Michele Pezza, “Fra’ Diavolo”, il guerrigliero della regina Maria Carolina
Michele Arcangelo, Domenico, Pasquale Pezza, meglio conosciuto come “Fra’ Diavolo”, è senza dubbio il più importante fra i guerriglieri italiani. Nacque ad Itri il 7 aprile del 1771 da una numerosa famiglia, tipica del Mezzogiorno d’Italia, che viveva discretamente sulla vendita e sul trasporto di olio, prodotto da un terreno coltivato ad oliveto, abbastanza proficui, in località Santo Stefano, portato da un paese all’altro, a dorso di muli.
A quattordici anni, Michele si ammalò gravemente e la madre Arcangela Matrullo , donna pia e timorata di Dio, fedele ad un’antica usanza di Terra di Lavoro, pensò bene di promettere a San Francesco di Paola che avrebbe vestito il fanciullo con un saio fino alla totale consunzione della stoffa, se glielo avesse guarito.
Era, questa,una secolare consuetudine del paese. Michele, dotato di un robusto fisico, guarì, per cui si ritrovò, per le viuzze cittadine, vestito da fraticello, senza peraltro averne il temperamento. L’abito, che mal si conciliava con la sua irrequietezza, e il suo comportamento impulsivo gli valsero, perciò, il soprannome di “Fra’ Diavolo”, del quale titolo egli si compiaceva, aggiungendolo poi nei suoi proclami bellici a quello di “comandante”, quando militò sotto i Borbone.
Michele era un monello di prima riga, tutto pepe e fuoco. Un giorno, nel suonare, come il solito, la campana grande sul campanile di S. Maria Maggiore, la sua parrocchia, si scalmanò talmente che fu avvolto dalla fune e sbalzato fuori dal finestrone salvandosi poi a stento. Da allora non si azzardò più a recarsi sul campanile per suonare.
Di una straordinaria vivacità, a scuola, dal maestro, canonico Nicola De Fabritiis,che insegnava la grammatica a suon di legnate, Michele si buscò l’apostrofe: “Tu non sei Fra’ Diavolo, tu sei Fra’ Diavolo”. Il seducente nomignolo satanico, che odora di incenso e di zolfo, di sacrestia e di inferno, gli restò per tutta la sua travagliata ed avventurosa esistenza, celebrato e temuto, non soltanto nelle terre napoletane, ma in tutta Italia e in Francia, ove fu chiamato “le grand diable”.
Si capisce come un tale soprannome si sia prestato a fantasticherie di grande effetto. Perciò è stato scritto che egli fu un vero frate, frataccio sanguinario e libidinoso; che egli fu un satanista, che ricorresse a scomgiuri e a pratiche diaboliche. Alexandre Dumas padre in “La Sanfelice”, una delle opere più scintillanti e più personali dell’autore piccardo,, scrive che Michele Pezza ha preso il nome di “Fra’ Diavolo” “forse perché ha in sè tutto quanto vi è di più malizioso in un monaco e di più cattivo in un diavolo”.
Giovanotto, in una rissa di tipo rusticano fra coetanei, avvenuta nel 1796, in una stradina stretta, allo “Straccio”, durante una partita a carte, battendosi al coltello, per questioni d’amore e d’onore, fu ferito e, costretto a difendersi (Alexandre Dumas padre nella citata’opera “La Sanfelice” accenna ai due delitti di Michele Pezza come “legati a un fatto non ignobile d’amore”), ne uccise due, rifugiandosi sull’altopiano di Campello, al servizio del barone De Felice, di Roccaguglielma, l’attuale Esperia, personaggio influente e bene introdotto alla Corte di Napoli. Omicidi non premeditati, come si evince da un dispaccio reale del 20 gennaio 1798, inviato dal principe Ruffo di Castelcicala, ministro della Giustizia, al Direttore di Polizia, che trascriviamo: “Dal maresciallo Arriola m’è stata comunicata la seguente sovrana risoluzione. Rapportata al Re la relazione del Capitano Generale don Francesco Pignatelli de’ 25 ottobre del caduto anno, circa la domanda fatta da Michele Pezza di Itri di venirgli commutata in servizio militare nel Corpo dei Fucilieri di Montagna la pena, che avrebbe dovuto subire pe’ due omicidii imputatigli ed accaduti in rissa nella di lui patria, S. M. mi ha comandato e ripetuto che il Pezza passi a servire per tredici anni in uno de’ reggimenti esistenti in Sicilia. Lo partecipo a S. E. per l’adempimento”.
Da quel momento scomparve dal paese. Apparendo e sparendo come un’ombra nelle masserie, nei paesi di Terra di Lavoro e del Napoletano, indossante un lungo mantello nero, che lo avviluppava completamente, e un cappello conico con nastri. Tutti temevano di vederselo sorgere davanti sulle strade, armato fino ai denti, finché la famiglia Pezza ottenne dal governo di Napoli,nel gennaio 1798, la commutazione della pena per il duplice omicidio con il servizio militare in un reggimento di fucilieri di montagna.
Tredici anni a fare il soldato, nella divisa azzurra del reggimento Messapia,di stanza a Portici. Un’enormità. E’ il 1798. Dovrebbe restare sotto le armi fino a quarant’anni, che è, all’epoca, un’età piuttosto avanzata. Però gliene basteranno otto, di anni, per dar vita in tutto il regno ad episodi tali “da rivoltare le viscere alla formicole”.
I tempi gli danno una mano. Servì, da basso ufficiale, nelle truppe dell’antico reggimento Messapia di Sicilia, raggiungendo, ben presto, il grado di sergente, denotando valore, coraggio, risolutezza. Ai primi giorni del dicembre 1798, quando il re di Napoli, Ferdinando IV, con dispaccio animava le popolazioni del reame ad armarsi in massa, al fine di impedire l’invasione delle truppe della Francia rivoluzionaria, comandate dal generale Championnet, il Pezza cominciò, in esecuzione dei reali ordini, a prendere le armi, assieme ai fratelli e agli amici, in difesa della buona causa. L’itrano, devotissimo alla dinastia regnante, partigiano convinto e strenuo sostenitore di Maria Carolina, nonostante avesse capito che l’esercito borbonico fosse una larva, combatte contro i francesi dimostrando di avere la stoffa del capo mettendosi al comando di un piccolo manipolo di insorgenti, che cresceva a vista d’occhio, con uomini raggruppati in formazioni mobili di 100-150 persone, sotto la guida di ufficiali che avevano competenze diversificate di territorio, in base al paese di provenienza, tutti con la medesima paga, sia i soldati che gli ufficiali( tre carlini a testa), con la presenza nell’esercito perfino di ufficiali medici e di cappellani e con l’elezione dei capi fatta direttamente dalla truppa.
Al proclama reale di riscossa, Michele aveva risposto subito,con bello zelo, formando una truppa a massa, di cui divenne il capo indiscusso, grazie alla sua fortissima personalità; una truppa stracciona, male armata, lacera, disordinata, ma un vero e proprio esercito.comandato da un uomo segnalatosi, a più riprese, per un ascendente marcato sui suoi compagni e per spirito di iniziativa. Egli intendeva difendere la sua terra dagli invasori combattendo per il re di Napoli, per cui cominciò a molestare il nemico con frequenti attacchi ed intelligenti azioni di guerriglia, che divennero la tribolazione dei Francesi, che lo temevano molto., ai quali non dava tregua, molestandoli in incessanti scaramucce, tanto che lo stesso Napoleone scrive al fratello maggiore Joseph esortandolo a farla finita con quel “ribaldo”. Si tratta poi di un “ribaldo” vero e proprio, o non piuttosto di un capo di partigiani,come lo definiscono alcuni diaristi del tempo, costretto a lottare, con tutti i mezzi, contro un nemico molto più potente di lui, con una superiorità numerica di dieci a uno? Egli non accettava lo scontro frontale con i francesi, in campo aperto, perché sarebbe stata una pazzia. Né l’armamento, né l’addestramento alla guerra avrebbero lasciato una minima speranza di salvezza.
