LE RISAIE DI ROCCA D’EVANDRO
Antichissima è la coltura del riso ed i primi a coltivarlo pare che siano stati i cinesi. Un’ordinanza dell’imperatore Chin-Nong, vissuto 2800 anni a.C. imponeva a tutta la famiglia reale di presenziare alla semina fino ad allora diretta solamente da lui. Cerimonia importantissima, dunque, poiché un buon raccolto assicurava il cibo a tutto il Paese.
Nei tempi più lontani poche popolazioni conoscevano il riso. Gli ebrei dovevano ignorarlo poiché nella Bibbia non lo nominano mai.
I Romani lo importavano soltanto, come molti altri cereali, dalle colonie, usandolo per fare dolciumi e alcune pietanze dolci confezionate da quegli ex schiavi orientali che divennero i più abili e raffinati cuochi delle case patrizie e imperiali.
In Giappone l’ora dei tre pasti principali era ed è conosciuta con il termine gohan che letteralmente vuol dire «onorevole riso». Fin dall’antichità, in Giappone, questo cereale costituisce la dieta base e da esso si ricava anche il saké, una bevanda spiritosa che rallegra e delizia da secoli gli spiriti dei commensali. In Occidente, il primo riso importato sarebbe giunto dalle valli dell’Indo e dell’Eufrate, dopo le conquiste di Alessandro Magno. La Spagna avrebbe imparato a coltivare riso per prima, nell’VIII secolo, dopo l’invasione araba. Gli stessi invasori insegneranno più tardi, la risicoltura anche alla Sicilia. A Napoli, il governo aragonese, introducendo molte usanze spagnole, farà impiantare nel XV secolo, le prime risaie italiane. La coltivazione del riso salirà così, a poco a poco, anche verso il Nord Italia, sostando prima nelle pianure di Pisa e poi in quelle padane, dove, seguita e incoraggiata dal duca Galeazzo Maria Sforza, si estenderà per oltre 5000 ettari.
Favorite dai naturali terreni paludosi, le risaie appariranno presto anche nell’Emilia, nel Veneto e nel Piemonte, ostacolate qui dagli igienisti, che, vedendo sorgere vasti acquitrini, temeranno, forse non a torto, l’aumento della malaria (1).
Quegli igienisti non avevano tutti i torti perché molto presto cominciarono a manifestarsi i malefici effetti di quelle colture.
E ci riferiamo anche alla macerazione del lino e della canapa che è certamente anteriore rispetto alla risicoltura. Ogni Stato provvide a regolamentare tale macerazione mediante bandi, leggi e decreti. La prima legge emanata nel Regno di Napoli risale a Federico II, e precisamente all’anno 1220. Questa legge stabiliva che per macerare il lino e la canapa, bisognava tenersi ad un miglio dai centri abitati e dalle strade consolari. Dopo questa legge, altre, nei secoli successivi, ordinavano di tenere pulite le acque dei Regi Lagni e di non intaccare l’integrità delle sponde, ma per quanto attiene la coltura del riso non ne troviamo nessuna prima del 1763.
La prammatica del 16 luglio 1763 prescriveva che la coltura del riso e le macerazioni si praticassero ad una distanza non inferiore a due miglia dai centri abitati.
La legge però, prevedeva delle eccezioni e l’articolo sesto si prestava alle più svariate interpretazioni e soprattutto ai cavilli, agli intrighi ed alle speculazioni.
Tale articolo prescriveva che la coltura del riso potesse praticarsi ad una distanza inferiore alle due miglia qualora vi fosse stata «interposta» una montagna, o una vallata, o un largo fiume.
Forti di quest’articolo, i coltivatori riuscivano ad evitare il provvedimento di «estirpazione», guadagnandosi la complicità degli architetti incaricati della perizia.
Così, a Rocca d’Evandro, il fiume Peccia, per gli eletti del comune, era un misero ruscello mentre invece diventava un fiume di larga portata per l’architetto incaricato della verifica.
Le montagne, come i boschi e come i fiumi, secondo le concezioni eziologiche del tempo, impedivano alle esalazioni miasmatiche di raggiungere i centri abitati. In maniera analoga si comportava una larga vallata e, per finire, si poteva autorizzare la risaia, anche in difetto della distanza legale, qualora in quella zona i venti soffiassero in direzione contraria all’abitato e quindi impossibilitati a trasportare il miasma.
Tutto ciò era frutto di secolari osservazioni confermate oggi che conosciamo tutto sulla zanzara la quale non ama i luoghi elevati e ventosi.
La zanzara trova nella risaia le condizioni ideali per compiere il suo ciclo evolutivo: acqua stagnante, calda e riparo dai venti. Nelle risaie o lungo le sponde dei ruscelli deponevano le uova che, indisturbate, si schiudevano e raggiungevano, attraverso le varie fasi, la forma adulta. E’ noto come, nei tempi andati, alle carestie si associassero le epidemie, ovviamente malariche, dovute ad assenza di piogge che frequenti ed abbondanti provvedevano ad operare un salutare lavacro.
