stesso che ha visto Barras a termidoro, lo stesso visto da Gagnié prima ancora: prostrato, illanguidito a causa della tubercolosi e tuttavia assai attento; sul viso un’espressione fiera, egli non risponde né vuole rispondere a quest’uomo della Rivoluzione, sebbene intenda benissimo.

La patologia è quella ben nota alla scienza medica: polsi e gomiti tumefatti; noduli sotto le ascelle; ulteriori tumefazioni alle ginocchia e ai garretti; le gambe e le cosce allungate e sottili, come pure le braccia; corto il tronco, il torace alto, spalle rinserrate; un fisico affetto da rachitismo, con una conformazione difettosa, a causa dei terribili patimenti sofferti dal piccolo Re per ben due anni, in piena fase di crescita; ereditariamente predisposto (secondo la legge dell’atavismo) alle scrofole, come i suoi antenati. Colpito dallo stesso male che condusse alla morte suo fratello maggiore, questo fanciullo regale, più di chiunque altro avrebbe necessità di sole, d’aria e di moto, come sua madre aveva detto.

Harmand de la Meuse prosegue: “Il capo assai bello, in tutti i suoi particolari; la carnagione chiara, priva di colorito; i capelli lunghi e belli, curati, di un colore castano chiaro”. (Il bambino è dunque sempre il grazioso Prìncipe). I convenzionali presenziano al suo pasto: lenticchie, bollito e castagne, lo stesso vitto degli altri prigionieri. Harmand scarica ogni responsabilità su Simon e sulla Comune, cercando di discolpare la Convenzione; ma, in realtà, anche in questa circostanza, i tre emissari della Convenzione non fanno niente di più di quanto aveva fatto Barras. Non v’è traccia di rapporti, né di medici. E mentre i giornali francesi, le Corti europee seguono con grande attenzione le condizioni del piccolo Re (e un Mallet du Pan se ne farà eco) la consegna, al Tempio, rimane sempre la stessa.

Per convincersene, basta sfogliare i verbali della discussione, tenuta alla Convenzione, circa il problema «dell’ultimo rampollo della razza impura del tiranno, ch’è incarcerato al Tempio». Cambacérès, il 22 gennaio 1795 (3 piovoso) pone questa conclusione al suo intervento: scarcerazione no; sì alla reclusione perenne. Se prima se ne attendeva la morte, adesso addirittura la si auspica; auspicio, che non può non farsi sempre più pressante in quei convenzionali che più spietatamente avversano la monarchia, allorché l’evoluzione politica di quel primo semestre del 1795 conduce ad intavolare trattative di pace, da un lato con le potenze straniere belligeranti (e, particolarmente con la Spagna5 che, della liberazione e della consegna dei piccoli Reali, fa una condizione preliminare alla pace) e, dall’altro, con gl’insorti vandeani, con Charette in specie. Ma, finché vivrà, la consegna di Luigi XVII (e di Madame Royale) sarà sempre elusa dalla Repubblica, come traspare anche dai documenti ufficiali. Charette infatti riprenderà i combattimenti il 26 giugno 1795, rompendo la falsa pace di La Jaunaye, proprio dopo aver appreso della scomparsa del piccolo Re.

 I GIORNI DELLA FINE E DELLA PIETÀ

Ma se i convenzionali non conoscono pietà, i guardiani, loro, s’impietosiscono.

Quando arriva Gomin, il fanciullo di salute sta un po’ meglio: lo si chiama ora “Signor Carlo” e non più “Capeto”. “Perché vi prendete cura di me?”, domanda a Laurent, che aveva ordinato di farlo lavare, guardandolo con i suoi occhi grandi. E aggiunge: “Credevo che voi non mi voleste bene”. Qualche volta Laurent lo fa salire sul terrazzo della Torre, a fatica, sorreggendolo. Lì il bambino raccoglie qualche fiore smagrito, che si aggrappa ai muri della merlatura. Quando ne discende, passando davanti alla porta del terzo piano, apre la mano e sparge i suoi fiori sulla soglia: se lo ricorda, lì dimorava sua madre, la cui sorte egli ignora.

