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LO SCANDALO DELLA BANCA ROMANA

Posted by on Mar 14, 2024

LO SCANDALO DELLA BANCA ROMANA

Leggendo il libro “I ladri di Roma – 1893 scandalo della Banca Romana: politici, giornalisti, eroi del Risorgimento all’assalto del denaro pubblico” scritto dal giornalista Enzo Magrì, si ha l’impressione che si tratti di un articolo di cronaca attuale. Narra, invece, di un gravissimo fatto giudiziario che accadde tre decenni dopo l’unità d’Italia e che scandalizzò non solo il Paese, ma tutta l’Europa, il primo grande scandalo politico-finanziario della nuova Italia.

Dopo l’unità d’Italia del 1861 e la presa di Roma del 1870, erano stati autorizzati sei istituti bancari ad emettere banconote. Nel 1866, per finanziare la terza guerra d’indipendenza, il governo autorizzò le banche ad emettere banconote in corso forzoso, cioè senza la convertibilità in metallo prezioso, consentendo di stampare moneta oltre il controvalore in oro posseduto dalla banca.

Lo spostamento della capitale da Firenze a Roma nel 1871 produsse in quest’ultima città un aumento vertiginoso della popolazione e un’espansione edilizia con conseguente speculazione immobiliare. Il finanziamento della ristrutturazione edilizia e della costruzione di nuovi quartieri furono assicurati dalla Banca Romana che, non avendone le forze, mise in circolazione molte più banconote di quelle autorizzate dallo Stato, facendo stampare duplicati di banconote già circolanti in una tipografia inglese.

In mezzo a quella immane circolazione di moneta vera e falsa si tuffarono anche politici e profittatori, chiedendo enormi prestiti non garantiti e mazzette sottobanco. Furono coinvolti gli altissimi vertici dello Stato, quali ministri, parlamentari e funzionari, e lo stesso sovrano Umberto I fu sospettato. Furono foraggiati molti giornalisti (ci ricorda qualcosa di attuale?) per tacere o per scrivere a favore del governo e di lobby parlamentari.

Tra i politici c’era coinvolto il presidente del consiglio in carica, il giovane rampante piemontese Giovanni Giolitti, e anche il ministro del tesoro Bernardino Grimaldi, gli ex presidenti del consiglio Antonio Starabba di Rudinì e Francesco Crispi, e tanti altri.

Molti dei profittatori coinvolti erano illustri patrioti che pochi decenni prima si erano sacrificati per l’indipendenza e l’unità d’Italia, e che volevano riscuotere il prezzo del sacrificio. Oltre ai citati di Rudinì e Crispi, c’erano importanti esponenti del patriottismo garibaldino: Adriano Lemmi (massone gran maestro del Grande Oriente d’Italia e finanziatore delle imprese mazziniane), Giovanni Nicotera (braccio destro di Carlo Pisacane), Augusto Elia (ufficiale dei Mille), Ricciotti e Menotti Garibaldi (figli del generale), Achille Fazzari (disertore borbonico e ufficiale garibaldino a cui fu svenduto il centro siderurgico di Mongiana) e tanti altri.

Una figura fondamentale tra questi patrioti con la passione degli affari fu il calabrese Rocco De Zerbi, volontario garibaldino nella campagna del 1860, poi ufficiale dell’esercito impiegato contro il brigantaggio legittimista, giornalista e infine deputato della destra. A seguito dello scandalo della Banca Romana, fu inquisito, e la Camera diede l’autorizzazione a procedere. Ma prima di essere sottoposto a interrogatorio dai magistrati, morì di crepacuore. Molti pensarono al suicidio o all’omicidio.

Luigi Pirandello inserì tra i personaggi principali del suo romanzo storico “I vecchi e i giovani” il deputato Rocco De Zerbi, sotto lo pseudonimo di Corrado Selmi, amico e compagno d’armi dello zio materno dello scrittore, Rocco Ricci Gramitto, chiamato nel romanzo Roberto Auriti, il quale fu coinvolto nello scandalo della Banca Romana come prestanome del deputato. La riflessione che Pirandello fa esprimere a Selmi/De Zerbi rivela la mentalità e la prospettiva degli ex patrioti entrati in politica o nell’amministrazione statale, dove più si nota “la bancarotta patriottica”:

“Era vero, sì: oltre ai denari attinti alle banche per questa impresa e per altre ugualmente vantaggiose a molti e solo disgraziate per lui, altri e non pochi ne aveva presi per il suo mantenimento. Vivere doveva; e poveramente non sapeva, né voleva. Da giovane, aveva interrotto gli studii per prender parte alla rivoluzione. Per undici anni, finché Roma non era stata presa, non s’era dato un momento di requie. Posate le armi, rimasto senza professione e senza alcuno stato, dopo avere speso per gli altri i suoi anni migliori, che doveva fare? Impiccarsi? La fortuna non aveva voluto favorirlo nei negozii; gli aveva accordato altri favori, ma che gli eran costati cari, e qualcuno – il maggiore e il peggiore – non alla tasca soltanto.”

L’enorme polverone e l’azione giudiziaria finì a tarallucci e vino a causa della sottomissione della magistratura al potere politico (come oggi?): nessuno subì condanne. A pagare politicamente fu Giovanni Giolitti che dovette allontanarsi dalla politica per qualche anno, seguendo il detto siciliano «Calati junco ca passa la china».

Ritornò a capo del governo il principale responsabile, Francesco Crispi, il quale guidò l’Italia con pugno di ferro fino alla disastrosa avventura coloniale finita sanguinosamente con la battaglia di Adua.

L’Italia nasceva storta, come un albero cresciuto su una parete rocciosa a strapiombo. Era l’Italia dei notabili, dove il popolo, la gente comune, era trattato come il terreno concimato dove far crescere le loro ricchezze.

9 marzo 2024

Domenico Anfora

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