La teoria miasmatica ebbe vita lunghissima cioè fino a quando Laveran, nel 1870, scoprì finalmente che l’agente della malaria era la zanzara. La scoperta successiva dei microbi fece sì che il miasma sparisse del tutto e che ad ogni stato morboso si attribuisse l’esatto agente eziologico.
Tornando ai regolamenti sanitari, possiamo concludere che furono soltanto due le leggi emanate per disciplinare quella materia e cioè quella del 1220 per le macerazioni e quella del 1763 per le risaie.
Abbiamo iniziato il presente lavoro, riprendendo un articolo pubblicato dalla rivista Historia del 1985 che attribuisce agli Aragonesi l’istituzione delle risaie. L’attribuzione ci sembra azzardata dato che bisogna aspettare trecento anni per trovare una legge che regoli tale coltura.
Nel rogito notarile del 1713, col quale i comuni di Cervaro, S. Pietro Infine e S. Vittore in Terra di Lavoro, versavano al duca di Mignano la somma di 3000 ducati per ottenere la cessazione delle risaie, è detto testualmente che in quei tempi non esisteva alcuna misura di polizia sanitaria.
Le leggi sarde contemplavano che in caso di contravvenzione, gli Intendenti erano investiti dell’autorità necessaria per giudicare sommariamente … «privativamente ad ogni altro giudice, anche magistrato». Con ciò non intendiamo affermare che le leggi sarde fossero perfette; infatti nella Nuova Enciclopedia Popolare (ed. Pomba Torino 1847) si legge: – i provvedimenti emanati in vari tempi dal Governo piemontese … vennero finora concultati con iscaltrezze, con raggiri e sotto vari pretesti -.
Infatti il 25 agosto del 1835, Carlo Alberto si rivolgeva al Magistrato Generale di Sanità perché preparasse «un regolamento generale sovra questa importante materia».
Possiamo però tranquillamente asserire che alle leggi piemontesi non faceva difetto la decisione e che, a differenza di quelle napoletane non lasciavano varchi tra le maglie dei vari articoli.
A Napoli la sentenza del Regio Giudice, oltre alla possibilità di svariati appelli, comminava una pena detentiva di pochi giorni ed un’ammenda di pochi carlini.
I sovrani del Piemonte si erano preoccupati fin dal primo momento di regolare la semina del riso emanando bandi fin dal 1608 e ripetendoli periodicamente onde combattere gli abusi.
Nel 1710 furono perfino stabiliti quei terreni della provincia di Biella e Vercelli che dovevano adirsi a risaia e se ne fece «un ricavo ristretto» onde evitare contestazioni. Con questo sistema, di fronte ad una risaia sospetta di abusivismo, era possibile consultare il ricavo e decidere con piena tranquillità.
In caso di provato abusivismo, in conformità degli editti del 1608, 1656, 1663, e 1728, venivano colpiti i coltivatori abusivi con il sequestro dell’intero raccolto e l’ammenda di 300 scudi d’oro.
Non serviva dare in fitto la risaia perché la legge colpiva il padrone, il fittavolo, il bovaro, il massaro, il lavoratore e in definitiva «chiunque in qualunque modo travagliasse attorno alle risiere».
Quando ai padroni delle acque, sia che ne disponessero per loro uso, sia che le concedessero in fitto, veniva comminato, in caso di abusiva coltivazione, il sequestro delle acque stesse, con devoluzione al Regio Fisco.
Eppure, con quelle misure così energiche, nel 1835, erano ancora alla ricerca di qualcosa di più efficiente. E’ facile immaginare cosa succedesse nel Regno di Napoli, nello stesso periodo, tenendo presenti l’ambiguità delle leggi e la blandizie delle pene.
La legge del 1763 prescriveva la distanza di due miglia dall’abitato, mentre quelle piemontesi contemplavano quattro miglia per la città di Vercelli. A questa città, «per effetto di grazia speciale», veniva ridotta a quattro la distanza di miglia sei, fissata con l’editto del 1710. Tale grazia, però, non si estendeva ai borghi ed ai luoghi di detta provincia e di quella di Biella per i quali la distanza era fissata in 300 trabucchi (2), a partire dall’ ultima casa. Si parla di casa e non di abitato e si presume che tale legge si applicasse anche in caso di masserie isolate. Al sud, invece, l’obbligo della distanza esisteva sola quando il luogo fosse stato abitato da «un competente numero di persone». Cosa s’intendesse per «competente» non è chiaro, ma rappresentava un invito alla cavillosità, purtroppo nata, dei paglietti napoletani.
