Alta Terra di Lavoro

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L’ALIMENTAZIONE DOPO L’UNITA’

Posted by on Dic 28, 2019

L’ALIMENTAZIONE DOPO L’UNITA’

La conoscenza dei consumi alimentari di una popolazione é utile per comprendere le varie fasi dello sviluppo economico e sociale. A metà del secolo, l’Italia era un paese prevalentemente agricolo, con un livello di sviluppo decisamente inferiore alle restanti nazioni europee che avevano iniziato con successo un vero processo d’industrializzazione.

Nel civilissimo Nord la pellagra mieteva migliaia di vittime a causa di una alimentazione povera basata solo sul mais; il Veneto era in cima per il numero di malati: in questa regione, la pellagra continuerà ad essere presente anche quando nel resto d’Italia sarà scomparsa (XX sec.).

L’Italia conta nel 1861, 11.000 paesi e frazioni con ciascuno una media sotto gli 800 abitanti. Vi vivono circa 10 milioni di “cittadini” italiani non proprio “uniti”, (il 40%) ancora in un isolamento secolare e per la misericordia di uno o due potenti latifondisti del posto. I trasporti sono ancora da inventare, le macchine agricole pure, i concimi chimici non esistono; quindi escluse le grandi città (che sono pochissime ­ solo 8 raggiungono i 100.000 abitanti ­ e quelle costiere, la fame negli undicimila “paesini” è molta.

Gli abitanti si alimentano principalmente con il granoturco (la polenta). Il cui consumo pro­capite è di circa 36 chilogrammi. Considerando però che il pro­capite è l’intera Italia, e la polenta è consumata sola nell’Italia settentrionale, il pro­capite delle regioni del nord è di 200­250 grammi al giorno di farina gialla a persona; che ci confeziona circa un chilo di polenta (in pratica mangia l’80% di acqua, riempendosi solo la pancia di questo cereale gonfiato, cui mancano sia le vitamine sia le proteine. Insomma se non morivano di malaria o di peste, morivano o stavano appena in piedi con il “frumenton gialo”.

Edoardo Pittalis, nel libro “Dalle Tre Venezie al Nordest”, spiega che secondo i rapporti sanitari lungo il Terraglio, la strada per Treviso ingentilita parte per parte da splendide ville, su 6.362 abitanti ci sono 541 pellagrosi. L’ospedale di Mogliano accoglie malati da tutto il Veneto, alla fine dell’Ottocento si registrano nella regione oltre 10 mila morti per pellagra”. Era la malattia delle tre “d”: dermatiti, diarrea, demenza. La malattia della fame, dovuta all’eccessivo consumo di polenta. Non per niente che in questo periodo s’instaura un diverso regime demografico fra nord e sud; la mortalità infantile colpisce molto i paesi del Nord, (soprattutto per carenza alimentare ­ fisico molto gracile ­ minore difesa immunologica) mentre il Sud é caratterizzato in questi anni da un’alta demografia dovuta anche ad un’alta prolificità.

La mortalità infantile trova anche qui alte percentuali ma non per l’alimentazione (che è invece molto più ricca di zuccheri, vitamine, aminoacidi) ma per malattie virali, a causa delle condizioni igieniche quasi inesistenti. E non solo nei “paesini” ma anche nelle grandi città meridionali affollate e senza fognature adeguate, che causavano spesso pesti e colera. (terribile quella degli anni 1884­ -1887). .). In alcune zone in totale sviluppo agricolo, con fortunate coincidenze come l’habitat ideale, il clima e microclima e le colture adatte, anche i contadini oltre i mezzadri, gli affittuari e gli agricoltori, godevano tutti di un certo benessere, per merito di un vitto abbondante e di buona qualità.

Nel 1861 il Paese ha una popolazione di circa 25 milioni di abitanti, della quale circa ¾ dedita all’agricoltura. Un’agricoltura costituita da un bracciantato misero, malnutrito, socialmente emarginato, analfabeta e in grande crescita demografica, ma con una mortalità infantile spaventosa. Ancora nel decennio 1900/­1910, (Sommario delle statistiche storiche) morirono 296.576 bambini al di sotto dei 5 anni: il 41% del totale dei decessi (719.565). Uno su quattro dei piccoli nati non arrivava ai cinque anni. Nonostante il grande fatto unitario, la proprietà terriera era gravata da una pressione fiscale esagerata, da una idrologia allo sfascio, acquitrini e paludi sottraevano circa un terzo dei terreni alle coltivazioni. Malaria, tubercolosi, pellagra, erano malattie endemiche dovute, oltre che alla denutrizione, alla scarsità dei servizi igienico­sanitari.