Tra le numerose manifestazioni di pavidità e di codardia, apparve in Itri chi, raccogliendo il voto unanime dei concittadini massacrati ed offesi, doveva affrontare risolutamente i francesi, fermarli al fortino di Sant’Andrea, un avanzo di antica fortificazione, un baluardo che sbarrava il passaggio verso Gaeta, difeso dal reggimento di Cavalleria del Re e da un corpo di volontari del reggimento di Lucania, muniti di 8 pezzi da dodici. e respingerli fino a Fondi. Più tardi il fortino di Sant’Andrea, posto strategicamente importante, ubicato nel bel mezzo di una stretta gola, circondato da alte colline su entrambi i lati, a cavaliere della Via Appia, ove “Fra’ Diavolo”, non ancora assurto alla gloria leggendaria che lo avrebbe circondato qualche anno dopo, si era organizzato a difesa, venne investito, il 18 dicembre 1798 ( 28 frimaire), da preponderanti forze nemiche (15 compagnie polacche e 50 fucilieri a cavallo). A capo della colonna principale vi era il generale Rey. Il fortino è costretto a cedere, per un attacco sincronizzato con la manovra di aggiramento attraverso la montagna, dopo undici giorni, il passo ai Francesi, che, però, persero alcune centinaia di uomini, tra cui il generale Grigny, che marciava alla testa del suo battaglione. Si disse che egli fu ucciso da “Fra’ Diavolo”. In uno scontro Michele Pezza mise in fuga i franco-polacchi, inseguendoli fino a Fondi e riportandone bottino, formato di 1400 pecore, che servivano da provvigione. Egli si era messo alla testa di 800 itrani, armati di arrugginiti tromboni, di schioppi, di vecchi fucili a scaglia, a polvere, di scuri, di coltelli, di forconi, impedendo il passaggio ai Francesi per la gola di Sant’Andrea, tra Itri e Fondi. Intanto un ufficiale francese, che parlava bene l’italiano, mercé la somma di 5 marenghi dati ad un contadino che abitava nella Piana di Fondi, si fece indicare un’altra strada per la quale parte dell’esercito venne ad Itri passando per S. Raffaele, Scerpena, Porcignano, San Marco. Intanto le altre compagnie adottarono movimenti combinati in maniera da attaccare il nemico nel medesimo istante. Gli 800 itrani, la cui resistenza era stata accanita, intelligente, metodica e veloce, per non essere presi alle spalle, attaccati da diverse parti, abbandonarono la difesa della gola suddetta , lasciandovi 5 cannoni ed altri 3 nelle immediate adiacenze, e così i Francesi occuparono. il 30 dicembre, Itri, saccheggiandolo e trucidando 60 cittadini, fra i quali il sessantasettenne Francesco Pezza, padre di dodici figli, tra cui “Fra’ Diavolo”. Il paese aurunco era difeso da due battaglioni dei volontari lucani e calabri e dai reparti del Pezza, che con i superstiti si rifugiò sui monti,inseguito dai dragoni francesi. Egli scappò per le balze e i soldati francesi dietro. Combatterono di pietra in pietra, di cespuglio in cespuglio.. Il guerrigliero si voltava ogni momento e poi sparava sugli inseguitori; i dragoni si arrampicavano dietro a lui scaricando i loro moschetti, appena ne avevano l’occasione. “Fra’ Diavolo” era inafferrabile, quasi impalpabile, ma infallibile. Parecchi francesi ruzzolarono sulle rocce, colpiti a morte. A Michele Pezza, mentre avanzava, erano ronzate attorno numerose pallottole. Egli salì tra i cespugli, balzando su per le rocce. La salita era scabrosa e i grovigli dei cespugli l’impacciavano ritardandone il passo. Il rimbombo del trombone mostrava che la battaglia infuriava a destra. Infine il capomassa giunse ad un aspro sentiero, tracciato debolmente in un canalone fra le rocce, e scorse i francesi che lo inseguivano. Spianò lo schioppo che si era gettato in spalla e fece fuoco. Sibilando,, la pallottola trapassò il berretto di un francese, strappandogli qualche capello. Poi, tratta una lunga pistola dalla cintura, sparò ad un altro transalpino con ponderata mira. La pallottola passò tra il fianco ed il braccio sinistro, scalfendo leggermente quest’ultimo. Sopraggiunse un terzo nemico. Michele estrasse uno stiletto avventandosi sull’avversario, che eluse il colpo buscandosi, però, una leggera ferita. Era un polacco, che si difese, a sua volta, con la pistola che aveva una lama a scatto. I due si avvinghiarono e seguì una lotta disperata. Il Pezza era un traccagnotto ben piazzato, muscoloso, energico ed alacre. Il polacco, Dalla cicatrice trasversale sul viso e dai mustacchi irti sotto il naso, sebbene di corporatura più grande e più forte, era meno solerte, meno abituato agli esercizi atletici e alle imprese audaci, ma si mostrava abile nell’arte della difesa, nonostante fosse sfinito dalla perdita di sangue e dalla violenza della lotta. I due rivali erano su una cima a picco e il polacco capì che l’avversario lottava per spingerlo sull’orlo del precipizio. Uno sguardo di traverso gli rivelò che sulla cima della balza, a pochi passi, c’era un coltello affilato. Prima esitò e poi si slanciò per afferrarlo, ma Michele Pezza se ne accorse e lo incalzò scaraventandolo poi, a capofitto, nel burrone. Egli si sporse a guardarlo e lo vide giacere immoto tra le rocce. Dal basso i dragoni scaricarono sull’altura colpi d’arma da fuoco. Essi sparavano con una cadenza impressionante contro il fuggiasco, che resisteva incrollabilmente, annidato sull’impervia montagna.
Egli continuò a molestare i francesi interrompendo le loro comunicazioni tra Roma e Napoli, con sensibile danno per i collegamenti e gli approvvigionamenti delle truppe di occupazione nelle due città, tendendo imboscate ai reparti in movimento, sgominando le scorte ed ostacolando, con ogni mezzo, l’avanzata dei distaccamenti militari, grazie alla genialità dei suoi piani, alle sue astuzie, alla sua capacità organizzativa, ai suoi espedienti di guerra, che gli permettevano di filtrare fra le compatte reti tesegli dai suoi nemici, che lo temevano come un’incarnazione diabolica. Egli portava a Thomas Trowbridge le lettere di tutti i corriieri. Il commodoro inglese scriveva: “questo gran diavolo per noi è un angelo”. Che si portò, fino all’ultimo, da soldato, senza macchia e senza paura.
Championnet si inoltrava nel reame di Napoli con tre colonne. “Fra’ Diavolo” suscitava sul loro cammino forti ostacoli, operando con grande energia. Itri fu occupato dai francesi, che ebbero mano libera per cinque giorni continui facendo una vera strage di cittadini e gettando il terrore in quella disgraziata cittadina, offesa dalla ferinità dei francesi, che depredarono ori, argento e la campana della chiesa di S. Michele Arcangelo, del 1099, che i francesi portarono in Francia. .Le donne, inorridite, urlavano nel sangue come le Erinni sanguicrinite di Von Stuck. Le lacrime sgorgavano copiose dagli occhi inondando loro il volto e il seno Infinite spoliazioni, angherie e repressioni furono compiute dai francesi nel paese. Ogni sorta di oltraggio veniva commesso nelle abitazioni, nelle strade, nelle chiese in maniera così brutale che un resoconto fedele sarebbe troppo indecente e troppo obbrobrioso per il genere umano. Non fu mantenuta la minima ombra di disciplina e di ordine, dato che gli ufficiali lasciarono fare non osando intervenire per fermare questi pendagli da forca, questi topi da fogna, arrivati in Italia senza il becco di un quattrino, laceri, affamati e, di punto in bianco si trovano le tasche gonfie d’oro, di collane, di orecchini, di manate di rubini e di smeraldi da vendere nei bazar napoletani o da giocare ai dadi. Le splendide idee di libertà, di uguaglianza e di fratellanza che i francesi pretendevano di bandire erano tradite e rinnegate nella spietata realtà delle stragi, dei saccheggi e delle rapine alle quali si abbandonavano sul suolo di quella povera Italia, senza freno e riguardi, soldatesche e generali, tanto che proprio in Francia si levò contro di loro la rovente e cruda parola del cittadino Lazare-Nicolas-Marguerite Carnot, stigmatizzante le ignominie commesse nel nome di un ideale dai propri connazionali, che rubavano a man salva, senza dar ricevuta, come faceva, invece, Michele Pezza, per i prestiti ricevuti dai vari comuni di Terra di Lavoro e da concittadinii, rendendone conto al re Ferdinando IV con la puntigliosa precisione di un contabile. Il Carnot, nel Direttorio nazionale, pronunciò una dura requisitoria: “Siamo divenuti l’esecrazione di tutti. Tutti ci segnano col nome di soverchiatori e di ladri. Le nostre sconfitte formano il soggetto delle più grandi gioie in riguardo ai popoli, ai quali noi abbiamo offerta la libertà, la felicità e la gloria”. Lo stesso finiva la requisitoria in questi termini: “la maschera è caduta, l’illusione è scomparsa e l’Onnipotente si è scosso”. Un orribile sacrilegio fu commesso dai francesi nel secolare santuario della Madonna della Civita, dove rapinarono molti oggetti pregevoli, tra cui un diadema di grande pregio, donato al santuario dalla contessa Giulia Gonzaga. Tra i trucidati, il genitore del Pezza, di veneranda età, falciato dalle sciabole dei dragoni, nella cui casa i franco-polacchi bevettero tutto il vino che potettero sfondando poi le 50 botti e rompendo i 30 ziri pieni di olio. Azioni dettate, presumibilmente,dal desiderio di colpire, nel padre, l’aborrito valore del figlio e la resistenza al fortino di Sant’Andrea, dove dovettero subìre molte perdite. “Fra’ Diavolo”, dopo la mezzanotte, approfittando della baldoria dei francesi, che festeggiavano la loro vittoria, e dell’oscurità della notte, si recò a casa sua e, trovato il padre morto, preso a sciabolate, se lo caricò sulle spalle; scassinò la porta della vicina chiesa di Santa Maria Maggiore, distrutta nell’ultima guerra mondiale, lo baciò e lo seppellì nella fossa, dinanzi all’altare del Sacramento. Dopo aver seppellito, con le sue stesse mani, il genitore (era viaticale, che portava olio, maccheroni, pasta da Itri allo Stato Romano e ne riportava legumi e grano), Michele Pezza, avvolto nel suo pastrano grigio, con il bavero rialzato, senza cappello, con una smorfia amara agli angoli della bocca, giurò davanti all’altare eterno odio all’’invasore e decise, a causa della sua indole fiera, che avrebbe combattuto, fino all’ultimo respiro, “unguibus et rostris”, i Francesi, venuti ad occupare e ad incendiare le belle regioni italiane.. La morte del padre fu per lui un fatto doloroso, un vero e proprio strale nel cuore.
