L’albero della libertà a San Salvatore
Quando agli inizi del 1799 l’albero della libertà fu piantato nella piazza principale di San Salvatore, l’iniziativa fece storcere il naso a buona parte dei filo-borbonici, cioè alla maggior parte dei suoi abitanti. L’effimera Repubblica Napolitana era stata da poco proclamata e l’eco degli ideali giacobini era risuonata anche nel piccolo borgo sannita dell’antico Regno delle due Sicilie, ma la maggioranza della popolazione s’era subito mostrata insensibile rispetto alla novità.
Per la verità la stessa cosa avvenne in tutto il Regno dove il percorso politico della nuova Repubblica, fin dagli esordi, apparve in parte ignorato e in parte ferocemente osteggiato dalla nutrita schiera degli oppositori anti-francesi che organizzarono una strenua resistenza: una battaglia che a Napoli sfociò nella sanguinosa Rivolta dei Lazzari.1
All’epoca, il minuscolo centro abitato era composto da un ristretto gruppo di case raggruppate intorno alla chiesa parrocchiale, al castello che era stato dei duchi Monsorio2 e al palazzo della famiglia Pacelli, ormai nuovi signori del luogo. Un paese tranquillo, poco avvezzo alle dispute politiche, composto perlopiù da operosi massari e semplici contadini, molti dei quali nullatenenti, alcuni ai limiti dell’indigenza ed in perenne lotta con la sopravvivenza economica.
Il paese conservava questa denominazione per l’antica dipendenza con la vecchia abbazia benedettina del Santo Salvatore; l’aggettivo “Telesino” venne aggiunto in seguito, nel 1863, dopo l’Unità d’Italia.
In quei giorni convulsi del 1799, tra l’indifferenza generale, alcuni giovani del luogo si dimostrarono invece particolarmente attivi a favore della causa giacobina. Crescenzo Rabuano e Lorenzo Izzo, insieme a Libero Di Palma (giovane figlio di Francesco, ricco possidente del paese) innalzarono orgogliosamente l’albero della libertà nella piazza principale dell’antico borgo.
L’albero rappresentava una vera e propria icona, il potente simbolo degli ideali rivoluzionari e repubblicani che provenivano d’oltralpe e a cui i summenzionati giovani di San Salvatore avevano aderito con granitica convinzione.3
L’abitudine di piantare l’albero della libertà era nata a Parigi a seguito della Rivoluzione francese. In alcuni casi si trattava di un albero vero e proprio sradicato da qualche parte (quercia o olmo), altre volte era un semplice palo di legno, adorno di nastri colorati e coccarde tricolori, sormontato in cima dal famoso berretto frigio di colore rosso, come quello calzato dalla Marianne nel celebre quadro di Eugéne Delacroix.
Con la proclamazione della Repubblica Napolitana anche a San Salvatore soffiò per alcune settimane il flebile vento rivoluzionario che scosse la quiete atavica della società del luogo.
0In paese, terminato l’allestimento dell’albero della libertà, un esiguo gruppo di rivoltosi si recò nella casa di Ferdinando di Tore, e di altri benestanti del luogo, per saccheggiare e sequestrare armi con la scusa di disarmare la popolazione e tutelare la neonata repubblica da eventuali sommosse. Lo stesso padrone di casa fu costretto a versare cinque ducati alla causa repubblicana.
La combriccola, oltre che dai summenzionati Crescenzo Rabuano e Lorenzo Izzo, era composta anche da Serafino Pacelli e dal suddetto Libero Di Palma, tutti dimoranti in San Salvatore.4
Per diversi giorni lo stesso gruppo rivoluzionario setacciò le abitazioni del borgo, mostrando particolare predilezione per quelle delle famiglie più facoltose, dove s’ipotizzava un bottino più sostanzioso.
Proprio in quei giorni questi giacobini, insieme a un certo Domenico Della Porta, si resero responsabili di una violenta irruzione nel palazzo del notaio don Pasquale Martino Pacelli – facoltoso professionista e ricco possidente terriero – sempre allo scopo sequestrare armi e munizioni da consegnare alla Corte Locale. Nella circostanza il notaio, temendo possibili saccheggi (come quelli avvenuti in casa Di Tore) e per scongiurare ulteriori razzie, consegnò loro cospicue derrate alimentari e una somma in denaro di circa 16 ducati.5
Nonostante l’iniziale fiammata però, anche a San Salvatore, come per la maggior parte delle province napoletane, il simbolo della rivoluzione innalzato nella piazza principale ebbe vita breve e travagliata.