Con le misere paghe dei contadini e dei braccianti, la dieta alimentare dei loro nuclei familiari era insufficiente e di pessima qualità. Altra causa delle cattive condizioni di salute erano gli spazi abitativi che spesso negli 11.000 paesini o nelle borgate, venivano divisi con gli animali: una coabitazione avvilente e deleteria; spazi angusti e umidi che rendevano inabitabili i tuguri dei contadini ai quali si contrapponevano le ricche abitazioni dei proprietari e dei fittavoli. Nel 1877 il municipio di Padova stimava che su 3187 case coloniche del circondario poco meno di un terzo erano “casòn”, cioè: “Gabbie di legname a quattro pareti piane, collocate sopra muriccioli a secco, rifoderati da canne di sorgo turco, dentro e fuori spalmate di creta: superiormente un’intelaiatura di legno a forma di piramide, con le facce esterne intessute e coperte di strame o di paglia, un uscio che permetta l’entrata della gente e dentro l’angusto ambiente un focolare, cui sovrasta una qualsiasi via d’uscita per il fumo, una o due finestrelle, e come pavimento la nuda terra.

Un’Inchiesta Parlamentare sulla miseria in Italia” aveva accertato che “869 mila famiglie italiane si accalcavano in case fatiscenti o in “abitazioni improprie” come cantine, baracche, casupole costruite con i sassi reperiti nel dissodare i terreni agricoli, oppure vivevano in grotte, a Porto Tolle (Polesine) vi sono casi di 10 o 11 persone che abitano in una stessa stanza, alla periferia di Rovigo si possono trovare due famiglie in un solo locale, a Contarina in 30 vani abitano 120 persone. Per non parlare di Comacchio: “Il 95% delle abitazioni è senza latrina: tutte le acque di rifiuto scolano nei cortili e ristagnano a poca distanza, i rifiuti vengono gettati nei canali che sono la fogna scoperta della città. Sono rare le famiglie dei braccianti che abbiano più di un vano; per cui la vita domestica si conduce nella più sordida sporcizia e nella promiscuità più scandalosa” E si stava ancora peggio nelle solfatare o nelle saline del sud dove i numerosi “carusi” (i bambini di 7­8 anni massicciamente impiegati) prendevano la metà di una già misera paga.

Una parte dell’Italia, anche quella ricca, viveva ancora senza avere in casa l’acqua corrente. Nel Veneto ancora nel 1961, nella immediata vigilia del boom economico su 100 case 48 erano senza l’acqua corrente, 52 senza il gabinetto, 72 senza il bagno, 15 senza la luce elettrica, 81 senza il gas a rete, 86 ignoravano cos’erano i termosifoni.

Quanto alla PRODUZIONE INDUSTRIALE nell’anno 1880 si registra il 30 %la Gran Bretagna, il 23 % gli USA, il 18 % la Germania, il 15% la Francia, il 4,2 % la Russia, il 3,9 % il Belgio, l’ Italia è fanalino di coda, con il 2,4%. Le malattie, la disoccupazione e la miseria, furono gli elementi che aprirono la strada della grande emigrazione che falcidiò numericamente le popolazioni più attive sia della città che della campagna.

Un motto circolava tra i ceti più abbienti che avevano in mano le sorti dell’economia agricola e industriale della nascente Nazione: “Lascíamoli andare, staranno meglio quelli che partono soprattutto staranno meglio quelli che restano”. In questo scenario, che andava dalla “ricca” Padania alla Sicilia, la dieta alimentare degli italiani non era certo quanto di meglio si potesse desiderare per la salute psicofisica della popolazione sia della campagna, che della città.

Al momento dell’unità, gli indici di natalità e mortalità erano molto elevati: le nascite erano numerose ma la falcidia della popolazione, soprattutto infantile, era elevatissima. Proprio l’infanzia pagava il maggior tributo: su 1000 bambini nati 227 non concludevano il primo anno di vita ma anche gli adulti soffrivano di indigenza a tal punto da non raggiungere una longevità propria di una società progredita. Ciò era dovuto ad una cattiva alimentazione basata essenzialmente su cereali “minori” e di qualità scadente. Il mais in alcune zone era spesso avariato, mentre la monotonia nella dieta, con il mais come unico elemento, portava alla pellagra.

