L’Antimafia dei Borbone e dell’Italia padana monarchica/repubblicana (II)
Tutti questi fatti non sono stati discussi né messi al centro dell’attenzione dalla storiografia risorgimentale filo-padana che considera quegli assassini come martiri e vittime della “tirannia borbonica”. Per i loro sostenitori cosa vuol dire tirannia? Almeno sanno il significato di quel termine? Sono talmente bravi a usare il termine “borbonico” su ogni problema sorto nella nostra terra, ignorando con indegnità l’esistenza della vera tirannia praticata dai Savoia e da questa falsa Repubblica contro i popoli sottomessi.
Come si può chiamare tirannia a quella dinastia (cioè i Borbone) che fece ridurre le tasse, applicò leggi e codici moderni, salvaguardò la sicurezza di entrambe nazioni unite, tutelò i bisognosi, promosse iniziative culturali e artistiche, difese i duosiciliani dalle ingerenze delle potenze europee e si oppose con tutti i mezzi necessari alle pretese inutili e disoneste degli usurpatori? I Savoia, a differenza loro, cosa hanno fatto per noi napolitani? Soltanto miseria, disoccupazione, emigrazione, sfruttamento, tasse e violenze, le stesse ingiustizie che da ieri a oggi non vengono cancellate. Altro che democrazia e Costituzione. Tornando sul discorso di prima, quegli eventi drammatici che condizionarono la vita del povero e pacifico regno non furono gli unici a essere parte integrante della Storia della Napolitania e della Sicilia, ma quel che è certo è che il popolo e le sue istituzioni non si stancarono di sollevarsi alle folle idee estranee della sovversione elitaria capeggiata dagli usurpatori e dai delinquenti comuni: Salvatore Maniscalco, capo della polizia duosiciliana in Sicilia che dal 1850 si impegnò a contrastare la setta mafiosa dei baroni offrendo molta scorta a coloro che subivano le minacce e i ricatti da parte dei delinquenti assoldati; L’eroismo degli abitanti di Santa Lucia che, durante il tentativo colpo di stato borghese del 15 maggio 1848, corsero all’appello di salvezza della sicurezza pubblica fatto dal re Ferdinando II per contrastare la partecipazione armata dei camorristi, al fianco della Gendarmeria e del Regio Esercito. Nelle prime rivolte antipiemontesi dei popoli della Napolitania e della Sicilia alcune città e province fecero un proprio fronte di insorgenza contro la tirannide coloniale dei Savoia e dei suoi collaborazionisti liberali ma con momenti brevi, in particolare a Resuttano, nella provincia di Caltanissetta, dove il 1° luglio del 1860 la popolazione si ribellò all’arrivo della colonna mercenaria dei garibaldini guidati dal maggiore padano Angelo Bassini con la precisa volontà di non farsi sottomettere dalla autoproclamata Dittatura sabauda di Garibaldi. La rivolta però durerà quattro giorni, riuscendo a spingere i siciliani non solo a non riconoscere il nuovo “Stato unitario” e le sue leggi coloniali ma a difendere l’isola stessa dalla tirannia piemontese, come avverrà nella rivolta del “Setti e menzu” tra il 16 e il 22 settembre 1866 nella provincia di Palermo, finché essa cadrà sotto i bombardamenti ad opera del generale Raffaele Cadorna. A Montefalcione, dove la situazione si cominciò a peggiorare a causa dell’atto terroristico del gruppo liberale di Giuseppe Fierimonte, il 6 luglio 1861 la popolazione e i patrioti napolitani, costituiti soprattutto da ex-soldati duosiciliani, si oppongono alla tirannia liberale e all’attacco militare della Guardia Nazionale e dei suoi volontari, di maggioranza camorrista, e poi estendere la rivolta indipendentista nei territori vicini, in particolare a Montemiletto, ma il 10 luglio si spense con il duro intervento dell’esercito piemontese che fucilò 150 persone, tra cui il tredicenne Giuseppe d’Amore, con l’autorizzazione del governatore Nicola De Luca. Tale vendetta, prima di tale evento storico, sarebbe compiuta anche a Caridà, nella provincia di Reggio Calabria, il 22 ottobre 1860 ad opera non dell’esercito piemontese ma da un gruppo di volontari liberali guidati da Giuseppe Riolo, un medico di San Pietro, che aprì il fuoco verso gli innocenti caridaresi che sventolarono pacificamente la