Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Melfi e Palermo, due città dei sette giorni

Posted by on Gen 13, 2024

Melfi e Palermo, due città dei sette giorni

La storia è un necessario mezzo di conoscenza di fatti avvenuti ma ben tenuti nascosti dalla storiografia ufficiale con il solito scopo di mettere da parte la verità.

Soltanto una minoranza di storici non professionisti, attivisti e politici si impegnano a scrivere e a raccontare fatti di storia mal-graditi dal proprio regime e dai suoi alleati per rispettare la realtà e i bisogni del proprio popolo, nella speranza di riavere la sua dignità. Possiamo cominciare che infatti nella nostra terra napolitana e nella Sicilia ci sono due città, sicuramente famose per la loro cultura e per la loro storia, che hanno avuto una svolta determinate in cui i loro popoli si unirono a combattere un regime coloniale che attualmente continua a trattare quegli stessi popoli in colonie di sfruttamento.

Stiamo parlando di Melfi e di Palermo, due città situate nei diversi popoli italici, in particolare la prima in Basilicata, nella Napolitania, e la seconda in Sicilia. In passato le citate città hanno avuto una loro evoluzione graduale rispetto ad oggi, in cui esse rimasero famose per molti eventi fondamentali. In particolare Melfi è famosa per la pubblicazione della Costituzione del 1231 che sancì la nascita dello Stato moderno per il Regno di Napoli e per il Regno di Sicilia, mentre Palermo diveniva una capitale europea sviluppata e centro del potere regale dove i nuovi successori delle dinastie venivano incoronati anche in presenza dei membri e del presidente del Parlamento siciliano. Naturalmente non è finita qui, anche perché Melfi e Palermo saranno famose per un fatto maggiormente interessante ma tenuto nascosto e mal-criticato dal regime coloniale e dalla storiografia ascara quando dopo l’unificazione nazionale avvenuta con l’uso della violenza armata da parte di uno Stato governato da una dinastia che lo indebitò e lo impoverì, nelle province della Napolitania e della Sicilia si verificheranno una serie di moti popolari basati su scopi precisamente diversi: per i napolitani era forte la volontà del ripristino della dinastia borbonica e dell’indipendenza nazionale nostra, per i siciliani desideravano solamente la conquista dell’indipendenza, sebbene prenderanno parte alcuni esponenti e fedeli della dinastia borbonica che dette sicuramente alla Sicilia tutti i benefici a suo favore. L’organizzazione delle ribellioni popolari durante il colonialismo sabaudo si suddivideva tra comitati creatisi da fedeli dei Borbone e politici pentiti e gruppi di partigiani, tra cui ex-garibaldini ed ex-delinquenti. Esiste, però, una costante differenza tra i moti popolari postunitari e i cosiddetti “moti del Risorgimento”, perché la seconda si caratterizza dalla volontà oligarchica della borghesia e dell’aristocrazia intenti a seguire la mentalità dei governi stranieri e delle sue élite divenuti potenti e più pericolosamente tiranni di dentro, mentre la prima si basa sulla pura volontà popolare, aiutata dalla benevolenza delle famiglie ricche che hanno ricoperto incarichi sotto i Borbone. L’unione coesiva sociale del popolo minuto, dei pentiti e dei benevoli ricchi si distingueva direttamente dall’egoismo del ceto borghese-aristocratico per il fatto che quest’ultimi non si interessavano un bel niente i problemi dei loro popoli pur di non perdere il proprio potere nei panni di “rivoluzionari” prima e di “liberali” dopo. Eppure la storiografia ufficiale è pronta a dare giustificazioni inutili e false alle azioni e alle intenzioni dei “patrioti” e dei “Padri” dell’Italia unita, senza deludere la dominante élite grando-padana sul sistema unitario. In risposta possiamo ammettere che i valori di ispirazione dei moti nella rivolta antiunitaria del 1860-70 e nel Risorgimento sono totalmente diversi: onestà, pietà, coscienza e doverosità sono presenti nell’anima della resistenza partigiana napolitana e siciliana, invece il “patriottismo unitario” è spinto dall’individualismo, dal profitto, dalla superiorità e dal cinismo. In altre parole, il popolo minuto napolitano e siciliano non appoggiava i propri connazionali “patrioti” perché le loro idee politiche erano in completo contrasto ai bisogni dei meno abbienti e della economia nazionale ma con l’avvento dei Savoia imposero le leggi del Piemonte straniero sui popoli stessi, riducendoli in colonie. Proprio da quella decisione dall’alto che scatenò la nuova ribellione popolare dei due popoli che rivollero tutto ciò che persero con l’occupazione militare dei mercenari garibaldini.