Nel mese di aprile del 1799, infatti, l’albero con le ghirlande subì un primo tentativo di demolizione che, tuttavia, non andò a buon fine per il pronto intervento dei giacobini che lo difesero con le armi in pugno.
“Giovanni Izzo, insieme a Domenico della Porta e Francesco Bove, cercò di tagliare l’albero della libertà nella piazza pubblica di San Salvatore ma non poté per la prima volta effettuare il disegno per i tanti colpi di scoppettate che tiravano di notte alcuni malcontenti contro i suddetti Izzo, Della Porta e Bove”.6
Qualche mese dopo invece, l’emblema dei giacobini venne definitivamente abbattuto ad opera di alcuni contro-rivoluzionari, immediatamente riconosciuti ed individuati. I responsabili furono identificati in Giovanni Izzo, Domenico Della Porta e Francesco Bove: tutta gente del luogo.
Pare che questi sabotatori, di fede legittimista, dopo aver distrutto il nobile simbolo repubblicano, avessero platealmente festeggiato nella pubblica piazza e, subito dopo, si fossero recati a Benevento dove nel frattempo erano giunte le milizie sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo tra le acclamazioni della folla festante.
All’operazione demolitrice partecipò anche il giovane Francesco Di Palma, che per tale motivo subirà terribili conseguenze, come si appurerà da una nota del 13 settembre 1799 redatta a San Salvatore del notaio Maccari e appresso riportata:7
“Francesco di Palma aiuta nell’abbattimento dell’albero della libertà e, quando ha notizia del ritorno delle armi reali, mostra grande giubilo, cambia coccarda e fa portare molti tremmoni di vino8 ed offre da bere a tutti, pretende che sulla croce piantata al posto dell’albero siano accesi i lumi. Per queste cose Pasquale Rabuano lo fa arrestare dalla guardia civica, battere a sangue e mandare carcerato a Cerreto e poi a Maddaloni”.
Sull’episodio è conservata agli Atti anche la testimonianza resa in fase processuale da Angelo Zoccolillo ed altri di San Salvatore:9
“Nel mese di aprile 1799 Domenico Della Porta, Giovanni Izzo e Francesco Bove di San Salvatore, dopo un primo tentativo in cui il loro intento è frustrato dalle schioppettate dei giacobini, riescono ad abbattere l’albero della libertà. Si recano poi in Benevento ai piedi del cardinale Ruffo e quindi di nuovo in San Salvatore a girare di casa in casa non per saccheggiare, ma per trovare armi per il re. È per la loro fedeltà al re che ancora oggi sono calunniati e perseguitati, chi con il carcere, chi con l’allontanamento”.
Un’ulteriore testimonianza notarile ci rende edotti che queste stesse persone si resero successivamente responsabili anche dell’abbattimento dell’albero della libertà piantato nella piazza di Castelvenere:10
“Giovanni Izzo, che con Domenico Della Porta e Francesco Bove ha abbattuto al secondo tentativo l’albero della libertà e ha cambiato coccarda inneggiando al re, il 26 luglio 1799 durante la festa di Sant’Anna in Castelvenere, si trova coinvolto insieme a Vincenzo Zebbedeo nella zuffa tra gli abitanti di quel paese e gente di San Salvatore, tra cui Gabriele e Antonio Paciello. Né Izzo, però, né Zebbedeo fanno alcuna cosa di male, ma come timidi se ne fuggono nella loro patria. Nonostante ciò i due nel mese di agosto vengono arrestati e trasportati nel carcere di Cerreto e poi in quello di Maddaloni”.
I legittimisti meridionali, infatti, erano soliti sostituire i nastri tricolori della bandiera della Repubblica Napoletana (giallo, rosso e turchino) con il loro simbolo rappresentato dalla coccarda rossa sulla quale campeggiava la corona e il giglio borbonico.
A seguito dell’episodio di Castelvenere anche Domenico Della Porta e Francesco Bove (come Izzo e Zebbedeo) vennero arrestati e subirono la stessa sorte dei loro confedanei.