Non abbiamo trovato, nei regolamenti sardi almeno fino al 1835, nessun accenno alle eccezioni derivanti da eventuali montagne, valli, fiumi o venti.
Bisogna ricordare, ad onor del vero, che il Supremo Magistrato di Salute di Napoli chiedeva, il 22 ottobre del 1813, che la coltura del riso si praticasse ad una distanza non inferiore) alle cinque miglia «come praticata nel resto dell’Italia». Chiedeva ancora che si restringesse nei giusti limiti, ma lasciava in piedi il famoso articolo sei, cioè quello dei possibili cavilli, «commendandolo alla saviezza dei signori Intendenti». Queste proposte non trovarono approvazione da parte degli organi competenti e la prammatica del 1763 rimase ancora in piedi, morendo insieme alle risaie. Nel 1820 la distanza fu portata a miglia tre ma solo in Sicilia.
L’articolo sette della citata prammatica viveva di esclusiva vita contemplativa. Prescriveva quell’articolo che una risaia dovesse abolirsi quando particolari condizioni topografiche la avessero richiesto.
Abbiamo seguito, attraverso i documenti del Supremo Magistrato, tutte le vicende inerenti alla macerazione ed alla risicoltura dal 1792 al 1862 e possiamo affermare che in settant’anni, malgrado tante denunzie, l’articolo sette fu applicato soltanto un paio di volte (3).
I paesi, ormai, si spopolavano; anno dietro anno la popolazione veniva decimata dalle varie forme malariche e soprattutto dalle forme perniciose ed intorno al 1840 parecchie risaie furono soppresse. Al primo rivolgimento politico, però, i contadini si affrettavano a seminare il riso.
Ed ecco un rapporto da Fossaceca, in Abruzzo, del 1848, che recita testualmente: «Non le sentenze di quel Regio Giudice, non le pene di polizia, han frenato il mal talento dei coloni, e lo hanno invece rinvigorito e reso baldanzoso. La semina si è continuata, si esegue giornalmente, i galantuomini sono avviliti, perché temono il popolaccio insolente, il sindaco, il decurionato, tutti sono divenuti incapaci di agire, di opporsi alla corrente minacciosa che li sovrasta, e quel che aggiunge spavento a quadro sì luttuoso, consiste nell’attuale condizione della salute pubblica per nulla soddisfacente, anzi triste e desolante di Fossaceca. L’epidemia del 1848 non è estinta e quella del 1849 si prepara maggiore; quella popolazione sarà dimezzata e forse annientata; l’amministrazione comunale sconvolta, i danni di quei luoghi e dei vicini incalcolabili. Io non ho pace nel considerare queste cose, non ho riposo se non vedo che vi si appresti riparo».
Il feudatario, conte Genoini, dava in fitto le acque del fiume. Le leggi napoletane avevano la pretesa di conciliare il diritto di proprietà con la salvaguardia della salute pubblica. Ciò era possibile solo in teoria, perciò i signorotti forti di questa assurda contraddizione, continuavano a sfidare la legge e ad attentare alla salute e alla vita degl’infelici contadini.
Indubbiamente la risicoltura rendeva molto più di qualsiasi altra coltura ragion per cui quando la palude non c’era, la si creava.
Non mancarono funzionari onesti che si preoccuparono di segnalare alle competenti autorità il rischio che correvano le popolazioni prossime alle risaie e nel 1805, l’Intendente di Terama comunicava che nelle adiacenze di Giulia, Mosciano ed altri centri, la popolazione rurale era completamente scomparsa.
L’autorità sanitaria invece di preoccuparsi della pubblica salute, discettava sul vantaggio che sarebbe venuto a mancare all’industria e al commercio … quanto ai contadini «abituati a vivere in un’atmosfera malsana, potevano considerarsi immuni da ulteriori malanni».
Al parere dei grandi luminari faceva eco quello dei medici dei vari paesi, dove si coltivava il riso. La deputazione sanitaria di Tufillo in Calabria, teneva a precisare che quella certa «tinta di pallore» che presentavano i naturali del luogo non era assolutamente dovuta ad influenze miasmatiche, bensì alla fame.
Dato un colore alla fame (con buona grazia della malaria cronica), i medici si peritavano di chiedere che le colture potessero continuare onde evitare che i contadini restassero senza mezzi di sussistenza.
Non stavano certo meglio i contadini piemontesi: – … i risaiuoli sono per lo più di statura piccola, di gracile corporatura, di lurido colorito. Il loro volto anzi tempo increspato dimostra fin dall’età virile il triste aspetto della vecchiezza, la bocca sdentata per le frequenti odontalgie o per lo scorbuto, il ventre tumido, le estremità inferiori tumide e con macchie livide, le superiori esili ed emaciate … – (4).