Lo storico Beauchesne conobbe benissimo Gomin, uomo timido, ma dal cuore buono. Al Tempio Gomin abbandonerà le sue idee rivoluzionarie, avvertendone ogni giorno di più l’odiosità. Quest’uomo gentile prende a voler bene al piccolo Prìncipe, le cui condizioni miserevoli gli destano compassione: così, all’ora di cena, gli prolunga un poco la durata dell’illuminazione (che, invece, Laurent gli nega); gli fa passare un po’ di tempo, gli regala dei fiori, delle carte; si studia di addolcire un po’ il regolamento o gli orari, che sono sempre rigorosi. Cerca di contenere gl’insulti e i sarcasmi verso il bambino dei Commissari repubblicani di servizio: “E io vi dico, cittadini, ch’egli sarà imbecille o idiota prima di sessant’anni, se non sarà crepato prima”, sbraita un giacobino incallito. Al che il piccolo Re: “Io tuttavia non ho mai fatto del male ad alcuno”.

Gomin comprende a poco a poco tutta la delicatezza, la dignità fiera, la dolcezza di questa piccola anima regale, infinitamente offesa. Ma mai, né lui, né Laurent infrangeranno le consegne. Fra queste, vi era che fratello e sorella non potessero mai vedersi: era il regolamento. E quando, un giorno, il bambino, direttosi verso la camera della madre, lo implora: “Voglio rivederla, almeno una volta; permettetemi di rivederla, prima di morire…”, ricacciando indietro le lacrime, il buon Gomin lo allontana. Il 29 marzo 1795 Laurent è sollevato, su sua richiesta, dalle sue funzioni. Lo sostituisce, il giorno 31, Étienne Lasne: ex guardia francese (incorporata poi nella Guardia Nazionale) egli aveva sfilato in parata alle Tuileries con il reggimento Real Delfino, davanti al suo piccolo colonnello.

Lo storico Beauchesne, che lo incontrò in vecchiaia, strinse con lui amicizia: sia Lasne che Gomin (che, con Madame Royale, sono i testimoni più sicuri e le fonti più dirette di tutto l’affare del Tempio) certificarono, con la propria firma, il libro di testimonianze raccolte dallo stesso Beauchesne. La loro cronaca dei fatti, come pure le dichiarazioni giudiziali che resero, quando si celebrò il processo al falso Delfino, sono improntate ad una onestà meticolosa e sincera. E i giudici vi credettero. Impossibile accusarli. Né la validità delle loro testimonianze può essere inficiata da alcune sfasature che si riscontrano nelle loro deposizioni, le quali, d’altronde, furono rese davanti al magistrato in tarda età.

Questi due uomini, Lasne e Gomin, sono, in effetti, gli ultimi testimoni della vita, della morte e dell’identità di Sua Maestà Cristianissima il Re, Luigi XVII: ed è proprio questo che non si perdona loro. Ed è proprio per questo che tutta una schiera di storici cerca di screditarli, accomunando nella calunnia anche la duchessa d’Angoulěme: Lasne attesta infatti che è precisamente il fanciullo ch’egli vide alle Tuileries nel 1790/91, quello ch’egli prende in custodia nel 1795; che il bambino gli è morto fra le braccia e ch’egli stesso l’ha accompagnato al cimitero. Col suo carattere franco, Lasne si affeziona a questo bambino stremato, ma pure tanto amabile, così ricco di qualità interiori, di premure e di affetto, che il fango del disonore e dell’orrore avrebbe dovuto sommergere.

Negli ultimi giorni di vita, il piccolo Re non è che dignità, semplicità e perdono, come gli aveva chiesto suo padre: Lasne lo copre di premure e ha ogni giorno per lui dei riguardi. Zoppicante, lo fa salire sul camminamento dove passa la ronda; per tenerlo allegro, canta e il bambino sorride. Il “Signor Carlo” diventa l’amico del cuore di questo soldato, figlio del popolo; e a lui, che aveva ripreso a dargli del “voi”, il bimbo si rivolgerà col “tu”, come un piccolo Re. A Lasne, che un giorno gli ricorda le sfilate del suo reggimento, il piccolo Prìncipe sussurra, come in un soffio, “allora tu mi hai visto con la mia spada?”

Si avvicina intanto la fine. Il fanciullo, che aveva trascorso l’inverno accanto al fuoco, bersaglio di frequenti attacchi febbrili, colto ora da marasmi, deve restare chiuso in camera. Non riesce più a camminare e ogni movimento gli è causa di dolori atroci. Lasne e Gomin, violando per la prima volta la consegna, osano scrivere: “Il piccolo Capeto è indisposto […] è gravemente ammalato […]. Si teme per la sua vita”. Il 6 maggio 1795, il Comitato per la sicurezza generale manda a loro il dottor Desault, primo ufficiale di sanità presso l’ospedale dell’Humanité (ex Hôtel Dieu). Ma è troppo tardi. Il celebre clinico se ne avvede subito: il bimbo sta morendo. Per lui ci vorrebbe dell’aria pura, della campagna, non il chiuso di una torre vetusta. Non c’è più nulla da fare; il medico si limita a prescrivergli una ricetta, a base di calmanti e di corroboranti, raccomanda che gli si facciano delle frizioni, quindi torna a visitarlo.

