Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

L’UNITA’ CHE SI FECE CON 10 ANNI di GUERRA CIVILE !

Posted by on Ott 16, 2023

L’UNITA’ CHE SI FECE CON 10 ANNI di GUERRA CIVILE !

Una guerra civile feroce durata dieci anni (1860-1870) contro degli occupanti che parlavano francese o il dialetto piemontese e che arrivarono nel Sud, con modi di pensare lontanissimi tali da essere incomprensibili. Terra e libertà aveva promesso Garibaldi per i contadini del Sud senza il cui concorso la folle impresa dei Mille sarebbe naufragata in un bagno di sangue, laggiù in Sicilia. I primi editti del generalissimo abolirono l’imposta del macinato, soppressero il dazio, stabilirono le prime divisioni delle terre demaniali, e ripristinarono degli usi civici usurpati.

Fu un momento che illuse le attese e le speranze di un futuro migliore per le classi subalterne del Sud. Ma presto le cose cambiarono mostrando il loro vero volto: con il massacro di Bronte, e la repressione di Bixio, con l’uccisione dei rivoltosi contro le prepotenze secolari dei latifondisti e lo scenario divenne più chiaro. “Occorre che tutto cambi, affinché nulla cambi” disse il protagonista de “Il Gattopardo”. La scelta era stata fatta, in difesa della proprietà e dell’ordine sociale nelle campagne e fu quasi una guerra. Dopo il crollo improvviso della dinastia borbonica, il nuovo Stato unitario dei Savoia si trovò a dover fronteggiare un movimento di rivolta che sfociò nella lotta armata, che venne represso con una durezza eccezionale, esagerata ed indiscriminata, forma violenta di una lotta di classe, che colpiva la classe più vilipesa e sfruttata della società meridionale, quella dei “cafoni” che a loro volta insorgevano contro l’oppressione e la miseria. Il volto del nuovo Stato si presentò con la circoscrizione obbligatoria, con lo stato d’assedio, i tribunali militari, le fucilazioni sommarie per i briganti, il domicilio coatto; il Mezzogiorno divenne un problema di ordine pubblico, trattato come la terra di conquista del Piemonte. Il generale Pinelli aveva già applicato nell’aquilano la fucilazione a chi avesse “con parole o con denaro o con altri mezzi eccitato i villici ad insorgere,” e “a coloro che con parole, od atti insultassero lo stemma dei Savoia, il ritratto del re, o la bandiera Nazionale”. Scrive Denis Mack Smith, storico liberale inglese nelle sua famosa Storia d’Italia: “I contadini trovati in possesso di armi erano fucilati sul posto e i soldati fatti prigionieri erano a volte legati a un albero e arsi vivi; altri erano crocifissi e mutilati. La legge della giungla trionfava e i soldati erano spinti per rappresaglia ad analoghi eccessi. Non veniva dato quartiere, ma al terrore si rispondeva con il terrore.
Degli uomini erano fucilati per dei semplici sospetti, intere famiglie punite per le azioni di uno dei loro membri, villaggi saccheggiati e incendiati per aver dato rifugio a dei banditi.” La repressione terroristica dell’esercito verso i “cafoni”, (“la più grande canaglia dell’ultimo ceto” li definì il generale Solaroli, aiutante di campo di Vittorio Emanuele) toccò punte di inaudita ferocia con l’eccidio di Casalduni e Pontelandolfo nel beneventano, con metodi così sanguinari che il professor Francesco Barra in “Il brigantaggio in Campania” parla di “un autentico e orrendo pogrom”. Le cifre di questa guerra civile ancora oggi fanno rabbrividire. Il numero dei caduti fu superiore a quello dei caduti di tutte le altre guerre del Risorgimento messe insieme. Secondo le stime del Molfese risulta che i guerriglieri nel quinquennio 1861-1865 caduti in combattimento o fucilati furono 5.212, il totale di “briganti posti fuori combattimento” di 13.853.
Molti di quelli che saranno poi i più temuti capobriganti, Carmine Donatelli Crocco, lo Zapata italiano, parteciparono al processo di unificazione per poi ritrovarsi dall’altra parte della barricata, tra le fila della reazione sanfedista e legittimista, prendendo in prestito la coccarda rossa e le bandiere bianche dei Borbone. Li definirono con il marchio infamante di BRIGANTI. Nel 1865, in Basilicata, in Puglia e in Calabria il grande brigantaggio a cavallo, al comando di Crocco, Borjès, Ninco-Nanco, Coppa, Tortora, Sacchitiello che minacciava le fondamenta stesse del nuovo Stato unitario, veniva sconfitto con la cattura, la resa e l’uccisione dei capi, con il sistema della “terra bruciata”. Una resistenza disperata e senza prospettive, repressa con leggi violente (la “legge Pica fece della repressione più rigorosa non una misura eccezionale, ma la