legittima bandiera dei Borbone sulle strade di San Pietro, causando feriti e morti, in particolare al capo della rivolta Sebastiano Rosia. Prendendo spunto dal racconto di questi fatti storici, si capisce fin da subito che la mafia non c’entrava un bel niente con quelle rivolte neppure con i patrioti fedeli dei Borbone, ma a quell’epoca era diventata una struttura istituzionale di repressione dello Stato coloniale padano-piemontese, con l’obiettivo anche di intromettersi nelle riunioni e nelle iniziative delle popolazioni napolitane e siciliane per impedire la realizzazione dei loro ideali, anche con l’uso della forza. Il brigantaggio, attivo nella lotta contro l’Unità d’Italia e di cuore patriottico (per cui Ferrara affermò che i loro discendenti si impegnarono a riportare sul trono i loro legittimi Borbone per ben due volte, nel 1799 e nel 1815), era diverso dalla mafia se si concentrava sulla giustizia dei poveri e degli innocenti contro la prepotenza dei padroni terrieri, tra i quali anche i mafiosi stessi, che era stato un fondamentale obiettivo economico-sociale della politica del governo duosiciliano. Dopo la speranza di vittoria da parte del fronte di insorgenza grazie allo scoppio delle rivolte antipiemontesi nelle province napolitane verificatesi, alla fine la rivolta si frantumò a pezzi con lo scioglimento del governo di Calà Ulloa per ordine di Francesco II e con le uccisioni dei patrioti avvenuta sia con l’applicazione delle misure giudiziarie brutali (per es. la fucilazione senza processo) sia con le vendette improvvisate, come avvenne all’ultimo patriota Antonio Cozzolino detto “il Pilone” che fu ucciso con una lama e con calci da agenti di polizia coloniale mandati dai oligarchi della Trattativa Stato-Mafia. Come si vede, l’Italia unita e la mafia si sono alleate per reprimere nel sangue la volontà dei napolitani e siciliani nella difesa e conquista dei diritti e dell’indipendenza usurpata ma insieme dettero inizio al puro colonialismo padano fondato sul rafforzamento del modello padano sui territori dei popoli sottomessi mediante l’ingerenza nelle strutture produttive, nell’economia, negli istituti di educazione e nelle TV locali. Attraverso questa ingiustizia della Malaunità cancellarono per sempre le bellezze e i progressi dei popoli delle Due Sicilie avute dai loro antenati e legittimi governanti, in particolare la famosa Via Regia delle Calabrie, costruita nel 1778 da Ferdinando IV e scoperta da Luca Esposito, era rimasta scomparsa a causa dell’esistente Autostrada Reggio Calabria-Salerno costruita però dalle imprese padane aiutate dalle cosche mafiose. Il colonialismo padano dettero grandi benefici alla Trattativa Stato-Mafia ma impoverì la Napolitania e, soprattutto, la Sicilia, rendendole di fatto le vere colonie di sfruttamento. Dal 1860 l’Italia non fece altro che fomentare l’ingiustificabile odio verso i napolitani e i siciliani con “la colpa di farsi colludere con le loro mafie”, però non mancarono coloro che si oppongono all’impunito razzismo unitario, rischiando la propria vita visto che sono stati sempre lasciati da soli dallo “Stato”; i due magistrati Rocco Chinnici e Nicola Gratteri concordano che la mafia sia nata durante e dopo l’Unità d’Italia, ma quest’ultimo afferma giustamente che essa fu imposta con le armi. Lo storico Federico Dezzani afferma che le tre mafie citate, oltre ad essere le società segrete paramassoniche, vengono protette dall’Inghilterra intenzionata di conquistare la Sicilia governata dai Borbone con tre tentativi: i primi due, la dittatura di Bentinck tra il 1812 e il 1816 e il disordine del 1848, sono stati fallimentari mentre il terzo fu compiuto con successo, grazie all’appoggio del Regno di Sardegna per il finanziamento dell’impresa mercenaria di Garibaldi basato sui rifornimenti illegali di armi e sulla corruzione di ufficiali e generali dell’esercito duosiciliano. La volontà inglese nello sostegno delle sette mafiose-elitarie fu dovuto dall’ampliamento economico dell’Inghilterra nel Mediterraneo mediante il consenso di uno solo Stato italico, cioè quello dei Savoia che, come si sa, diverranno i nuovi