Ormai tanta gente corrotta aveva fatto sì che la piaga dilagasse. A Fossaceca, fra i proprietari di risaie c’erano funzionari dell’Intendenza e l’architetto, incaricato della perizia, informava che nella pianura del Sangro c’erano soltanto sette o otto masserie, mentre, in realtà ce n’erano più di cinquanta.
Ai sindaci veniva demandato il compito della sorveglianza, ma molto spesso, come per esempio a Giugliano, i principali coltivatori erano il sindaco e gli eletti.
I proprietari non avevano alcun interesse a prosciugare le terre per poi praticare una coltura diversa del riso e perciò meno redditizia.
Ai contadini, dunque, non rimaneva che cercare nella palude i mezzi di sostentamento. Essi conoscevano bene i funesti effetti del miasma, ma, per un amaro e mostruoso paradosso, rischiavano di morire per vivere.
E’ naturale che si opponessero con tutti i mezzi a loro disposizione alle misure proibitive e chiedevano che li si lasciasse continuare per potere «scampare la morte, che la fame può caggionarli».
La commissione sanitaria, inviata a Fossaceca nel 1848, fu costretta, a furor di popolo, a concedere il permesso che fu salutato con luminarie, cortei e grida di «Viva il Re».
I decurionati erano sempre pronti ad avallare le richieste dei contadini, ma non si può affrettatamente concludere che fossero in mala fede. Abbiamo visto che la palude regnava sovrana e che dove non c’era si creava … la bonifica non era possibile sia per la spesa che i comuni non erano in grado di affrontare sia per la pertinace resistenza di coloro che dalla palude traevano larghi guadagni. In molti casi, infine era vero che la soppressione avrebbe provocato la disoccupazione di tutti quei «villani» che si «presenta(va)no come scheletri di morte vicini al totale deperimento».
I provvedimenti venivano sistematicamente disattesi sia dai proprietari che dai contadini. A Castrocucco, infatti, la semina era stata proibita nel 1832 e nel 1836 senza alcun risultato.
Nel 1842 una violenta epidemia decimò le popolazioni circostanti e finalmente il Supremo Magistrato di Salute si decise ad infliggere al barone una multa esemplare.
A Castrocucco non si seminò più il riso … ma cosa successe dopo? Quel territorio si presentava come un’immensa e selvaggia landa, con alcune piantine di riso spontaneamente riprodottesi e occhieggianti qui e lì. Una immensa palude impraticabile al punto da correre il rischio di affondarci dentro, con una fitta e lussureggiante vegetazione di erbe selvatiche, ridotta a pascolo per i bufali. Era così vasta quella palude che non era possibile estirpare le «ceppaie» e incanalare le acque nel vicino fiume Torbido «senza la benefica mano del Governo». Era finita la risaia, ma non era finita la malaria, quanto ai contadini, se prima morivano per vivere, dopo non rimaneva loro che morire soltanto … di fame e di febbre (5).
GIUSEPPE GABRIELI
Note:
(1) L. RIDOLFI VIGANO’, E quei provvidenziali chicchi sconfissero la fame in «Historia» n. 326, a. 1985.
(2) Antica unità di misura di lunghezza usata in Italia prima dell’adozione del sistema metrico decimale, equivalente a 3,086 o 2,64 m. a seconda delle regioni. In Vocabolario illustrato della lingua italiana di G. DEVOTO, G. C. OLII, Milano, 1984.
(3) … reazioni popolari all’accrescersi delle superficie adibite alla coltura del riso che «nel 1711 perirono per detta pestifera piantagione da circa 650 persone, ed altre 5754 se ne infermarono anche con la perdita di 800 animali … le università e i maggiorenti locali adirono i tribunali che poi proibirono (Provisione del 1722) la continuazione di tali colture, in P. EBNER, Storia di un feudo del mezzogiorno, La Baronia di Novi, Roma 1973.
(4) Nuova Enciclopedia Popolare, Torino, Pomba editore, 1847.
(5) … un tratto di terreno assai esteso alle falde dei monti, a breve distanza da Torino … era coltivato a riso … un Duca di Savoia ordinò la distruzione … una piccola parte di quel suolo venne ridotta a bosco, tutto il rimanente è rimasto incolto … nudo e spoglio d’ogni vegetazione, in parte coperto di eriche ed in parte ridotto a macilente e palustri praterie … in «Nuova Enciclopedia», op. cit.
fonte:RASSEGNA STORICA DEI COMUNI , n. 72-73 GENNAIO-GIUGNO 1994
Bimestrale di studi e ricerche storiche locali , Organo ufficiale dell’Istituto di Studi Atellani.
81030 S. Arpino (CE) – Palazzo Ducale
80027 Frattamaggiore (NA) – Via Vergara, 13
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Direttore responsabile: Marco Corcione
(continuazione dal numero 72-73 anno XX, 1994)
fonte
http://www.roccadevandro.net/archivio-stampa/articolo_risaie.htm