regola sanzionata dal diritto”) e con una mobilitazione di uomini e mezzi mai vista prima che raggiunse l’acme nel 1863 quando furono concentrati nel Sud 120.000 soldati, quasi la metà dell’intero esercito. Lo stratega della sconfitta del brigantaggio in Basilicata e nel Beneventano fu il generale Emilio Pallavicini di Priola che si servì della collaborazione di uno dei luogotenenti più fidati di Crocco nel Melfese, Giuseppe Caruso di Atella, il primo “pentito” d’Italia. Caruso si era costituito nel settembre del 1863; in cambio della libertà divenne una guida dell’esercito; profondo conoscitore dei luoghi e dei nascondigli più segreti, consentì di scovare e distruggere molte bande armate e minacciò di catturare lo stesso Crocco. Grazie alla raccomandazione del Pallavicini per i servizi resi venne poi assunto come brigadiere delle guardie forestali di Monticchio. Il contributo fondamentale del traditore Giuseppe Caruso, una sorta di Pat Garrett, è stato volutamente sottovalutato dalla storiografia di parte liberale. L’ex vaccaro dei Fortunato fu anche l’artefice della distruzione avvenuta nel 1867 nel bosco di Bucito, in Basilicata, di una delle bande più agguerrite del picentino, quella di Luigi Cerino di Gauro che operava per lo più nel vasto massiccio montuoso dei Picentini e degli Alburni. Per l’uccisione di Cerino, a Caruso il governo assegnò una pensione di 100 lire al mese, somma rilevante per quegli anni. Nel Picentino, fra queste montagne a cavallo di due province, nelle folte ed impervie boscaglie e nelle grotte naturali, alla macchia operarono una costellazione di piccole-medie bande appiedate, che raramente superavano i 20 componenti, guidate da abili e spietati capi, estremamente mobili, conoscitori perfetti dei luoghi e di ogni più impenetrabile recesso, capaci di lunghe e durissime marce, di giorno e di notte, d’inverno o d‘estate. Una vita senza respiro. Appesa ad un filo. Erano pastori, contadini, braccianti, carbonai analfabeti, renitenti alla leva o disertori, sbandati del disciolto esercito borbonico, semplici avventurieri alla ricerca di bottini e di vendette personali contro i “galantuomini”. Compirono numerosi ricatti e sequestri di persona, vendette contro i proprietari terrieri, le autorità municipali e i membri delle guardie nazionali. Una fitta rete di appoggi, di complicità e connivenze, nelle montagne e nei paesi, li teneva al riparo dalle perlustrazioni delle truppe. La cosiddetta “polizia dei briganti” impressionò anche i membri della commissione d’inchiesta presieduta dal Massari. Nel 1870 il brigantaggio, poteva dirsi completamente sconfitto. Antonino Maratea (Ciardullo) capobrigante di Campagna era stato fucilato nella piazza principale del suo paese il 1 dicembre 1865, insieme al ferocissimo ladro e assassino Carmine Amendola di Giffoni, detto il Pestatore. Prima di lui era stato ucciso nel bosco di Persano il 24 novembre 1864 Gaetano Tranchella di Serre. La banda Scarapecchia era stata decimata e dispersa nei pressi del fiume Sele, quella del terribile Francesco Cianci (Cicco Ciancio) di Montella nel novembre del 1866 a Calavello nel comune di Lioni. A Castiglione del Genovesi il 28 maggio del 1869 venne ucciso, in uno scontro con la guardia nazionale di Castiglione e San Cipriano Picentino, Andrea Ferrigno, uno dei più noti capo banda del picentino. Il montellese Ferdinando Pica perse la vita in un duello rusticano sui monti di Solofra per mano del compaesano Alfonso Carbone. L’intera banda Carbone si costituì a Montella il 5 settembre 1869. Poi fu la volta di Manfra, Gatto, Marcantuono, Parra e Boffa mentre il cadavere putrefatto di Nicola Marino era stato identificato sul monte Bulgheria, nel territorio di Torre Orsaia. Il brigantaggio non aveva però ancora chiuso la sua pagina di storia. Si protrasse addirittura fino al 1873 quando fu ucciso a Flumeri (Av) l’ultimo protagonista dell’epopea del brigantaggio, il celebre capo-banda Gaetano Manzo di Acerno. La vita avventurosa e fuorilegge di Manzo è notissima dopo le descrizioni particolareggiate che hanno fornito le sue stesse vittime. Umile pastore di Acerno, sperduto paese del salernitano al confine con l’avellinese, Manzo renitente alla leva, si aggregò dapprima alla banda di Ciardullo per poi formare una propria banda autonoma, forte di quindici briganti, il cui nucleo centrale era costituito da suoi compaesani di Acerno. Per trovare i complici e i manutengoli e catturare la banda Manzo si utilizzavano senza scrupolo anche sistemi illegali. Un solo esempio per tutti: un certo