regnanti coloniali, per conquistare varie posizioni geografiche, in particolare il Canale di Suez che verrà controllato dagli inglesi stessi fino alla completa nazionalizzazione compiuta dal presidente egiziano Nasser nel 1955, il quale dovrà affrontare con le armi il duro intervento dei governi inglese e francese ma otterrà una vittoria militare. Quindi la mafia, protetta e sviluppata dagli inglesi e dalle élite degli usurpatori, da fenomeno criminale diventa una propria struttura facente parte dello Stato unitario di guida padana. Però dobbiamo distinguere in maniera chiara l’esistenza della mafia tra il periodo d’indipendenza duosiciliana e il periodo del colonialismo padano. Stando alle commedie dei due siciliani, “I mafiusi di la Vicaria” del 1863 di Giovanni Verga e “I mafiusi” di Leonardo Sciascia, nelle Due Sicilie i mafiosi furono esclusi dalle istituzioni, anzi ci provarono ma venivano messi da parte dai Borbone e sottoposti nel pieno controllo della polizia regia che, in alcuni momenti, dovette resistere ai tentativi di corruzione e di infiltrazioni sovversive; inoltre di bande criminali, giovani e adulti, e di cosche mafiose (il cui termine viene paragonato indegnamente alla Sicilia, nonostante che nella lingua isolana la parola “cosca” si intende una parte integrante del carciofo) non esistevano nelle province napolitane per la salvaguardia dei fanciulli e dei ragazzi poveri impiegata con i conservatori infantili e con gli educandati femminili. Nell’Italia unificata con la forza, i mafiosi furono richiamati dai politici terroristi e messi al servizio della nuova e finta Patria, trovando molto spazio nelle amministrazioni pubbliche, negli organi di polizia e nelle Magistrature. Dopo l’occupazione illegale delle Due Sicilie, la mafia cominciò ad avere una garantita e assicurata tutela dello Stato coloniale, impiegando l’arma della violenza contro chiunque si era opposto alle sue minacce, in particolare nei confronti dei uomini, donne, giovani, contadini, attivisti politici, giudici, poliziotti, banchieri, impiegati pubblici e lavoratori, tutti aventi della coscienza e mai traditori della propria terra, anche se chi ricopriva ruoli istituzionali e di pubblico ufficiale stava nella parte sbagliata. Ancora una volta la propaganda razzista unitaria è pronta a dirci il contrario menzognero: la parola “maffia” fu coniata per la prima volta nel 1865 dal prefetto di Palermo Antonio Malusardi; il brigantaggio e la mafia erano in combutta tra di loro; la mafia impedisce ai contadini di recuperare le terre delle famiglie baronali fedeli dei Borbone; lo Stato (italo-padano) dimostra di essere presente nella lotta contro la criminalità organizzata…… Come non credere a chi inganna. Eppure le accuse di mafia vengono rivolte solamente alla Napolitania e alla Sicilia, arrivando pure a denigrarli senza pietà, per es. Napoli viene definita la terra dei fuochi, la Calabria la terra di nessuno (la cui frase viene detta anche da Corrado Augias). Unica cosa che non ci meraviglia è che non solo questa ingiustizia viene commessa dai giornalisti, dai governi e dai partiti vicino al razzismo unitario, ma anche da professionisti dell’Antimafia che, mediante le loro associazioni “nazionali” (Libera contro le mafie di don Luigi Ciotti), credono e usano i libri degli storici ufficiali non solo per infangare gli eroi patrioti dell’insorgenza dei due popoli ex-duosiciliani, ma anche a essere i sottomessi dei presunti buonisti ascari che lo sono nella realtà e di mente……..continua
Antonino Russo
Credo che l’unica invenzione moderna efficace nel salvaguardare le attività sia rurali che merceologiche sia la nascita delle “cooperative”..o comunque aggregazioni riconosciute… anche al giorno d’oggi chi pensa di essere in grado di operare da solo finisce per essere fagocitato salvo che non si valga di particolari protezioni/protettori…il che comunque dura “fin che dura”, come si dice…e ciò sottintende le variabili politiche… equiparabili, ma lo diciamo sottovoce, ad appoggi mafiosi!?… L’economia e le attività su cui si regge oggi richiedono competenze, solidarietà e…lungimiranza. caterina