La mancanza di proteine e di vitamine erano gli elementi destabilizzanti. La carne, nella quasi totalità dei nuclei familiari, sia in campagna, sia nei centri urbani, appariva soltanto qualche volta l’anno: spesso limitatamente a Pasqua e a Natale. Sarà solo agli inizi del secolo XX che le proteine di origine animale, anche se ottenute da carni di pessima qualità, cominceranno ad apparire nella razione occasionale di alcuni strati sociali più progrediti. Le vitamine continuarono a scarseggiare poiché gli unici vegetali facilmente reperibili erano fave, fagioli, lenticchie, ceci, mentre le verdure fresche, fatta eccezione di quelle selvatiche raccolte dai contadini per uso familiare, venivano avviate ai mercati per realizzare un minimo profitto. Può sembrare un paradosso che proprio le popolazioni dedite alle produzioni alimentari soffrissero di carenze di cibo.

Ciò era dovuto al bestiale trattamento di queste categorie da parte di alcuni proprietari latifondisti, dei mercanti, dei fittavoli e dei piccoli proprietari terrieri. I contadini lombardi, già dalla fine del secolo XVIII e in modo più accentuato e generalizzato oltre la metà del secolo XIX, si nutrivano esclusivamente di pane ottenuto da sfarinati di “formentone” o granoturco, di segale e miglio, e non avevano la benché minima opportunità di assumere proteine di origine animale. Soprattutto i contadini delle zone pedemontane e della pianura asciutta della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia e di alcune limitate zone delle Marche, sono affetti da pellagra e da uno stato generale di denutrizione.

Là dove era possibile alternare questa dieta con riso che, come si sa, è ricco di vitamina PP “niacina”, l’effetto della pellagra era limitato. Se le masse contadine soffrivano per colpa delle loro miserrime condizioni, nelle zone dove le industrie manifatturiere impegnavano manodopera femminile, che aveva un potere d’acquisto più elevato rispetto ai braccianti e contadini, avvenivano dei fenomeni che conducevano ugualmente a situazioni di malnutrizione. Il baliatico, espediente al quale ricorrevano spesso anche madri­lavoratrici di ceto popolare, e l’accorciamento dei tempi di allattamento materno, erano spesso responsabili di una denutrizione a danno dei bambini. Si usava anche l’allattamento misto che alternava il latte materno, o della balia mercenaria, a pappe mucillaginose ottenute miscelando il latte animale con farina di mais e pane grattugiato ottenuto da cereali inferiori.

L’allattamento artificiale, che si andava affermando verso la fine del XIX secolo, utilizzava latte di pecora, di capra o di asina, senza che venissero prese le giuste misure igieniche sia nella manipolazione del latte che nella sua conservazione. Le condizioni di vita dell’infanzia erano aggravate oltre che dalla cattiva e spesso scarsa alimentazione mancante di nutrienti essenziali, anche dalle condizioni igieniche degli spazi abitativi. In alcune zone, specie dell’Italia settentrionale, ai bambini in tenera età, a volte venivano somministrate, per facilitare il prolungamento del sonno, bevande alcoliche come il vino!

Altro dato importante da considerare è l’alcolismo, latente o platealmente manifesto, era una delle cause prodotte dalla miseria estrema e dalle difficoltà di accedere ad una dieta qualitativamente e quantitativamente valida. Il vino, il cui consumo aveva una lunga tradizione nella penisola, era diventato, specie quello di pessima qualità, appannaggio degli strati popolari. Credenza diffusa era che il vino avesse proprietà nutritive eccezionali tanto da consentire un’assunzione limitata di altri alimenti più rari e costosi. D’altronde anche una certa dietologia “scientifica” continuava a sostenere questa tesi. Il lavoro pesante di alcune categorie di lavoratori, sia nel settore industriale che nel mondo rurale, costringeva i soggetti interessati ad assumere le bevande alcoliche, ritenute corroboranti, in alternativa ad altri alimenti non disponibili nel paniere della spesa familiare.

Se la propagazione dell’uso dell’alcool era dipesa da una cattiva informazione e dalle necessità reali di assumere comunque “calorie” più o meno vuote, è stupefacente la notizia che anche in un congresso scientifico, dedicato alle malattie professionali, alcuni scienziati giustificassero l’uso di bevande alcoliche nella dieta poiché non avrebbe recato danno alcuno fornendo oltre tutto un certo numero di calorie necessarie, non riscontrabili nella dieta tradizionale priva di vino. Molti “esperti” asserivano che ” bevendo vino si mangia di meno” e si incide di meno sul bilancio familiare delle classi più Povere. Se il vino fu causa di molte disgrazie, l’affermazione dei superalcolici, di pessima qualità, fu ben più disastrosa per la salute psicofisica di ampi strati della popolazione. Con la distruzione di molti vigneti, a causa dell’oidio, ci fu un’impennata dei prezzi del vino che divenne un prodotto di lusso.