Salvatore Caputo fu arrestato dai Carabinieri mentre si trovava nelle campagne di Prepezzano “in altitudine sospetta”. Proprio così: ”altitudine sospetta” è scritto nel rapporto datato 7 luglio 1872 e firmato dal Maggiore Enrico De Rogatis. Negli anni ’70 malgrado il vento sia cambiato e il brigantaggio sta scrivendo gli ultimi cruenti episodi di un movimento in estinzione, le tre o quattro piccole bande che ancora sopravvivono nell’area dei picentini possono ancora fruire del sostegno dell’ambiente contadino e bracciantile. Il fenomeno del “manutengolismo” così diffuso durante il brigantaggio post-unitario nasceva dalla miseria e rappresentava l’unico mezzo per cambiare la propria vita di “dannati della terra” e combattere i soprusi, gli inganni, lo sfruttamento condividendo “la mortale avventura del brigantaggio. E‘ interessante per inquadrare gli ultimi anni del brigantaggio riportare ciò che scrive il Molfese.” Contrariamente all’opinione dei pochi scrittori sul brigantaggio post-unitario che hanno trattato anche dei fatti svoltisi dopo il 1864, e che tutti indistintamente ne hanno considerato la fase finale affrettatamente e con superficialità, coinvolgendo il brigantaggio di quel periodo in un solo giudizio negativo che lo raffigura come una manifestazione di criminalità comune in continuo declino, l’esame del lungo periodo che va dalla sconfitta del grande brigantaggio fino alla fine ufficialmente riconosciuta del brigantaggio meridionale (1870), riserva non poche sorprese a chi voglia approfondire meglio le cose. Intanto, in quegli anni seguita ad essere evidente il carattere <policentrico> del brigantaggio, che persiste ostinato nell’Abruzzo chietino, nell’Abruzzo aquilano e in Terra di Lavoro, nel Salernitano, nel Lagonegrese, e infine in Calabria, senza collegamenti apprezzabili tra le varie aree. In questi diversi centri il brigantaggio conserva ancora a lungo la virulenza dei primi anni e specialmente in Abruzzo e in Terra di Lavoro si può parlare di un grosso brigantaggio, condotto, cioè, da molte bande formate di numerosi elementi che non si limitano a praticare soltanto i ricatti e le distruzioni di proprietà a danno della borghesia agraria, ma affrontano incessantemente le forze repressive. Nelle regioni che ufficialmente si considerano <pacificate> (Puglia, Molise, Beneventano, Basilicata, Irpinia), la sicurezza pubblica nelle campagne e lungo le vie di comunicazione lascia sempre a desiderare. Riappaiono continuamente piccole bande a compiere rapine e ricatti. Il fuoco sembra covare sotto le ceneri. Interessanti risultano anche le annotazioni sul nuovo, dinamico metodo della <persecuzione incessante> inaugurato dal generale Pallavicini nel Beneventano che come era stato designato, dopo la defenestrazione del Conte di San Elena, per distruggere la banda Manzo installando il suo quartier generale nel comune di Montecorvino Rovella. “Pallavicini ricercava sempre la chiave del successo oltre che nell’azione militare, in due altri fattori: la collaborazione delle municipalità e delle guardie nazionali (che gli altri comandanti militari difficilmente sollecitavano o sapevano guadagnarsi), e la persecuzione dei manutengoli condotta con ogni espediente,anche a rischio di provocare conflitti con l’autorità giudiziaria. Questo metodo era divenuto sempre più efficace quanto più era andata crescendo la forza delle autorità statali con il conseguente isolamento dei briganti”. Il capo banda Tortora esclamò al suo processo:“ I Ladri sono i galantuomini delle città, e primi i concittadini miei, ed uccidendoli non fò loro che la giustizia che meritano; se tutti i cafoni conoscessero il loro meglio non si avrebbe a restare in vita per uno”.
“I briganti difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati. Per loro sventura si trovarono ad essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro; a difendere la causa cattiva, e furono sterminati. Ma, col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell’altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggetta: perciò, istintivamente,i contadini vedono nei briganti i loro eroi. La civiltà contadina è una civiltà senza Stato, e senza esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta; e sono sempre, per forza, delle disperate sconfitte; ma essa continua tuttavia, eternamente, la sua vita, e dà ai vincitori i frutti della terra, ed impone le sue misure, i suoi dèi terrestri, e il suo linguaggio”. (Carlo Levi, da “Cristo si è fermato a Eboli”).

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