Da quel momento la sua attività infaticabile e la sua indubbia abilità di soldato diventano veramente diaboliche: il giovanissimo ed indomito guerrigliero di Itri ,la cui difesa del “trono e dell’altare” dura quasi ininterrottamente dal 1798 al 1806, diventa l’incubo dei francesi, che subiscono giornalmente scacchi militari, umilianti ritirate, perdite continue, ai quali non concede tregua, tanto che lo stesso Napoleone Bonaparte si induce a scrivere al fratello Giuseppe, esortandolo a liberarsi di quel “ribaldo”: Si tratta poi di un ribaldo vero e proprio, o non piuttosto di un capo partigiano, come lo definiscono taluni cronisti del tempo, costretto a lottare con tutte le armi e con tutti i mezzi contro un nemico più potente di lui ? L’imperatore aveva ordinato a Joseph di far tacere le gazzette, perché le notizie sulle prodezze guerriere del Pezza erano “contagiose”. Il dittatore capì che si stavano coprendo di ridicolo, per cui intimò al fratello di far tacere i fogli periodici, che riportavano le strepitose gesta dell’itrano. Cosa che Joseph fece mettendo il bavaglio alla stampa napoletana.
L’intuito militaresco e la perfetta conoscenza delle zone di belligeranza permisero a Michele di imporsi ad alcuni compagni, che accetteranno deliberatamente la sua autorità, e di ottenere svariati successi, facendogli evitare il combattimento in campo aperto, dove avrebbe avuto sicuramente la peggio, essendo i francesi munitissimi, con armi nuovissime di zecca e con cannoni che avevano grandinato di palle i difensori del fortino, soggetti anche ai colpi dell’artiglieria e della mitraglia.
Il Pezza ebbe su tutti gli altri capimassa (così si chiamavano i capi delle bande irregolari) il merito di eccellere più nelle gesta militari che negli abusi pirateschi. Ciò nonostante, per tutti quelli che avevano combattuto la rivoluzione, non ci doveva esservi una parziale giustizia. Gli storici partigiani, fra i quali uno dei primi, il Colletta (l’ufficiale esonerato per infedeltà dovette dipendere, nei lavori di bonifica delle paludi di Fondi, quale oscuro idraulico, dal rude soldato, che quelle terre teneva, a nome del re, il che gli fece accumulare quella bile che doveva riversare nella “Storia del reame di Napoli dal 1734 al 1825”), dovevano ricacciare tra i mostri anche il Pezza, Salomone, Sciabolone e Mammone, autentico e sanguinario bandito, che sostenevano i Borbone nella loro disperata situazione. L’uso di servirsi di briganti e di offrire loto gradi nell’esercito era tenuto anche dai Francesi, che nominarono colonnello il celebre omicida e grassatore Antonelli di Fossacesa, salvo poi impiccarlo quando tornò alla macchia e al brigantaggio.
La figura di “Fra’ Diavolo”, come vedremo, è almeno diversa dalla loro. All’avvicinarsi dell’esercito francese, egli come già accennato, armò il fortino di Sant’Andrea, posto quasi al confine del regno, in una buona posizione strategica. Quel forte diventò un caposaldo della difesa nazionale e vi accorsero dalle terre dintorno circa duemila uomini. Per superare quello scoglio, difeso da quell’uomo che pareva volesse tener fede al suo nome, i francesi dovettero chiedere ed ottenere soccorsi dalla Lombardia. Quattro colonne convergenti poterono alfine espugnare il fortino, ma Michele Pezza non fu catturato, nonostante fosse stato ferito da una pallottola vagante al braccio sinistro da un corso. Con seicento fedeli, disposti a sacrificarsi e a morire, spinti da principii intangibili, attaccò i francesi da tutti i lati. Sempre sopraffatto dal numero, sempre sconfitto dalla bravura dei soldati transalpini, venuti dai grandi campi di battaglia, egli si ritirava con meno brigata, ma con più foga. I provetti militari francesi erano stati respinti, per tre volte, pagando un duro scotto.
Da allora per l’Appia non passarono più corrieri, staffette, messaggeri. Chiunque sia francese, è sterminato. Si moltiplicavano le imboscate. I postiglioni tremavano, verga a verga, al primo fruscìo fra le siepi e i cavalli si adombravano e spesso rompevano i tiranti al rintronare degli spari, mentre le diligenze rotolavano per i dirupi, insieme ai viaggiatori depredati. Intanto le popolazioni si sollevavano. Le campane, da Frosinone a Terracina, suonavano a martello e la gente correva alla leva spontanea contro gli “anticristi”, che, a Napoli, sposavano i fidanzati senza prete, in una piazza, facendoli girare, tre volte, attorno al palo, che aveva, in cima,la bandiera tricolore e qualche foglia di alloro.
Ad Itri un gruppo di rivoltosi abbatté e distrusse i simboli rivoluzionarii: armati dii fascine, bruciarono, in un gran rogo, la bandiera francese, il berretto frigio e l’odiato ”albero della libertà”, piantato presso la piazza antistante il convento di S. Francesco, dove avevano ballato, con i soldati “liberatori”, donne e ragazzi, al suono della Carmagnola, al grido di “libertà,, uguaglianza, fratellanza”, che i francesi praticavano solo a parole, in un esercizio di retorica. I controrivoluzionari inalberarono un ritratto della Madonna della Civita, quasi a sottolineare che l’esercito dei crociati, visti come difensori della fede, si muoveva sotto la protezione celeste. Il promotore dell’insurrezione, il Pezza, alzando il vessillo della rivolta, i gigli borbonici, infiammava i cuori a perseverare nell’ardua impresa di sostenere la Religione, la Patria, il Trono. I focosi itrani uccisero la guarnigione francese di stanza nella cittadina.
L’assedio di Gaeta del 1799
Caduta la Repubblica Partenopea, nel 1799, Michele Pezza, detto “Fra’ Diavolo”, riprese a bloccare, coni suoi seguaci,, la fortezza di Gaeta scompaginando, con innumerevoli azioni di guerriglia, i francesi. Fu autorizzato dall’Ispettore di Campagna, con lettera del 4 giugno 1799, ad esigere soccorsi dai Comuni del basso Lazio. Due giorni prima, il Pezza, con 600 uomini, avvisato dalle spie , sorprese e sbaragliò 300 francesi che avevano fatta una sortita dalla piazzaforte, il giorno di San Marciano. Come scrive Domenico Petromasi, vicario generale di S.M. Siciliana, in “Storia della spedizione dell’eminentissimo cardinale D. Fabrizio Ruffo…”, “furono allora pochissimi, cui toccò la sorte di ricondursi a Gaeta”.
Egli trasferì il suo quartier generale, sin dal 20 giugno, nel palazzo della marchesa Patrizi, a Formia. Il cardinale Fabrizio Ruffo, con il foglio 2 luglio 1799, preavvisò il Pezza che doveva dipendere, per il buon servigio della causa borbonica, dal comandante della flottiglia, Emanuele Lettieri. Il marchese Corrado Malaspinadi Fosdinovo,aiutante reale del cardinale, scriveva a “Fra’ Diavolo”, in data 14 luglio, per avvertirlo che il Ruffo, per le spese occorrenti per la felice riuscita della presa di Gaeta, gli inviava seicento ducati, da pagarsi alla truppa, dopo una rivista passata dal Lettieri. Questi dette l’incarico, il 23 dello stesso mese, al capitano Emanuele Del Corte, che si addossava le funzioni di Commissario. \
Michele Pezza passò continue ispezioni delle truppe, il cui numero cresceva costantemente,: i 967 uomini del 1° maggio diventarono 1707, il 29 del medesimo mese.
Durante l’alloggiamento dei soldati nei quartieri militari, presso Gaeta, alcuni insorti trascesero in violenze e in ricatti estorcendo denaro ai ricchi adducendo il pretesto che fossero giacobini. Il Cayro faceva notare che “andava all’assedio gente d’ogni sorta, ed anche qualche volta per tre o quattro giorni, per farvi una mangiata di pesce, e ritornati (a casa, n. d. r.) se ne facevano una risata”. E soggiunse che il guerrigliero soffocò i disordini. Spesso, però, egli era fuori e ignorava queste soperchierie. Quando ne veniva informato, puniva i bricconi. Un giorno,cadde nelle mani degli insorti un francese. Essi gli tagliarono il naso e le orecchie. Poi lo appesero “come un porco scannato al macello”.