Prima che a Melfi si esplodesse la rivolta indipendentista e filo-borbonica, sempre in Basilicata avvenne la prima ribellione napolitana scoppiata a Matera nell’8 agosto 1860 quando il conte Francesco Gattini, divenuto “liberale” e proprietario terriero, viene ucciso dai popolani poveri perché ha provato a nascondere tutte le terre illegittimamente usurpate, violando gli usi civici del 1792 che bandisce di fatto l’usurpazione illegittima delle terre da parte dei proprietari terrieri, se in tal caso erano baroni. Inoltre i Gattini erano già famosi per essere stati denunciati dal sindaco di Matera Angelo Longo, nel 1819, di aver usurpato una parte delle terre demaniali. Quindi si arrivò al punto che il popolo lucano non accettava tale sopruso in quanto recava un danno alle sue condizioni economiche, per cui rancore e risentimento saranno gli stati d’animo di una nuova ribellione verificata proprio con l’uccisione del conte usurpatore. Assieme a loro si aggiungerà anche un emergente patriottismo napolitano da parte dei sbandati soldati duo-siciliani e degli ex-garibaldini, tra cui Carmine Crocco, il quale nonostante il compimento della vendetta contro don Peppino Calì per aver difeso sua sorella dalla violenza del primo e dopo essere stato illuso dai borghesi liberali che lo avevano assoldato per condurre il disordine antiborbonico, sposò la causa patriottica e divenne volontariamente un fedele dei Borbone, ottenendo molti appoggi da parte sia dei comitati filo-borbonici in contatto con il governo provvisorio guidato dall’ex-magistrato Pietro Calà Ulloa e con la Corte in esilio sia dai nobili benevoli, in particolare dai Fortunato che hanno dato un contributo alla storia di Rionero, attraverso la figura di Giustino Fortunato che ricoprì la carica di Presidente del Consiglio nel 1849 nominato da Ferdinando II per risollevare la Nazione duo-siciliana dalla crisi economica creata dal terrorismo risorgimentale-oligarchico del 1848. Venivano arruolati nel nuovo esercito partigiano di Crocco alcuni ex-delinquenti, ex-garibaldini, sbandati soldati delle Due Sicilie e poveri contadini, tutti a sperare che si avverasse la giustizia e la pace garantita sotto i Borbone, nonostante le fedine penali di alcuni partigiani avuti in precedenza ma ben presto pentiti. Un’altra e nuova resistenza partigiana stava per avvenire nelle province napolitane occupate e con i primi scontri tra i partigiani napolitani filo-borbonici e le truppe coloniali piemontesi e collaborazioniste si ebbe inizio la terza guerra d’indipendenza, dopo il 1806-15 e il 1799. Però l’unica cosa che pone la differenza tra la terza guerra d’indipendenza del 1860-70 e la prima guerra d’indipendenza del 1799 è il sentimento condiviso dai partigiani stessi, perché Crocco non riusciva a badare la vendetta dei suoi uomini soldati mentre l’eroe cardinale Ruffo implorava, anche forzatamente, ai suoi soldati di non commettere violenza contro le famiglie dei nemici giacobini, sotto la pena di fucilazione. Naturalmente la vendetta dei nuovi partigiani di Crocco è caratterizzata dal malessere sociale causato