Il 31 maggio, il Commissario di turno Bélanger, che è anche pittore, traccia con la matita il profilo di Luigi XVII, ch’egli “conosceva bene”. Il 1° giugno 1795, il dottor Desault muore: corre voce di un suo avvelenamento, ma l’autopsia, eseguita da Corvisart sul suo corpo, non rivela alcuna traccia di veleno. Lo sostituisce il dottor Pelletan, cui si affianca il dottor Dumangin. Intanto il piccolo Sovrano viene finalmente trasferito nella torre piccola, in una camera areata e senza serrande. Da quel momento, non c’è più vera prigionia: tutti lo possono vedere, anzitutto le guardie che, del resto, già lo conoscevano. La notte tra il 7 e l’8 giugno lo stato del piccolo infermo si aggrava: chiamato d’urgenza al suo capezzale, Pelletan non si disturba a venire! Il mattino dell’8 i due medici trovano il bambino in condizioni gravissime: la povera anima soffre molto, il ventre è contratto e dolorante.

Quando i medici se ne vanno, Gomin si china in ginocchio accanto al piccolo Re che muore. Vedendolo soffrire molto, cerca di confortarlo: il bimbo gli afferra allora la mano e se la porta alle labbra. Passa qualche istante di silenzio. “Spero che ora voi non soffriate”. “Oh, sì! Soffro ancora, ma molto meno: questa musica è così bella!” “Da dove sentite questa musica?” “Da lassù!” “Ed è da molto che la sentite?” “Dacché vi siete inginocchiato vicino a me. Come? Non l’avete sentita? Ascoltate! Ascoltatela!” E con la mano il bambino indica il piano di sopra. Gomin finge di ascoltare. “Sentite! In mezzo alle altre voci ho riconosciuto quella di mia madre”: sorride.

Entra anche Lasne. Il bimbo deve sopportare ancora un’ultima, terribile crisi.Gomin esce dalla camera, per scrivere e spedire al medico una richiesta urgente di soccorso. Il piccolo Re si aggrappa alla mano di Lasne: “Ti devo dire una cosa…”, ma la sua testa reclina sul braccio dell’amico. Termina così l’esistenza terrena del Re Luigi XVII. È l’8 giugno 1795, alle due del pomeriggio. Aveva dieci anni, due mesi e dodici giorni.

Lasne e Gomin, rispettando sino alla fine le consegne ricevute, rimangono in attesa di ordini. Il 9 giugno 1795, il deputato Sevestre ne annuncia la morte alla Convenzione. Lasne, Gomin e i Commissari Damont e Darlot, di guardia quel giorno, sono incaricati d’identificare la salma del figlio di Capeto: tutti lo riconoscono. Damont e Darlot precisando anche “di averlo visto molte volte alle Tuileries”. Damont, Commissario di turno anche alla vigilia della morte, aggiunge «di averlo visto infermo, ma ancora vivo al suo arrivo al Tempio». Anche il secondino Gourlet, lo riconosce. Quattro medici (Pelletan, Dumangin, Jeanroy e Lassus) procedono all’autopsia. Il referto necroscopico rivela la malattia e le sofferenze del bambino, nonché la causa del suo doloroso marasma: diversi tumori, turgidi di materia puriforme e di sostanze linfatiche, nelle ossa, negl’intestini, nello stomaco e grande quantità di tubercoli.

Nessuna traccia di veleno. Effettuata una sommaria pulizia mortuaria, lo stato maggiore della guardia si presenta per identificare il corpo del figlio di Capeto; il 10 giugno, anche il nuovo Commissario di turno, Guérin, riconosce il bambino, giacché “egli aveva visto in passato il Delfino alle Tuileries”.

