Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Le campane di Itri

Posted by on Ago 5, 2024

Le campane di Itri

   Un popolo senza campane è come un paese senza cielo. Noi siamo cresciuti fra cupole e torri e le campane furono il cielo della mia prima età. Anche i cieli dipinti dei presepi di sughero e di cartone li sentivo scampanare lontani. Soggiornando spesso in campagna, nella casetrta della Mostaca, udivo le campane partirsi dal borgo, portate dal vento marino di Vindicio, insieme al tiepido senso dell’onda.

Quel suono di libertà aveva l’agitazione ariosa dei panni ad asciugare in una giornata di sole. E prendeva un vago colore  domenicale  quel giorno dell’anno in cui cadeva la festa del paese, il 21 luglio, quando i ragazzi si mettevano di punta a tirare le corde e facevano a chi più tirava che pareva ne scuotesse il campanile.

   Campane aperte, insomma, campane a distesa. Ciò che non era quando udivamo suonare a morto : una serie di rintocchi lenti, dosati, che dal tono più alto volgevano al basso e morivano in minore, che cadevano come gocce di piombo, con grandi pause tra l’uno e l’altro, come se in quelle pause si facesse il vuoto. Quella serie di note sconsolate che franavano lentamente sul tempo fermo, senza respiro,ci ci davano un funebre assillo. Dalla chiesa di San Michele Arcangelo vedevamo uscire, a scossoni, il mortorio con il vetturale appollaiato in serpa come un uccello da preda, mentre un pennacchio pesante  e polveroso ciondolava alla maniera di un coniglio morto fra le orecchie del cavallo color nero opaco.   

   Quando udimmo, per la prima volta, i nordici carillons, avemmo la sensazione di campane sottopvetro, come orologi, legate fra loro da un meccanismo a rotelle. Quelle campane ad orologeria, che per primo mi avevano dato un senso di lepida musichetta, si ripetevano insistenti e sterilizzate di ogni vita, accompagnando il giorno con immobile e stereoscopica limpidità. La chiesa vicina, normanna, a causa di quelle campane, diventava per noi un’ossessione a orario.

   La musica più suggestiva, però, era quella che andava sotto il nome di “campanone di S. Michele”: bronzo cupo, vivo, dorato, che si allargava come i cerchi dell’acqua e moriva lontano.Dal campanile i rintocchi, annullandosi l’uno nell’altro, si tramandavano come echi in un’unica vibrazione nel fondo dell’aria. E, su quel fondo che respirava, sfrecciavano le rondini matte e scrillone allargando il volo a corona, quando erano per toccare la sorgente del suono. Rondini e campane facevano festa alla giornata che volgeva in  bellezza sulle torri e i palazzi tpccati da un ricco tramonto color d’arancio.

   Abbiamo poi nell’orecchio quelle campanelle pettegole che scuotono rapinose nei piccolo campanili nati sui tetti come funghi. Sono sempre campane affaccendate, cge dicono a quelle grosse e silenni :”Vi siete dimenticate di questo e di questo altro, e ve lo diciamo noi, perché voi, di lassù, non potete sapere. Ma noi, qua tra la gente, sappiamo tante cose, tante cosine…” Quelle grosse non danno loro retta più che a una chiassata fra oigionali e seguitano ad agitare le arcane e maestose regioni dell’aria.

   Finché una mattina non avemmo la rivelazione di un nuovo suono di campane: una musica che, prendendoci nel sonno, ci accompagnò fino al risveglio. Era dappertutto nel nostro sonno, come la luna quando entra dalla finestra. Scampanava a distesa, alimentando il nostro dormire innocente. Era una poena, un conforto di doppi lontani.

   Era un freddo mattino e la bella chiesa del Mille versava il mare dei suoi doppi. Dal nostro letto di Corso Appio Claudio vedevamo un albore, come una gora d’acqua che si faceva, man mano, più distinta di contorni, ed era il vetro della finestra. Le tenebre cominciavano a muoversi, a liquefarsi. Ad un tratto proruppe il mare delle campane. Le piccole case del paese ne furono sommerse. Prendevano forza le onde, poi si allontanavano ed entravano nel nostro sonno, lo colmavano, l’innalzavano. Non restava che l’eco, una alta onda di suono, mentre, riprendendosi sul filo dell’ultima nota, il mare tornava ad ingrossare su tono diverso.Altra nota dominava, che prina non si udiva, e si faceva  largo, e tanto cresceva che dilagava come careratta luminosa. E nient’altro eranell’alba. Poi ancora il mare si quietava e ,sul punto di fare bonaccia, si rimetteva a gonfiare ed era una terza campana nascosta, che ora dav< il tono, Una nuova cateratta  si era aperta e il nostro sonno disturbato si appagava, poco a poco, si colorava di dolcezza, era condotto sui flutti.

   Alfredo Saccoccio

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