Il blocco della fortezza di Gaeta divenne sempre più efficace, per cui, dopo la capitolazione di Capua, seguiva quella di Gaeta. I francesi chiesero ed ottennero di non aprire le porte a “Fra’ Diavolo”, riconosciuto dal sovrano Ferdinando IV capo dell’assedio di terra di Gaeta, ma agli inglesi, che giungevano dalla parte del mare.
Le trattative non furono fatte con il Pezza, perché lo aveva impedito il cardinale Ruffo, Per centrare l’obiettivo, Michele Pezza aveva sborsato, di tasca sua, per la paga alle masse (tre carlini a testa giornalmente, senza alcuna distinzione, ad ufficiali e a soldati), ben 13.000 ducati, cifra che non gli verrà risarcita dall’ingrato re di Napoli, con la scusa che erano effetti di guerra, cioè di un fatto di forza maggiore e dovevano, perciò, porsi in oblìo. L’itrano protestò per questo espediente di malafede e chiese al sovrano, che gli aveva concesso le rendite di vari immobili, di poter vendere una parte di questi, per soddisfare personalmente quei creditori.
Chi fa una figura migliore, in questo episodio, il re o il “brigante”?
La resa fu convenuta tra il generale di brigata Antoine Girardon per i francesi, il generale John Edward Acton, avventuriero irlandese, baronetto dello Shropsiew,, e l’ammiraglio Oratio Nelson per gli inglesi.
Le truppe francesi, 3.000 soldati, uscirono dalla fortezza con tutti gli onori di guerra, perché la piazza era stata soltanto bloccata e non assediata, per trasferirsi in Tolone.
Il Pezza si era comportato bene dal punto di vista militare, ma Acton riteneva, a torto, che la resa di Gaeta era dovuta alle misure da lui prese e non dall’azione di “Fra’ Diavolo”. Le fonti francesi fanno, invece, rilevare il ruolo decisivo sostenuto dalle masse del capomassa, il quale masticava amaro per questa umiliazione, che gli era rimasta sul gozzo. Egli non solo non partecipò ai negoziati per la capitolazione del fortilizio, ma gli fu proibito dal Ruffo di entrare in Gaeta con i suoi uomini. La città venne occupata da un contingente inglese e da reparti regolari sbarcati dalle navi siciliane Per le succitate azioni, però,il capomassa fu ricompensato con il grado di colonnello ed una pensione annua.
L’assedio di Gaeta del 1806
Il futuro salvatore del regime borbonico fece divampare la fiamma in tutta la Terra di Lavoro andando di paese in paese, di piazza in piazza, di casolare in casolare, ad infiammare gli animi con la narrazione delle efferatezze degli invasori. Il fiume Garigliano si tinse di rosso per il sangue versato dai soldati francesi e dai loro fautori. Predicando la guerra santa” contro le truppe napoleoniche, il Pezza aveva scatenato una guerra veramente nazionale, che si sparse per tutta la Terra di Lavoro, per le Calabrie , per gli Abruzzi e in ogni provincia dell’Italia meridionale. La sua tattica di combattimento, che fu poi il caratteristico metodo della guerriglia, accese la fantasia e creò la sua fama , mista di fatti autentici e di imprese favolose, destando entusiasmo e formando quell’aureola di prestigio e di invincibilità, che, ancor vivo, lo rese leggendario. Per questo, Michele riuscì a radunare una massa di oltre 1700 uomini, composta da popolani e da contadini, tutti in difesa del sovrano e della Santa Fede contro “l’insensato giacobinismo” combattendo alla testa della “Legione della Vendetta”, che doveva strappare le terre del Mezzogiorno d’Italia all’invasore bonapartista. Nella guerriglia, fatta di agguati e di trabocchetti, Michele Pezza offrì, piena e intera, la portata del proprio valore, la misura del proprio talento militare, grazie alla sua audacia e alla sua lungimiranza. La guerriglia implacabile del dotato comandante rese non solo precario ma rischiosissimo il dominio dei francesi e molto maggiori servizi si sarebbero potuti trarre dalla sua opera, se i suoi piani fossero stati assecondati dal cardinale Fabrizio Ruffo, che gli impedì di entrare in Gaeta, dopo che, con truppe arruolate da lui, da lui pagate e comandate, aveva, per circa tre mesi, assediato la piazzaforte, costringendola alla resa. Il commodoro inglese Trowbridge, che aveva bloccata dal mare la cittadina, esclamava : “Questo fra Diavolo per noi è un vero angelo”. Dovunque, nel Regno di Napoli devastato, si cantava:”E’ venuto Fra’ Diavolo, ha portato i cannoncini, pe’ ammmazzà’ li giacobini; Ferdinando è il nostro re!”.
Ormai il capomassa ha, ai suoi ordini, un esercito, un vero esercito, al quale gli inglesi hanno dato scarpe e munizioni. L’otto febbraio del 1799 va incontro al cardinale Fabrizio Ruffo, sbarcato alla Punta del Pezzo con il marchese Malaspina, con due abati, con il cappellano Caporossi e con tre servitori. L’intera Calabria è in armi contro i repubblicani, pronta a scacciare i francesi dalle Due Sicilie. “Fra’ Diavolo” appoggiò la spedizione per la riconquista del regno, portandosi su Napoli, alla testa delle truppe che da Capodichino andarono all’assalto del ponte della Maddalena, entrandovi il 13 giugno 1799. Egli partecipò a tutti i combattimenti occupando le fortificazioni di Castelnuovo e di Castel dell’Ovo, dove si trovavano quarantamila fucili. Galvanizzati dal suo coraggio leonino e dal suo selvaggio ardore, oltre che dal suo forte ascendente sulle popolazioni, gli insorti ingrossarono le sue fila, riconoscendogli incontestabili qualità di capo. Lo abbiamo visto quando, semplice sergente, dopo l’evacuazione di Roma da parte dell’esercito napoletano, ha riunito nella retroguardia alcuni uomini risoluti e ha tentato con essi di fermare l’inseguimento dei francesi. I primi scontri del Pezza, audaci, gli attirano subito l’intera fiducia di quelli che hanno benevolmente accettato la sua autorità. La leggenda di “Fra’ Diavolo”, antesignano della guerriglia, che poi verrà adottata in Spagna, sempre contro i francesi, che ebbe un posto importante nella storia militare italiana,in mezzo “al pecorile invilimento” degli italiani, si ingigantiva di ora in ora. Eccolo a Traetto, l’odierna Minturno, assediata ed occupata da un uomo che sentiva vero amor di patria ed affetto per il legittimo re, scacciandone oltre il Garigliano, di cui aveva rotto il ponte, le truppe francesi, che avevano ucciso centinaia di traettesi, e impossessandosi di tutta l’artiglieria nemica; eccolo a Caserta penetrare, di notte, nel campo nemico, catturando sei ufficiali in mutande, che dormivano tranquilli ignorando che le sentinelle giacevano sgozzate nel loro sangue, alle porte del quartiere. E, appena un’ora dopo, era a Muciano , a sparare sotto le finestre della Guardia Civica o a gozzovigliare nelle cantine, stipate di caciocavalli, e di salsicce, che un ricco borghese gli teneva sempre aperte. Niente fermò il capomassa. Nessuno può prevedere dove sia diretto. Penetra a Napoli quando vuole, si aggira per le strade formicolanti di ronde e di spie e, mentre la guardia lo bracca, tranquillo imbraccia la chitarra e improvvisa una serenata a Fortunata Rachele Geltrude, la bella figlia del parrucchiere, che ascolta allibita piangendo sul cuscino. All’imbocco di un vicolo, sul ciglio di un fosso, c’è sempre un “guaglione” che lo avverte con un fischio al momento buono e, quando i dragoni arrivano, l’ombra si è dileguata: “Fra’ Diavolo” è scomparso come ingoiato dalle rocce, dietro le quali trovava riparo un buon numero di suoi seguaci.
A maggio egli è già signore del Paese, dal Garigliano al Tevere. Le notti di primavera si accendono per i fuochi dei bivacchi sui monti e lo schiamazzare degli insorti raggela il sangue nelle vene dei francesi. Ogni canneto può nascondere un’imboscata; da ogni cespuglio può partire, all’improvviso, il colpo di fucile che dà la morte, senza scampo. Sulla tolda del “Culloden”, in piedi accanto all’ammiraglio inglese Trowbridge, Michele Pezza scruta la costa di Gaeta e discute i piani per attaccare, di notte, Sant’Elmo operando, di sorpresa, sui fianchi delle milizie di Hood. Il generale Macdonald parte, richiamato in Lombardia dai rovesci militari subìti dalla Francia, e “Fra’ Diavolo” passa in rassegna le truppe, affluite lungo la costa partenopea, per l’assalto alla rocca. La compagnia di Itri è in testa allo schieramento, con i suoi”briganti” tirati a lustro, che ardono dal desiderio di menar le mani. Michele ora cinge al fianco una spada d’ordinanza, dalla impugnatura cesellata, che la regina Maria Carolina ha inviato da Palermo, assieme ad un suo ricciolo dei capelli e al decreto, del 2 novembre 1799, in cui lo si nominava colonnello di fanteria, con una rendita annuale di 2500 ducati sui beni confiscati ai giacobini, molto nominale in verità in quanto non fu mai pagata effettivamente al suo beneficiario, il suo “Buon Diavolaccio, anima onesta e santa”, una sorta di Robin Hood nostrano. Michele Pezza, che provava per la regina una fede quasi fideistica,tiene viva nella stessa Napoli la fiaccola insurrezionale. Parecchi cittadini, ligi al vecchio governo borbonico, si mantengono in continuo contatto con il capomassa, facendogli giungere preziose informazioni, oltre ad aiuti notevoli di varia natura e qualità.