Su ordine del Comitato per la sicurezza generale, quello stesso giorno, alle sette di sera, l’ufficiale di polizia redige l’atto di morte del piccolo Capeto. Un ultimo riconoscimento della salma viene effettuato dai Commissari civili della sezione del Tempio e dallo stato maggiore della guardia ed è sottoscritto da tutti. II corpo viene adagiato dentro una bara di legno bianco, avvolta da un velo nero. Quindi si fa scendere il feretro; il grande portone del palazzo del Tempio, dove stazionavano dei balordi, viene spalancato. Alcune guardie aprono il passaggio; seguono Lasne, i Commissari civili e di polizia. Tutto si svolge nel più grande ordine.

La bara, portata a spalle, viene interrata nella fossa comune del cimitero di Santa Margherita: non un tumulo, né una lapide ad indicarne il sito6. Viene firmato il verbale dell’avvenuta inumazione e due sentinelle sono poste a guardia del cimitero. Il 12 giugno 1795 l’atto di morte viene trascritto nei registri dello stato civile. Tutto l’iter burocratico procede secondo le regole e ogni sua fase è documentata e autenticata. Lo scheletro del fanciullo, ritrovato da d’Andigné nel 1801, entro il recinto del Tempio, non è quello di Luigi XVII. Il cuore che il medico Pelletan pretende d’aver espiantato dalla salma di Luigi XVII e che egli vorrà offrire al Re Luigi XVIII, non è il cuore del piccolo Re e non gli appartiene più delle ciocche di capelli che Damon pretende d’aver tagliato. Luigi XVIII, che farà condurre delle serie indagini su tutta la vicenda, lo sapeva e gli ripugnava accogliere fra le tombe dei Re di Francia, in Saint-Denis, delle reliquie false. In pari tempo egli (che già altre volte non era stato risparmiato da insinuazioni) temeva d’esser calunniato come ipocrita, se avesse fatto celebrare solenni esequie, in suffragio del nipote, dinnanzi a una tomba vuota. Questo saggio Re, perfettamente informato dalla duchessa d’Angoulême, ordina dunque di cessare le ricerche e le indagini inutili, preferendo il silenzio.

CONCLUSIONE

 Nel cimitero di Santa Margherita, a Parigi, una lapide semplicissima, sormontata da una croce, ricorda oggi il martirio del piccolo Re. Sulla croce sta l’iscrizione “L XVII 1785-1795”, mentre sulla lapide sono scolpite queste parole: “Attendite et videte, si est dolor sicut dolor meus” (“Fermatevi e considerate, se vi è un dolore simile al mio”). Esse riprendono un versetto biblico delle Lamentazioni di Geremia (1, 12), che contengono una profezia riferita sia al castigo e alla distruzione di Gerusalemme, sia ai dolori che sarebbero stati patiti dal Divin Salvatore, tant’è che la Santa Chiesa li pone sulle labbra della Santa Vergine Addolorata: “O vos omnes, qui transitis per viam, attendite et videte, si est dolor sicut dolor meus”. “O voi tutti che passate per la via, fermatevi e considerate, se vi è un dolore simile al mio”.

Su quest’unico punto ci permettiamo di osservare che l’insigne relatore ha avuto torto. Infatti l’8 giugno 2004, data altamente simbolica, la Basilica gotica di Saint-Denis, a nord di Parigi, è stata testimone di un evento senza precedenti. Qui, nella cripta, dove da tempo immemorabile riposano i Re di Francia, distolti dal loro sonno eterno soltanto dal furore anticristiano e regicida della rivoluzione, che ne profanò le tombe il 1° agosto 1793, si è tenuta l’inumazione del cuore del Re fanciullo Luigi XVII, figlio di Luigi XVI, murato nel 1792 a sette anni nella prigione del Tempio a Parigi e ivi lasciato barbaramente perire di stenti e di consunzione, appunto l’8 giugno 1795. Il test del DNA mitocondriale che ha comparato il campione tratto dal cuore di Luigi XVII con una ciocca di capelli della Regina Maria Antonietta da un lato e con il DNA dei Prìncipi di Casa Asburgo e Borbone dall’altro, ha confermato che fra il cuore espiantato da Pelletan e gli altri DNA estratti da discendenti Borbone e Asburgo sussiste un legame di parentela. Addirittura negli Asburgo è stata riscontrata una particolare e unica combinazione dei marcatori genetici del DNA mitocondriale (aplotipo). L’esame è stato eseguito dal Laboratorio di Analisi dell’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio, diretto dal genetista professor Jean Jacques Cassiman e dal professor Bernd Brinkmann, Direttore dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Munster, in Germania. Padre, oso dirvelo senza giri di parole e senza infingimenti: siete stato ingannato. Non è mio proposito qui, questa sera, discutere in quali modi si è carpita la vostra buona fede. Voi  mi avete autorizzato a vagliare e riassumere, in una futura conferenza, i documenti, le testimonianze e gli scritti a cui prestare fede, riguardo alla vita e alla morte del Re Luigi XVII: in proposito si possono consultare atti autentici, testimonianze veritiere, libri di storia seri, verdetti di tribunali. Ma quel che stasera io confido di avervi dimostrato, è quale enorme ingiustizia si farebbe nel privare il piccolo Re Luigi della palma del suo martirio e della sua morte. Fa d’uopo rendergli perciò quella che fu, ad un tempo, la ragione della sua esistenza e la causa della sua morte, il terribile e regale privilegio, d’essere, lui, il discendente della più nobile delle casate e la vittima innocente del più ignobile dei delitti. Quest’onore gli appartiene, nella santa storia del nostro Regno: che nessuno ardisca di sottrarglielo! Padre, voi che avete vendicato l’onore di Santa Giovanna d’Arco, nel suo martirio e nella sua morte, rendete giustizia a Luigi XVII, Re di Francia, nato a Versailles, deceduto nel Tempio, martire della religione della Corona. E poiché non siamo più tenuti alle prudenze, vere o presunte, dell’epoca della Restaurazione, preparate per questa piccola anima, per questo fanciullo, vittima interamente sacrificatasi, e privato fino ad oggi degli onori funebri, il più mistico dei sepolcri.