dalla tirannia liberale che s’impose nelle province occupate attraverso l’applicazione delle leggi piemontesi. Così avverrà nelle province napolitane coinvolte in questa nuova rivolta indipendentista: Isernia, Caridà, Melfi, Montefalcione, Pontelandolfo, sono queste province dove i partigiani indipendentisti e il popolo nostro pagarono la loro ribellione con la vita pur di non farsi assoggettare dagli autodefiniti liberali e dai nuovi invasori piemontesi. A Melfi la storia napolitana scriverà uno dei momenti storici che vide popolo e benevoli ricchi a liberare la città lucana dall’occupazione piemontese e nel mese d’aprile del 1861 un gruppo di contadini marciarono nelle strade per elogiare il deposto re Francesco II e sventolando le legittime bandiere duo-siciliane, scontrandosi con le guardie nazionali collaborazioniste. A Venosa il 10 aprile si tentò l’attacco piemontese con 60 guardie nazionali, composte anche da galeotti delle famiglie borghesi e aristocratici, ma si svanì con una sollevazione popolare che permise l’avanzata militare delle truppe partigiane di Crocco, fino a quando il 12 aprile 1861 Melfi viene liberata con entusiasmo e lo sventolio delle bandiere duo-siciliane, con il spontaneo rovesciamento dell’amministrazione coloniale piemontese fino alla nomina di una nuova giunta comunale duo-siciliana guidata da Don Luigi Aquilecchia, esponente della famiglia facoltosa della città. Lo stesso Aquilecchia è famoso per aver sostenuto le spese di ricostruzione della città colpita dal terremoto del 1851, fondando due casse assistenziali con l’aiuto del re Ferdinando II che visitò in persona la città e coordinò il piano di ricostruzione, raggiungendo risultati positivi e determinando la rinascita della città. Il nuovo sindaco Luigi Aquilecchia, assieme a Carlo Colabella, riorganizzò la città proclamandola come territorio facente parte del Regno delle Due Sicilie, segnando una vittoria della resistenza partigiana, e Crocco entrerà nella città il 15 aprile, ringraziando la Vergine Santissima di aver liberato i lucani napolitani dai soprusi dei padroni e degli invasori. Egli soggiornerà per sistemare il suo esercito ma dovrà abbandonare la città il 18 aprile quando si ebbe notizia dell’arrivo delle nuove truppe coloniali, pronte a rioccupare con violenza la città e le altre della Lucania. Con la fine della rivolta i piemontesi perseguitarono gli abitanti e gli Aquilecchia, imprigionandoli per molti mesi e confiscando alcuni dei suoi beni. Nei confronti della popolazione si eseguì una serie di fucilazioni senza processo che verranno legalizzati dalla famigerata Legge Pica del 1863, indebolendo la resistenza dei partigiani filo-borbonici che si disperderanno finendo nelle trappole, rimanendo uccisi dagli occupanti piemontesi e dai collaborazionisti unitari o venendo arrestati durante i tentativi di fuga, con il rischio di marcire o di morire in carcere con gravi condizioni, come avvenne all’innocente Crocco nel 1906 ma sarà ricordato come un eroe nazionale della Patria napolitana per aver condotto la sua impresa con coraggio e fedeltà.