Ora riferiamo una singolare avventura, che riguarda il Pezza e il colonnello francese Monard, dell’11° fucilieri, con sede abituale a Presenzano, ora in provincia di Caserta, che, saputo della requisizione di un carico di caffè da parte del Pezza, aveva detto, con dispregio, confabulando con delle persone: “Chi crede di essere? Vorrei incontrarlo per vedere se è capace di fare il gradasso anche in mia presenza!”.”Fra’ Diavolo” venne informato di ciò da qualche uomo al suo soldo. Egli ne aveva a iosa ad origliare le conversazioni, soprattutto quelle fra ufficiali e sottufficiali.
Michele pensò di soddisfare il suo desiderio. Trascorsi pochi giorni, il colonnello Monard era a letto, quando vide aprirsi la finestra della camera ed irrompere dentro di essa una persona, di cui ignorava l’identità, due pistole alla cintura. Questi si avanzò dicendogli:”Non temete! Desideravate vedermi ed eccomi qui. Sono Fra’ Diavolo!”. L’ufficiale francese mosse velocemente, istintivamente, la mano per afferrare la spada che aveva al fianco, ma lo sconosciuto, fermandolo, lo tranquillizzò asserendo che egli era venuto con intenzioni amichevoli. I due si intrattennero a parlare con cordialità per alcune ore della notte, come fossero due vecchi amici, fino a quando, all’improvviso, il Pezza si alzò e scomparve dalla finestra. Il giorno dopo il Monard, mentre commentava con gli amici la conversazione avuta con l’ufficiale borbonico, ricevette un biglietto, che aprì avendo una nuova sorpresa: l’avversario lo invitava a colazione, nel bosco di Presenzano, assieme ad altri ufficiali. Avrebbe fatto trovare loro ottima selvaggina ed ottimo vino. Il Monard si apprestava a partire, ma ne venne dissuaso dalla sua scorta, che temeva si trattasse di un agguato.
L’assedio di Gaeta del 1806
Sul finire del 1805 Napoleone Bonaparte, che aveva visto il maneggio della regina di Napoli, che chiamava “il solo uomo delle due Sicilie”, dichiarò che “la dinastia di Napoli aveva cessato di regnare”, perché aveva preso parte alla nuova coalizione continentale violando il patto di neutralità. I francesi tornarono in Italia agli inizi del 1806 e l’imbelle Ferdinando IV fuggì nuovamente in Sicilia. I francesi posero l’assedio a Gaeta, difesa eroicamente dal generale Philippstadt. Il Pezza, dopo una forzata inerzia, era con lui nella cittadella, dalla quale effettuava continue sortite notturne, repentine, impetuose, travolgenti, con temerità meravigliosa, rallentando l’assedio francese. A Serapo , con atto di audacia, inchioda diversi cannoni francesi, piantando chiodi nel focone, cioè nel piccolo buco situato nella culatta, attraverso il quale si introduce lo stoppino o la polvere. Una volta rientra a Gaeta onusto di viveri e di provvigioni, presi da 4 legni francesi catturati a Mola di Gaeta, l’odierna Formia, con sei barche pescherecce! In questo periodo è fatto prigioniero dal capomassa il valoroso generale di brigata Lamarque, che lo ricorda nel volume “Souvenirs, mémoires et lettres du général Maximilien Lamarque”. Questo ufficiale contribuì alla conquista del regno di Napoli, nel 1806, alla presa di Gaeta e all’espugnazione dell’isola di Capri, una posizione che si giudicava imprendibile e che era difesa da Hudson Lowe, il futuro carceriere di Napoleone a Sant’Elena, che ricevette dal Pezza, il 23 luglio 1806, 120 prigionieri francesi. Nell’aprile del 1806 il generale Lacour aveva cercato di corrompere il capomassa, tramite emissarii, al prezzo di 50.000 ducati. Il Pezza doveva consegnare ai francesi una delle posterle della piazzaforte, dove era anche la moglie e i suoi due figlioletti, prima di fare la sua sottomissione. Il Lacour aveva firmato in anticipo un salvacondotto a favore di del colonnello e dei suoi familiari. Michele respinse con disprezzo l’offerta fattagli, restando “al di sopra delle meschine faccende di denaro”, continuando la sua lotta ad oltranza, decidendo di mettersi agli ordini dell’ammiraglio Sidney Smith, un altro straniero. Corse voce che il colonnello borbonico era stato arrestato per aver voluto cedere Gaeta ai francesi e condotto a Palermo, dove era stato giustiziato per ordine della regina Maria Carolina.
Sul finire del 1805, Napoleone Bonaparte, che aveva viso il maneggio della regina di Napoli, che chiamava “il solo uomo delle due Sicilie”, dichiarò che “la dinastia di Napoli aveva cessato di regnare”, perché aveva preso parte alla nuova coalizione continentale violando il patto di neutralità. I francesi tornarono in Italia agli inizi del 1806 e l’imbelle Ferdinando IV fuggì nuovamente in Sicilia.Essi, al comando del maresciallo Andrea Massena , duca di Rivoli, principe di Essling, tornano nel reame di Napoli e sono, in data 16 febbraio, dinanzi a Gaeta, la cui fortezza poteva disporre di 130 bocche di cannone e di seimila soldatii. La colonna del generale-conte Giovanni Luigi Reynier attacca la piazzaforte già il giorno dopo. Reynier invia un’ambasceria alla piazzaforte intimando la capitolazione della stessa in un giorno. Il governatore di Gaeta, il principe Luigi d’Hassia-Philippstadt, cugino della sovrana Maria Carolina, risponde che “Gaeta cadrà quando non avrà più un braccio che la difenda” e organizza la resistenza ad oltranza, anche grazie all’appoggio delle navi inglesi, che riforniscono le truppe borboniche. Egli, alle continue intimazioni dei transalpini, inviò loro un barile di polvere da sparo e un grosso pesce fresco, per far capir loro che i difensori di Gaeta potevano contare su abbondanza di munizioni e di provviste e che la piazzaforte non poteva essere ridotta per fame. Il valoroso governatore, che aveva il solo difetto di alzare spesso il gomito, disobbedisce agli ordini della Reggenza rifiutando ogni patteggiamento con i francesi, volendosi difendere fino agli estremi.
Ancora protagonista Michele Pezza (questa volta egli non è un assediante , come nel 1799, ma un assediato) , che, esponendosi ai maggiori rischi, si spingeva, con un coraggio da leone, lui che non aveva paura né del Diavolo né della Versiera, in faccia al nemico per provocarlo o deriderlo. Lo faceva con frequenza, divenendo sempre più intrepido negli agguati e nelle insidie, man mano che cresceva l’impeto dei francesi, forti di quattordicimila uomini. Il 16 febbraio 1806 Michele Pezza catturò, con sei barche, quattro velieri carichi di viveri, portandoli a Gaeta. Una settimana dopo, il colonnello e duca di Cassano allo Ionio operò, assieme al fratello capitano, Nicola, un’altra sortita dalla Real Piazza,, per ordine del governatore di Gaeta, Philippstadt, per esplorare le posizioni dei nemici. Il giorno seguente, fece un’ulteriore sortita, con 80 uomini del corpo franco degli” aggraziati”, riuscendo a porre in fuga gli avamposti francesi e ad impadronirsi di armi dei medesimi, con utensili e commestibili. Il comandante della piazzaforte di Gaeta, però, era scontento del Pezza , perché non voleva viveri ma ceste di teste di francesi.
L’assedio di Gaeta, uno dei più gloriosi della storia gaetana, durò a lungo, violento, ostinato. Intanto il Pezza preparava una spedizione in Calabria. L’assedio attirò sulla cittadina aurunca, l’unica che resisteva a Napoleone, l’ammirazione di tutta l’Europa, che pareva si fosse piegata alla volontà del Bonaparte. Esso si protrasse per vari mesi ed è citato come uno dei più gloriosi della storia, a cui partecipò lo stesso Joseph Bonaparte. Il principe Luigi d’Hassia- Philippstad, un ometto tarchiato, dal naso aquilino, mediocre cortigiano, donnaiolo, crapulone, un devoto di Bacco in maniera straordinaria, ma soldato coraggioso e testardo, oltre che di ferreo carattere, era divenuto l’oggetto dell’ammirazione generale per la vigorosa resistenza e per lo spirito di fedeltà al suo dovere, contro cui non erano valse neppure le offerte più generose di corruzione. Una volta Philippstadt salì sugli spalti avanzati, munito di un altoparlante, mettendosi a gridare verso il campo nemico: “Gaeta non si arrende! Gaeta non è Ulm. Philippstad non è Mack!” Il governatore alludeva alla vergognosa resa della piazzaforte danubiana, nell’ottobre del 1805,capitolazione dovuta al pusillanime maresciallo austriaco Carl Mack, barone von Leiberich, un uomo militarmente incapace. Una ventura, però, non permise un’ulteriore resistenza: Philippstadt, il 10 luglio, ferito gravemente alla testa da una scheggia di ferro di bomba nemica sulla batteria che ne porta il nome, dovette imbarcarsi sul vascello inglese “Le Tonnant”, che era nella rada, e partire per Napoli. Il principe Luigi d’Hassia,comandante in capo negli eserciti napoletani, di nobilissima stirpe alemanna, morì il 15 febbraio 1817.