Frère HILAIRE DE JÉSUS

Luigi XVII. Ritratto di Madame Vigée Le
Brun (1820 circa) ricostruito in base ai ricordi
di Lady Hamilton e della Duchessa di Berry

Le Loro Maestà Luigi XVI e Maria Antonietta (ritratto di Elisabeth Louise Vigee Le Brun)

Sanculotti

Luigi XVII con la spada del reggimento Real Delfino

La prigione del Tempio a Parigi, antica sede dei Cavalieri Templari, in cui fu segregata la
Famiglia Reale e in cui perì il piccolo Sovrano, Sua Maestà Cristianissima Luigi XVII, Re di Francia

I massacri di settembre 1792. La canaglia rivoluzionaria agita come un trofeo sotto le finestre della prigione del Tempio la testa della Principessa di Lamballe, issata su di una picca

Sua Maestà Luigi XVI dà l’addio
alla sua famiglia

Luigi XVI in prigione separato dalla sua famiglia. Sulla destra, in ginocchio, s’intravede il fedele servitore Clery

Il Martirio di Sua Maestà Cristianissima Luigi XVI, Re di Francia.Figlio di San Luigi, salite al cielo!”, gli dice il confessore, mentre gli sgherri rivoluzionari coprono la voce del Re con il rullare dei tamburi per impedirgli di parlare al popolo

Il processo a Sua Maestà la Regina Maria Antonietta, nel corso
del quale i rivoluzionari le rivolsero le accuse più calunniose e
infamanti, incluso un presunto incesto con il figlio di otto anni

La Regina di Francia Maria Antonietta condotta alla ghigliottina

Sua Altezza Reale la Principessa
Maria Teresa Carlotta, detta
Madame Royale, sorella di Luigi
XVII, anch’essa detenuta nella
prigione del Tempio

Sua Maestà Cristianissima
Luigi XVII, Re di Francia.
Ritratto

Il piccolo prigioniero del Tempio, Luigi XVII, vessato dal suo “educatore” e carceriere Antoine Simon, che ne curerà la rieducazione rivoluzionaria. Il ciabattino “istitutore” Simon abbrutirà l’erede al trono di Francia insegnandogli a bestemmiare, a pronunciare parolacce e a cantare canzoni oscene. Lo farà ubriacare, lo corromperà facendolo iniziare da prostitute, fino a indurlo a testimoniare contro sua madre e sua zia con l’accusa infame di aver intrattenuto relazioni incestuose con lui; gli calcherà sul capo il berretto frigio dei sanculotti. Spingerà il povero bambino a inneggiare alla rivoluzione, alla decapitazione di suo padre e di sua madre, punendolo quando lo scopre di notte a pregare da solo nella sua cella

Robespierre alla ghigliottina, dopo il colpo di
Stato detto di Termidoro (27 luglio 1794)

fonte

https://associazione-legittimista-italica.blogspot.com/search/label/La%20vera%20storia%20e%20il%20martirio%20del%20piccolo%20Re%20di%20Francia%20Luigi%20XVII

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