Quella ingiusta sorte che subissero i nostri connazionali napolitani “colpevoli di essersi opposti al colonialismo sabaudo” si avverrà anche ai siciliani che, volendo riavere l’indipendenza della loro terra, persero alcuni benefici garantiti dai Borbone, ovvero l’esenzione della leva, il porto franco, l’industrializzazione e l’autonomia amministrativa riorganizzata nel 1831, senza aspettarsi che il loro “entusiasmo” verso l’impresa mercenaria dei Mille di Garibaldi si trasformerà in delusione a causa delle mancate promesse fatte dallo stesso Garibaldi per favorire l’occupazione dell’isola da parte dei piemontesi. La ribellione popolare siciliana non era organizzata dai comitati filo-borbonici, come avveniva nella Napolitania, ma dipendeva dai moti di spontaneità scoppiati dalla popolazione, con l’aiuto di alcuni nobili benevoli e agenti borbonici per contrastare le leggi del Piemonte, che lo pagherà con il sangue. Uno dei momenti più interessanti che coinvolse l’intera Sicilia è il sette e mezzo a Palermo, una rivolta indipendentista che seguì la stessa fase di Melfi, ossia dove il gruppo di partigiani viene aiutato da un nascente Comitato rivoluzionario, composto sia dai fedeli dei Borbone sia dai delusi della Unità, e dalla popolazione siciliana che ha sofferto troppo gli abusi di potere dei piemontesi, come l’abolizione della festa di Santa Rosalia del 4 settembre e la Notte dei pugnalatori del 2 ottobre 1862 (bensì condotto da un principe “patriotticamente” antiborbonico), decidendo di usare le armi in difesa dei diritti e dei valori morali della loro terra e per onorare i Vespri del 1282 gridarono “Viva la Sicilia”, “Viva Santa Rosalia” e “Viva la Repubblica”, sventolando le tre bandiere (rossa, duo-siciliana e rosso-gialla) come gesto di ribellione all’occupazione straniera ma senza la guida di un capo che potesse unire le fazioni politiche e sociali. La data dello scoppio di tale ribellione è il 15 settembre 1866 con la discesa dei partigiani dal Conca d’Oro che, prontamente, attaccarono le basi delle forze coloniali piemontesi, in particolare i carabinieri, e proseguirono verso Palermo, dove il Comitato rivoluzionario istituisce il governo provvisorio in attesa delle insurrezioni in altre province siciliane. Intanto la situazione si calmò durante l’organizzazione del nuovo governo e Francesco Buonafede, esponente democratico del Comitato rivoluzionario, si propose di porsi come leader della nuova rivoluzione indipendentista per guidare nel nuovo governo affinché la Sicilia possa risollevarsi contro i piemontesi ma gli viene rigettata la sua proposta, lasciando che la collettività sociale e politica possa continuare a gestire la nuova situazione creatisi con la rivolta popolare. Ci sono state testimonianze da parte di coloro che hanno assistito i fatti del 1866 rispecchiandone la realtà, in particolare il Console di Francia ammise che i rivoltosi assunsero dei comportamenti corretti nei confronti dei prigionieri piemontesi catturati e, battendosi alla giusta causa di indipendenza nazionale e di giustizia sociale, non commisero né vendette né saccheggi, a differenza dei fatti del 1860 in cui i mercenari garibaldini e i picciotti di maggioranza mafiosi saccheggiarono violentemente le case dei commissari e sudditi fedeli dei Borbone, al soldo dei baroni “liberali”. Invece i veri picciotti del 1866 erano tutti popolani, renitenti di leva, ex-garibaldini, sbandati soldati duo-siciliani ed ex-delinquenti, volti alla ricerca della dignità perduta con quella invasione mercenaria. La reazione dello Stato colonizzatore piemontese fu l’invio dei 46mila militari e delle navi della Real Marina comandati dal generale e sanguinario Raffaele Cadorna, aiutato a sua volta dagli inglesi per bombardare la città e causare vittime tra gli abitanti senza risparmiare nessuno. Su quest’ultimo fatto si può notare che gli inglesi erano alleati dei Savoia perché li aiutarono a invadere il legittimo Regno delle Due Sicilie pur di imporre un protettorato sull’isola che non viene ben visto dai Borbone, i quali si sacrificarono a proteggerla e a garantire un sufficiente sviluppo economico a suo favore ma a danno degli stessi inglesi che non esitarono a lanciare una campagna diffamatoria fino alla occupazione totale della Sicilia e della Napolitania da parte dei mercenari di Garibaldi sotto protezione delle navi inglesi e piemontesi. Migliaia di siciliani palermitani rimasero uccisi dai bombardamenti, con fucilazioni senza processo e arsi al fuoco durante i saccheggi o vengono catturati e processati con pene pesanti dai tribunali speciali. Palermo tentò di avere un buon inizio ma subì una brutta fine, vedendo molti dei suoi abitanti finire vittime della tirannia piemontese che continuò a trattarla come colonia sia sotto la monarchia e sotto la repubblica, come la Napolitania nostra. Il ricordo del 1866 rimane sempre nei cuori dei siciliani volenterosi di conquistare l’indipendenza della loro terra e realizzarono manifestazioni e opere per rappresentarla come un evento importante per la loro storia isolana, benché lo spirito di resistenza indipendentista e patriottica siciliana sarà ripresa dal MIS di Finocchiaro Aprile durante la lotta per l’indipendenza tra il 1944 e il 1950. Palermo e Melfi, assieme, sono conosciuti nei citati eventi storici che dovranno essere ricordati dai loro popoli italici per conoscere al meglio e senza l’uso della calunnia la verità e il passato subito sotto i “liberatori Savoia” che danneggiarono la loro economia, fomentando malcontenti popolari e la sua repressione fece cancellare tali eventi dai libri di storia. Se si prova a nascondere la verità per ingannare al proprio popolo non si arriva alla libertà di conoscere con chiarezza la storia del nostro popolo se non sappiamo né amarlo né rispettare le sue condizioni e i suoi bisogni, per cui è necessario il rispetto della realtà fin quando la verità prevalga sulle bugie e porti al popolo dignità e memoria, anche da parte di chi ha il cuore di prenderselo cura.

Antonino Russo

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.