Il colonnello Francesco Hotz, il vice del principe Luigi d’Hassia- Philippstadt, che prese provvisoriamente il comando della piazzaforte, il 18 luglio alzò bandiera bianca. Avendo le artiglierie dei francesi rese praticabili due brecce, la fortezza si era arresa, nonostante i difensori di Gaeta fossero ancora settemila e in rada fossero giunte le navi dell’ammiraglio inglese Sidney Smith ( 4 vascelli e 6 fregate, oltre alle minori). Il bilancio generale dell’assedio segna che, tra i borbonici, avevano perso, tra morti e feriti, novecento uomini, mentre i francesi lamentavano la morte di millecento soldati ed ufficiali, tra i quali il quarantaduenne generale di brigata Joseph-Secret-Pascal Vallongue, comandante del genio, colpito il 12 giugno e deceduto quattro giorni dopo, tumulato sugli spalti della cosiddetta “Breccia”.
Il re di Napoli, Ferdinando IV, per perpetuarne la memoria, fece coniare per i valorosi difensori di Gaeta tre medaglie:due d’argento con appiccagnolo ed una di bronzo fuso dorato con appiccagnolo. Il parlamento siciliano riconobbe il valore dei difensori di Gaeta conferendo una spada per il principe Philippstad e due pistole e un coltello da caccia indiamantato per l’indomito colonnello Michele Pezza, che la regina di Napoli, Maria Carolina,chiamava “anima onesta e brava”.
Si erano scagliati dodicimila colpi ed altrettanti ne aveva sparati il nemico, munito di 70 cannoni, di 50 obici e mortai e di quindicimila uomini. Le cannonate erano rimbombate cupamente incessanti, dal mare ai monti, e i diarii cassinesi annotavano, ogni giorno, che ne giungeva l’eco fino all’abbazia benedettina.
E’ opportuno rammentare un episodio, del quale Michele era stato protagonista, accaduto nel maggio del 1806: alcune signore francesi, tra cui la moglie del generale Macdonald, viaggiavano verso Napoli, sul tratto Fondi-Itri, per raggiungere i loro mariti di stanza a Capua, al servizio del re Joseph Bonaparte. Sorprese ed accompagnate presso un’altura, qui un uomo basso, olivastro, dagli occhi scintillanti, inchinandosi galantemente davanti alle medesime, dice “Niente paura, mie signore, siete ospiti del colonnello Pezza”.
Michele le fece trattare con rispetto e accompagnare, il giorno seguente, da un piccolo squadrone di cavalleria fino a Capua. Trattate come regine, le prigioniere ebbero dal colonnello, ciascuna, un bellissimo gioiello, tolto dal mucchio del suo bottino di guerra. Laure Junot, duchessa d’Abrantès, moglie del generale francese Jean-Andoche Junot, in “Mémoires de Madame la duchesse d’Abrantès ou Souvenirs historiques sur Napoléon, la Revolution, le Directoire, le Consulat, l’Empire et la Restauration”, scrive che il Pezza pretese dalle signore un certificato che esse “erano state rispettate”. Le donne si fecero dare una copia del loro certificato, controfirmato dal capomassa. “Fra’ Diavolo” era anche sensibile a sentimenti che non fossero di odio, di vendetta e di rappresaglia.
Questo episodio è riportato dal tenente Christian Reitzel (“Berner Taschenbuch”, 1864, p. 354), da Paul-Louis Courier (“Mémoires, correspondance et opuscules inédits de P.L. Courier”, Parigi, 1828), che se ne rallegra, in una lettera del 16 ottobre 1806, dal Dusvernois (“Mémoires du général baron Dusvernois”) e nel “Mémorial militaire du Colonel Castillon” da Jean-François-Antoine-Marie Castillon, aiutante di campo del generale Vallongue, comandante del genio all’assedio di Gaeta, dove ricevette la croce d’onore per la battaglia di Austerlitz. Riportiamo il brano in questione: “Sulla fine di maggio, un convoglio di signore francesi, che venivano da Roma, per raggiungere i loro mariti al servizio del re di Napoli, cadde, tra Fondi ed Itri, in un’imboscata di banditi. Le si condusse nella montagna, e, dopo un’ora di marcia, esse giunsero su un altopiano dove si trovava un uomo che disse loro in buon francese: “Ah! Belle signore! Andate temerariamente alla ricerca dei vostri rispettabili sposi. Sta bene! vi acconsentirò; ma sarete abbastanza gentili per accordarmi alcuni giorni della vostra dolce presenza”. Grande fu la loro costernazione; ma una di esse, che aveva sentito raccontare diverse avventure di Fra Diavolo, sospettando che fosse dinanzi a questo personaggio, gli rispose risolutamente in italiano:! Signor comandante, siamo felici di essere sotto la vostra protezione”. “Ma sapete, chiese egli, chi sono io?” “Sì, per la sua bontà, per la sua cortesia, intuiamo il celebre partigiano Fra Diavolo”. “Dite il brigante, come mi chiamano i vostri compatrioti. Non importa, potrete giudicarmi all’opera. Devo, per vostra sicurezza, farvi condurre al mio quartier generale e domani provvederò io”.
Il “brigante”, sempre generoso verso il sesso debole, mantenne la parola, senza far torcere loro un capello. Dopo aver loro accordato l’ospitalità più rispettosa, le fece condurre a Capua e il comandante di questa piazza inviò a Fra’ Diavolo una lettera di ringraziamento per l’atto cavalleresco, che fu trovata nelle carte quando il Re Joseph Bonaparte l’ebbe fatto impiccare a dispetto dell’amnistia promessa il 10 novembre 1806”, lui che era costato ai francesi troppo sangue e troppe noie. Con la pena di morte per impiccagione, i francesi si erano liberati per sempre dal terribile guerrigliero, dalla grande energia morale e fisica, la cui azione e lo spirito battagliero eccitarono in Europa interesse e simpatia, molto temuto da Napoleone, che fece mettere una taglia sulla sua testa, intimando di catturarlo,ad ogni costo, vivo o morto, e che si informava, ogni giorno, presso il ministro Dejean, del risultato degli inseguimenti, poiché suo fratello Joseph, conscio della notevole importanza che Michele aveva assunto nella fantasia popolare, aveva mandato parecchie colonne a tallonare il capo dei partigiani, sguinzagliandogli dietro tremila uomini guidati dal maggiore Joseph-Léopold-Sigisbert Hugo, padre del futuro, celebre autore de “I miserabili”, a cui è data carta bianca per la cattura di un simile flagello, ma il fuggiasco era una vera e propria gatta da pelare!. Per 29 giorni Hugo, lo specialista della controguerriglia, distintosi nelle armate di Moreau e di Lahorie, insegue un’ombra ma è deciso a ghermirla. L’inafferrabile Michele Pezza gli balena innanzi, ora a monte e ora a valle, ora a destra ed ora a manca, gli scivola di continuo fra le mani con un’abilità diabolica, servendosi dei più astuti stratagemmi. La caccia dei corsi, dei negri, della Guardia reale e dei napoletani a quella buona lana di Michele Pezza è spietata, senza quartiere, senza riposo. I francesi, coadiuvati dalle guardie civiche, avevano messo in campagna più di ventimila uomini. Inizialmente il fuggitivo appariva veramente imprendibile, grazie alla sua abilità e alla sua perseveranza. Favorito dalla profonda conoscenza dei luoghi e segretamente protetto dai pastori, dai boscaioli e dai contadini, sgusciava da ogni rete, internandosi in forre e in anfratti o inerpicandosi per sentieri assolutamente sconosciuti ai suoi inseguitori, beffandosi di loro, fucilandoli da tergo, mentre essi credevano di tenerlo nel mezzo, esasperandoli in una lotta di insidie e di acrobatismi. “Fra’ Diavolo”, davvero, in tutta l’estensione della parola. A tal riguardo, accenniamo come una volta egli, per un miracolo di destrezza e di audacia, era riuscito a fuggire. Inseguito, circondato, Michele credeva di salvarsi, assieme ai suoi 250 uomini, seguendo una scorciatoia da lui solo conosciuta. Trovò il passaggio sorvegliato. Era ormai chiuso da mille baionette. Si fece legare i piedi e le mani e attaccare alla groppa di un cavallo, procedendo verso un reggimento di cavalleria leggera francese, composto da circa seicento uomini, dichiarando di essere della guardia nazionale e di aver catturato “Fra’ Diavolo”, che portavano a Napoli per ricevere il premio. Il capobattaglione francese fece scortare da cento suoi uomini il prigioniero al quartier generale, che si trovava a sei leghe di distanza. I francesi non ebbero più alcuna notizia né del catturato né dei cento soldati di scorta, che erano stati sgozzati dai briganti lungo il cammino.