Si corse ai ripari producendo bevande superalcoliche ottenute dalla distillazione di patate, segale, barbabietole e cereali di pessima qualità venduti da mercanti senza scrupoli che spesso adulteravano le materie prime. L’acquavite diventò, per le popolazioni dell’Italia settentrionale, la bevanda di riferimento. In città e in campagna, operai e contadini, braccianti e artigiani, uomini e donne e spesso anche fanciulli, consumavano una razione di acquavite che diventò il nuovo “corroborante” a basso prezzo.

La Rivista Veneta di scienze mediche, scriveva ad esempio che in provincia di Venezia, (una delle città più sifilizzate d’Italia), su 12 mila scolari delle elementari soltanto tremila non bevono, cinquemila bevono superalcolici, novemila bevono regolarmente vino e circa la metà ne abusa. Ci volle il blocco delle esportazioni del vino verso la Francia, per far scendere i prezzi ed esso tornò ad essere la bevanda popolare. La lenta ed inesorabile intossicazione “voluttuaria” portava al degrado della salute e delle condizioni fisiche e psichiche di molti individui in età di lavoro. Anche nell’Italia centrale, e specificatamente in Umbria e nelle Marche, gli stessi coloni, che avevano contatto con i prodotti alimentari essendo gli artefici della loro produzione, consumavano un cibo di scarso volume e di poca sostanza nutritiva. Il pane era ottenuto da una percentuale bassissima di farina di frumento miscelata con quella di mais, o farina di fave, e spesso anche di altre leguminose, quando non addirittura di ghiande. Rape, erbazzone, bietole e insalate e qualche patata, sono gli unici vegetali che completano il pranzo di questa misera gente che sul posto di lavoro consuma esclusivamente un tozzo di pane, a volte duro e ammuffito, quasi mai ottenuto da farine di frumento, mangiato con qualche frutto come una pera o una mela.

Nelle regioni meridionali (Puglie, Calabria, Sicilia e Sardegna) vengono consumate razioni di legumi come fagioli, fave e ceci, cotti in abbondante acqua nella quale si bagna il pane ottenuto da farina di frumento miscelata con farina di mais, di miglio, d’orzo e di segale. Il vino è razione giornaliera per quasi tutta la popolazione sia in casa che nei pasti consumati sul posto di lavoro. La pasta, che si era affermata fin dal tardo Medioevo, nel meridione è utilizzata più volte la settimana solo nelle famiglie più agiate; una razione sapida di carboidrati nobili che si accompagna bene con svariati condimenti sia di origine animale che vegetale. Il pomodoro non è ancora molto diffuso come ingrediente nei sughi; si fa uso però di grassi suini, olio di oliva, formaggio, etc. I latticini o il formaggio grana, le caciotte e tutti gli altri prodotti lattiero ­ caseari, vengono consumati, anche se saltuariamente, da molti strati delle popolazioni.

Tuttavia la carne, sia fresca che salata, o i latticini, entrano in percentuale bassissima a far parte della dieta globale di alcune categorie sociali dislocate in diverse regioni. Nelle città costiere vi era anche l’apporto di una modesta quantità di pesce. Il clima favorisce una buona produzione di frutta che viene consumata sui luoghi di produzione. Scorrendo queste poche pagine si ha un quadro drammatico del panorama alimentare italiano, ma ciò fotografa esattamente la situazione esistente nella penisola dove, dall’Unità d’Italia e per molti decenni ancora, i sette decimi delle attività si svolgono nel settore agricolo che si trova a dover fronteggiare una crisi spaventosa, i prodotti disponibili sono pochi, e a farne le spese sono soprattutto le popolazioni più povere specie se non partecipano al processo produttivo sia agricolo sia industriale, o vi partecipano solo marginalmente. Basti pensare che sul finire del secolo, agricoltori, mezzadri, muratori, spendevano fino al 75% circa del proprio bilancio familiare per l’alimentazione.