Qualche mese dopo, però, a seguito della restaurazione borbonica e con il ritorno sul trono di Ferdinando IV, i legittimisti sansalvatoresi detenuti nelle carceri di Maddaloni, a seguito di regolare processo, vennero prosciolti e scarcerati. Di essi si ignorano le generalità ad eccezione di Francesco Bove, di professione macellaio, figlio di Biagio Bove (1744-1803) e di Angelica Rabuano, nato a San Salvatore il 27 luglio 1778.
A suo favore testimonieranno i dichiaranti Lorenzo Rabuano, Giovanni Petruccio e Nicola Pacelli di San Salvatore:11
“Francesco Bove di Biaggio di San Salvatore, detenuto nelle carceri di Maddaloni, è uomo dabbene che non ha mai dato disturbo ad alcuno”.
Dopo gli episodi di cronaca che lo videro coinvolto, si dedicò al lavoro e alla famiglia. Il 14 giugno 1800 sposò Marta Riccio di Angelo ed ebbe tre figli: Maria Angelica (1803), Pasquale (1806) e Angelica (1809).
All’epoca dei fatti che abbiamo raccontato, aveva appena ventun anni.
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[1] La Repubblica Napoletana venne proclamata il 23 gennaio 1799. Pochi giorni prima (11 gennaio) Francesco Pignatelli, marchese di Laino e conte di Acerra, vicario generale di Ferdinando IV di Borbone, aveva sottoscritto a Sparanise un armistizio con il generale francese Jean Étienne Championnet. A tale notizia i lazzari (giovani dei ceti popolari) insorsero violentemente in nome della tradizione cattolica e in difesa di Ferdinando IV quale legittimo re. Tra il 21 e il 23 gennaio 1799 circa diecimila popolani furono uccisi negli scontri. Per una migliore comprensione delle vicende storiche di quel periodo si veda: B. Croce, La Rivoluzione Napoletana del 1799. Biografie, racconti, ricerche, Ed. Laterza, Bari, 1912.
[2] Sulla famiglia Monsorio vedasi l’articolo “Fabrizio de André e la famiglia Monsorio” in Istituto Storico Sannio Telesino.
[3] L’albero della libertà fu piantato per la prima volta a Parigi nel 1790. Una convenzione del 1792 ne regolò l’uso e l’addobbo. Veniva usato per le cerimonie civili, per il giuramento dei magistrati e in occasione di tutti i festeggiamenti rivoluzionari.
[4] Al processo che ne conseguì, il giovane Libero Di Palma fu successivamente prosciolto perché ritenuto estraneo ai fatti in quanto sarebbe stato coinvolto a sua insaputa, irretito dai suoi amici.
[5] V. Mazzacca, Repubblica partenopea e brigantaggio, G. Ricolo Editore, Benevento,1984, pag. 63.
[6] Atto pubblico scritto in San Salvatore il 13 settembre 1799 dal Notaio Lattanzio Maccari di San Lorenzo Maggiore. Archivio di Stato di Benevento.
[7] Dichiarazione di Biaggio Di Palo e altri di San Salvatore in Atti del Notaio Lattanzio Maccari di San Lorenzo Maggiore, prot. n. 7897 (fg. 197, 43 v., del 13/09/1799) in G. Vetrone, Sub auspicis Gallicae Reipubblicae, il 1799 negli atti dei Notai di Benevento e della sua attuale provincia, Archivio di Stato, Benevento, 2002, pag. 119.
[8] Il “tremmone” corrisponde ad un fiasco di rame o di vetro a collo lungo e pancia quasi rotonda custodito in un involucro di sughero entro cui si riponeva ghiaccio o neve per tenere fresca acqua o vino. R. D’Ambra, Vocabolario napolitano-toscano domestico di arti e mestieri, Napoli, 1893, pag. 382.
[9] Dichiarazione di Angelo Zoccolillo e altri di San Salvatore in Atti del Notaio Lattanzio Maccari di San Lorenzo Maggiore, prot. n. 7897 (fg. 198, 44 v., del 13/09/1799). Ivi.
[10] Dichiarazione di Tomaso Mazzariello e Serafino e Pasquale Paciello di San Salvatore in Atti del Notaio Lattanzio Maccari di San Lorenzo Maggiore, prot. n. 7897 (fg. 199, 45 v., del 13/09/1799). Ivi.
[11] Dichiarazione di Angelo Zoccolillo e altri di San Salvatore in Atti del Notaio Carlo Coppola di Faicchio. Prot. 12475 (fg. 177, 179 v., del 16/12/1799). Ivi.
L’albero della Libertà in una stampa francese
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