L’esercito francese, vittorioso in tante battaglie in Europa, era tenuto in scacco, era irriso da un “brigante”, anche se geniale, che aveva una vitalità da serpente e che sgusciava tra le maglie dell’ampio contingente transalpino, come un’anguilla, con una rapidità incredibile. Ancora una volta il nemico numero uno dei francesi era scampato alla cattura ricorrendo all’astuzia.
Una forte taglia, 17.000 ducati, pesava sul capo del perseguitato, ma le difficoltà di catturarlo permanevano. Lo si vedeva, lo si toccava quasi, ma, quando sembrava di averlo tra le mani, lo si perdeva di vista, perché egli conosceva i luoghi e i monti più scoscesi. Accadde cento volte.
Il maggiore Hugo, arrabbiatissimo, giurò di riprendere il fuggiasco. Si svolse, allora, un gioco di furbizie veramente infernale, che il colonnello borbonico perdette fatalmente, pochi giorni dopo.
Nella valle di Boiano,già capitale dei bellicosi Sanniti, il Pezza, ridotto alle strette (la situazione generale si era completamente modificata a favore dei francesi, che annoveravano nelle loro fila partigiani), dovette battersi e fu sopraffatto dal numero dei nemici rimanendo con soli 150 uomini. La lotta era divenuta ormai impossibile. La stella di Michele era ormai in declino. La fortuna aveva ormai abbandonato il Pezza, che, però, era più che mai deciso a vendere cara la pelle. Braccato da ogni parte, come una belva, lacero, affamato (non toccava cibo da parecchi giorni), quasi assiderato dal freddo pungente, Michele, che cercava di raggiungere il mare, l’unica via di scampo, dove vi erano alcune navi inglesi, mandate espressamente a rilevarlo dal governatore Hudson Lowe, che avrebbero potuto portarlo in salvo, è arrestato casualmente in una farmacia di Baronissi, dove era entrato per farsi medicare una ferita, e condotto a Salerno, riconosciuto da un sergente di fanteria napoletano, Matteo Pavese, che gli aveva molto spesso reso gli onori militari, e poi, il 3 novembre, portato a Napoli, in catene. Per il re di Napoli, Joseph Bonaparte, per i funzionari di polizia, per le truppe incaricate di inseguirlo, era finito l’incubo. Alla cattura del Pezza, il sovrano trasmise immediatamente la notizia all’augusto fratello, impegnato allora nella campagna di Prussia, scrivendo in questi termini: “Sire, il famoso Fra Diavolo finalmente è stato preso: una colonna mobile l’ha inseguito finché non è rimasto più un solo uomo a questo capo di briganti, che è stato preso al momento di imbarcarsi. Vostra Maestà deve sorridere che io le parli di Fra Diavolo”, sulla cui testa era posta una taglia di diciassettemila ducati. Re Joseph Bonaparte lo aveva, in verità, fatto morire già una volta, il 29 giugno 1806, quando gli avevano erroneamente assicurato l’impiccagione del colonnello e lui aveva, a sua volta, assicurato Napoleone che giustizia era fatta. Invece in quel giorno cadde nelle mani di “Fra’ Diavolo” la piazza di Amantea, che sarebbe divenuta uno dei punti di appoggio più temibili dell’insurrezione calabrese.
Per la Corte napoletana la cattura del Pezza costituiva un evento non trascurabile, sia per la pericolosità di questo geniale guerrigliero, sia per il significato emblematico che assumeva la sua persona, per le sue imprese già leggendarie, non solo nel reame delle Due Sicilie, ma ormai dovunque nel Vecchio Continente. Catturato lui, non vi furono più che ladri di strada.
Di questo personaggio di rilievo sia politico sia militare, emblema del brigantaggio meridionale, definito pomposamente dal generale Roger de Damas il “Leonida napoletano” (e le gole ed il fortino di Sant’Andrea furono le Termopili del reame di Napoli) , si sono occupati, tra gli altri, scrittori come Victor-Marie Hugo, Alexandre Dumas padre, Piero Bargellini, Massimo Grillandi, Pasquale Villari, Vincenzo Cuoco, Ernesto Jallonghi, Alphonse de Lamartine, Charles-Emmanuel, François Lenormant, Giuseppe Dall’Ongaro. Però chi tiene vivo il ricordo di questo personaggio, dal nome evocatore di sinistri ricordi, è il cinematografo, che, ogni tanto, adopera il suo pittoresco, luciferino nome, per ammannire una nuova storia, romantica, divertente, di banditi innamorati e coraggiosi, senza alcun riguardo alla verità storica, alterata dalle numerose leggende che sono fiorite sul suo conto, ad opera dei vincitori e dei loro innumerevoli coriféi, che hanno cercato di giustificare tutte le atrocità commesse in nome della rivoluzione gravando di tutte le condanne e di tutte le infamie quelle, pur riprovevoli, commesse in nome della restaurazione e dell’ordine. Quando si tratta del periodo del 1799 e del 1806, cioè delle due invasioni francesi nel Napoletano, occorre stare in guardia: non mai come allora la storia scritta tra l’effervescenza delle passioni politiche è inquinata, da capo a fondo, da un invincibile spirito di parzialità, riscontrabile anche in undici testate di periodici, che, dal 1883 al 1925, da Parma a Milazzo, scelsero il nomignolo di “Fra’ Diavolo” come loro bandiera. Così fu che la leggenda oscura, tragicamente tenebrosa, che adombra e avvolge ancora la fama di un soldato sfortunato, trionfò, ancora una volta, sulla storia, per cui è necessario rifarla, sulla scorta di un’ampia documentazione, con alacrità e serenità.
In realtà la figura storica del grande ribelle itrano, che si impose all’attenzione di sovrani, di ammiragli, di generali, di ministri, non è ancora ben definita. Per la critica storica di parte liberale, egli fu un bandito crudele, per i conservatori un vero e proprio patriota, di animo nobile, capace di eroismi, di spavalderie, di attacchi fulminei, di ritirate sapienti, di trovate ingegnose, che immolò la sua vita e questa fine lo rende più grande di tanti presunti eroi, che, nel comodo doppiogioco, trovarono gloria e ricchezza, cari a tutti i pennivendoli e gazzettieri antichi e moderni, che presero per moneta contante tutte le belle cose che i francesi scrivevano e stampavano. Bisognerebbe fare l’operazione di cataratta agli italiani e ribellarsi contro l’appello ipocrita alla libertà che, invece, maschera aspirazioni di dominio e le peggiori intenzioni di esazioni, che avevano esasperato le popolazioni meridionali.
“Fra’ Diavolo” fu indubbiamente un grande e coraggioso guerrigliero, fedele ai Borbone. Di lui, diciassette anni dopo la sua morte, il generale Joseph Léopold Hugo, nelle sue memorie, ne fece l’elogio funebre riconoscendone le qualità. Egli ne tracciò il ritratto: “Fra Diavolo era di piccola statura, aveva l’occhio vivo e penetrante, il carattere fermo, talvolta crudele, lo spirito fine e dicono anche colto; valoroso, attivo, intraprendente, era pure il miglior camminatore del regno”. Alphonse de Lamartine nell’opera “Graziella”,edita nel 1811, incontrando una vettura postale rovesciata sulla strada, presso Velletri, con i cavalli uccisi e il conducente assassinato, ne dà la colpa alle bande di “Fra’ Diavolo”, incalzate dalle truppe di Joachim Murat. Il famoso guerrigliero era stato impiccato cinque anni prima e le sue masse disperse sotto il governo di Joseph Bonaparte! Michele Pezza è, in sostanza, il capro espiatorio di delitti commessi da altri. Nelle scelleratezze si mescolò sempre il suo nome. Non bisogna formalizzarsi tanto sulle inesattezze di date da parte di Lamartine. Gabriel Forli, che lo avvicinò, ce ne ha lasciato questa descrizione: “Il viso era colorito; gli occhi piccoli, neri e ardenti. La bocca, il naso e la fronte erano regolari. La statura era ordinaria. Parlava poco e con un tono sempre grave. Si riconosceva, dopo averlo sentito, una grande intelligenza. I suoi gesti indicavano il mancino”. Il volto espressivo, dove fiammeggiavano occhi scuri, che davano a tutta la sua fisionomia un’aria ammaliatrice, piaceva a prima vista.