La carne in realtà era quasi assente dalla dieta di quasi tutta la popolazione italica, fatta eccezione, delle ricche famiglie e nelle case dei “norcini” e dei “carnazzieri”. Essa compare, in modo sporadico e in quantità ridotta, e spesso solo quella salata, verso la fine del secolo XIX. Il “miracolo” avverrà solo dopo la fine della seconda Guerra Mondiale. Il Camporesi fa rilevare che anche la mitica e “grassa” Emilia­Romagna, fino a tempi recenti, aveva mangiato poco e male tanto da far definire “gli abitanti delle campagne quasi tutti miserabili perchè coperti di debiti e spesso mancanti anche delle misere granaglie utili alla sopravvivenza”. Che poi nei pranzi e nelle cene delle feste (due o tre l’anno) nelle quali compaiono capponi, cappelletti o tortellini, questo non solo non vuole dire che la gente viveva nell’abbondanza, ma l’eccezionalità conferma la regola di una miseria alimentare che durava 360 giorni l’anno e non poteva certo essere dimenticata nei pochi giorni del “mangiare grasso”.

Anche se le varie inchieste, promosse e coordinate dalle autorità pubbliche, sia regionali che statali, tentavano di fare un quadro più idilliaco della realtà, non sfuggiva ai cronisti dell’epoca, la disperazione delle plebi romagnole che rispondevano ai questionari del “cosa mangi”, con una frase lapidaria, spesso censurata o comunque attutita nelle relazioni ufficiali : “Pulenda ed furmenton e acqua ed fos” ( Polenta di frumentone e acqua di fosso). Per gli operai del Ravennate raro era il cibo caldo: quasi sempre si trattava di pane duro e di cattiva qualità, sbocconcellato e mandato giù insieme a qualche morso di aglio o cipolla a volte intinto nel raro e costoso sale. Per i contadini non cambiava di molto poiché c’era solo polenta, mentre i meno indigenti utilizzavano qualche volta un po’ di grano per fare la minestra riservata solo al giorno di festa. Gli erbaggi, e qualche briciolo di baccalà o pesce, sono un’alternativa o un accoppiamento, alla monotonia della polenta gialla.

Per le bevande ­ nota un cronista riminese del tempo ­ i contadini usano il vinello ottenuto da acqua e aceto e raramente il vino puro. Il Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio intorno al 1879 è costretto a riconoscere, pur con le censure apportate alle inchieste, che “nonostante ciò la miseria cresce di anno in anno”. Una più recente inchiesta sanitaria, apparsa proprio sul finire del secolo XIX, fa i conti con le malattie endemiche frutto di una monoalimentazione o sottoalimentazione. Tubercolosi, gozzo, cretinismo, e più di tutte la pellagra, sono i guasti irreparabili di una situazione che sembrava scomparsa dopo la falcidia degli inizi del secolo. Gli operai delle grandi città e dei sobborghi vivono una vita di stenti a causa della paga bassissima e dell’alto costo dei prodotti alimentari che sono spesso di bassa qualità. Un bracciante della campagna romagnola ­ come si rileva da un’indagine monografica della contessa Ilaria Pasolini ­ con la sua misera retribuzione annua ( Lire 586,72, siamo nel 1890 ) deve spendere per l’alimentazione il 73% circa per dedicare l’altro, 27% a spese di gestione: casa, riscaldamento, vestiario, imposte, debiti ecc.”. Una misera somma che tuttavia rappresenta i 3/4 del suo guadagno annuo, per un’alimentazione povera e di scarso nutrimento.

Nel Mezzogiorno d’Italia, ma anche nei sobborghi dell’industriosa Torino, la spesa del nutrimento vede il 65/­68% assorbito dai cereali con il granoturco in maggioranza; il 2­3% dal latte e dalle uova; il 3% dal pesce salato (baccalà, stoccafisso, aringhe, sarde), il 5% dal sale e da altri condimenti; 1’1% circa dai legumi e dalla frutta. Vino, aceto, olio, carne fresca e salumi, ritenuti “non fondamentali” perchè cari e non sempre reperibili, assorbono il 10% complessivo quando il mercato li rende disponibili.

Il misero guadagno viene falcidiato dalle gabelle gravanti su alcuni prodotti come frumento, granoturco, sale, vino e petrolio per illuminazione, assurda è la tassa del dazio per “minima vendita”, che si riscuote sulle vendite al minuto, i ricchi potevano acquistare 25 litri di vino o anche più alla volta, non pagando alcuna tassa; al contrario il povero che può acquistare solo un litro di vino alla volta, paga il dazio di consumo e la tassa di minuta vendita. La tassa sul macinato (introdotta nel 1868),il dazio o gabella sulla macellazione dei suini, il monopolio del sale, la politica fiscale e la politica salariale, sono gli elementi che determineranno per molti decenni il livello di “fame” degli italiani di ceto sociale medio e medio ­ basso.

fonte https://www.facebook.com/UNPopoloDistrutto/posts/lalimentazione-dopo-lunitala-conoscenza-dei-consumi-alimentari-di-una-popolazion/685399408232104/

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