Hugo,”ce heros au regard si doux”, come lo ricorderà poi il figlio Victor-Marie, ne parla diffusamente nelle sue memorie. Conquistato dal coraggio indomito e dalle mirabolanti imprese, a volte rocambolesche, del formidabile guerrigliero, che aveva messo in subbuglio il regno di Napoli, brandendo uno stendardo crociato contro l’invasore straniero, il “sanculotto Brutus Hugo” dell’armata del Reno impetrò con insistenza al re la grazia, essendosi reso conto che l’accanito difensore della sua nazionalità aveva il diritto dalla sua. Alcuni scrittori hanno attribuito la cattura del Pezza all’Hugo, che ha esagerato il suo ruolo nella presa del colonnello e duca di Cassano allo Ionio. Il generale ha avuto il merito di aver disgregato, con distaccamenti che si trovavano ai suoi ordine, grazie ad un inseguimento accanito, il drappello di “Fra’ Diavolo” e di aver così contribuito, per una gran parte, alla cattura del celebre partigiano. Joseph Léopold Sigisbert Hugo lascia credere, melle sue “Memorie”, che ha condotto lui stesso tutto questo inseguimento, mentre, al contrario, non si trovava sempre con il distaccamento che entrava in lotta con i miliziani del Pezza. Insomma, quest’ultimo era riuscito a sfuggire alle truppe dell’Hugo e, poiché fu catturato a Baronissi, Joseph Léopold Sigisbert Hugo non fu per niente in questo avvenimento, che gli procurò una “reputazione gigantesca”. Egli,l’8 novembre 1806, essendo andato a vedere “Fra’ Diavolo” nella sua prigione, gli avrebbe sentito dire: “Mi sarei salvato, senza il vigore e la perseveranza con la quale egli (Hugo) mi ha inseguito.” Tomo I, p. 152. Lo storico Edouard Gachot in “Le général Hugo” (“Nouvelle Revue”, 1° febbraio 1902) dà particolarmente un racconto dell’intervista che il maggiore Hugo ebbe con il Pezza nella sua prigione, secondo l’opuscolo pubblicato a Napoli nel 1817 dall’interprete Celotti. Anche l’ammiraglio Sidney Smith, comandante la flotta inglese al largo di Capri, che aveva grande stima e simpatia per il Pezza, tentò l’impossibile per salvare l’amico, ma Joseph, al quale cocevano le sconfitte subìte ad opera del guerrigliero, fu irremovibile e non gli risparmiò la condanna capitale, decretatagli da un Tribunale Straordinario, riunitosi nella prima ruota della Camera della Sommaria. Gli inglesi mandarono tre parlamentari, per ottenere la sua liberazione, in cambio di duecento prigionieri francesi. Le trattative non ebbero buon esito e gli inglesi minacciarono i francesi di rappresaglie. Il processo fu breve, una semplice formalità. I Napoleonidii non si perdevano in inutili fronzoli e trascinare la faccenda a lungo sarebbe stato pericoloso. La decisione era già scritta (nessun argomento avrebbe potuto cambiare il verdetto). Alla lettura della sentenza, che lo condannava alla morte per il capestro, molto ignominiosa, quella riservata ai criminali di diritto comune, Michele Pezza rimase impassibile. Egli, carcerato nella vecchia prigione dei Carmelitani, in una cella che non riceveva luce ed aria che da una feritoia, fu afforcato, come un volgare malfattore, in Piazza Mercato, a Napoli, l’11 novembre 1806, nella stessa piazza che aveva visto, nel 1647,la rivolta di Masaniello contro gli spagnoli e la decapitazione, nel 1268, ad opera del re di Sicilia, Carlo I d’Angiò, del biondo principe Corradino di Svevia, il cui guanto leggendario volò sinistramente sulla folla. In un silenzio funereo, inquietante, stava la folla, che, fino all’ultimo, aveva portato rispetto a Michele Pezza, salito con passo sicuro sul patibolo, drizzato tra le due fontane monumentali, impavido. .Questo contegno doveva avere un grande valore morale, quando tutto si inchinava alla strapotenza dei francesi. Il popolo, di solito abituato alla servitù del potere assoluto, sempre disposto a fare dimostrazioni gradite al vincitore, in questa circostanza, alla comparsa dell’uomo più odiato dai francesi e che tanto danno aveva ad essi prodotto, assiste al triste spettacolo in gran silenzio, in segno di rispetto e di pietà. Michele si era voluto confessare e comunicare, si era lavato e vestito con cura, tagliato una ciocca di capelli per sua moglie. E sentito una messa bassa nella chiesa degli Incurabili, sorta nel primo Cinquecento. Egli non temeva di comparire dinanzi al tribunale divino. Quanta luce di dignità e di forza si sprigiona da quel “brigante” impiccato in Piazza Mercato, nel triste pomeriggio dell’11 novembre 1806! Magari se ne fossero sapute illuminare tanti gloriosissimi omuncoli del tempo di oggi.
Il suo fu un bel morire, che chiamò le lacrime sul ciglio degli spettatori, commossi alla vista del giovane condannato, scamiciato, con la croce del Carmelo al collo, ritto sulla moltitudine di gente che gli ondeggiava ai piedi, come un mare di teste.
“Fra’ Diavolo” era passato al mondo dei più, nell’al di là salendo, con un contegno fiero e alquanto distaccato, il patibolo, ai piedi del quale aspettava il boia, Mastro Donato, e i suoi due aiutanti. Raro esempio di fedeltà e di coerenza, se pensiamo che S. Pietro rinnegò, per ben tre volte, Gesù Cristo. E’ da ammirare questo guerriero, che, non potendo dominare i tempi avversi, preferì la forca allo spergiuro, uomo non privo di una nobiltà d’animo, da accostare allo schilleriano Karl Moor e al ribelle scozzese Rob Roy, di scottiana memoria. Il Pezza, a detta di Gérard de Cortanze, “aveva ormai tutta l’eternità dinanzi a sè”, smentendo il “Monitore napoletano”, che aveva sentenziato che dello sfortunato soldato di Itri non si sarebbe più parlato. Invece di questo “bastian contrario”iniziava la leggenda, dovuta alle prodezze, alle astuzie di guerra, alla lealtà dell’animo invitto, alle prove sconfinate di temerità , che imposero, anche ai nemici, l’ammirazione e la terribilità del suo nome. Iniziava il mito di “Fra’ Diavolo”, che entrò nell’immaginario romantico dell’Ottocento europeo diventando il simbolo di una resistenza tutta popolare, mentre molti, in quegli anni, banderuole al vento, cambiarono casacche, compreso Pietro Colletta, severo con il Pezza, con la giustificazione che lo si faceva per il bene del reame.
In Piazza Mercato era morto il sostegno del trono borbonico, anima e fiamma della resistenza opposta dalle popolazioni meridionali all’invasore francese, ammirato schiettamente, più volte, anche dai nemici. La sua morte aveva destato in tutti, italiani e francesi,un’’impressione singolare. Partigiani e nemici, in Napoli, avevano seguito con ansia, nei suoi ardimenti e nelle sue audacie, questo vandeano che aveva messo terrore e fatto nutrire speranze, il cui nome faceva rievocare i terribili “chouans” della Vandea, ancora calda di Dio e del suo re.
Da allora il Pezza vive nella coscienza del popolo come un tipo di bandito classico e di guerrigliero che immolò la sua giovane esistenza per la causa borbonica.
Prepariamoci ad altre edificanti sorprese. Risulta che “Fra’ Diavolo” fosse molto devoto alla Madonna della Civita, alla quale depose personalmente una lampada d’argento, ai piedi dell’altare del santuario, digiunasse il venerdì e non bestemmiasse quasi mai. Solo qualche volta lo avrà fatto, per ragioni di forza maggiore. Ogni anno, sia pure in chiese diverse, il Pezza non si dimenticava di celebrare la Pasqua di Resurrezione e il suo matrimonio con Fortunata Rachele Geltrude De Franco fu regolarmente consacrato. Il guerrigliero restò sospeso alla forca per ventiquattro ore. Michele aveva solo trentacinque anni. Egli fu seppellito dalla congrega dei Bianchi della Giustizia nel cortile dello Ospedale degli Incurabili, nella chiesa di Santa Maria del Popolo. Per tutto il reame di Napoli gli spiriti forti negarono la morte del Pezza, perché, secondo la loro opinione, egli “aveva mille risorse di magia al suo servizio”. La vita del sanfedista, intensa e romanzesca, era stata spesa, in gran parte, in difesa della propria terra, soggetta alle angherie dei francesi che, in nome degli ideali di “égalité, fraternité, liberté, erano venuti nel reame di Napoli a saccheggiare e a spadroneggiare. L’esercito al soldo di Napoleone Bonaparte non trasportava le celebrate riforme, ma un codazzo di funzionari fanatici e tracotanti, che tartassarono il popolo senza pietà, annichilendolo con culti neopagani.
In “Ragguagli storici sul Regno delle due Sicilie”(1845) lo storico Gennaro Marulli, che mette in rilievo lo spirito, la destrezza, l’audacia, la nobiltà del guerrigliero, narra che il ministro Christophe Saliceti,volendolo attrarre alla causa francese, a nome di re Joseph, offrì al Pezza titoli e il grado di colonnello, a condizione che lo stesso si fosse impegnato a mantenere la tranquillità nel regno. Una sorta di nomina di capo della polizia.“Fra’ Diavolo”, sdegnato, coerente con se stesso, rifiutò fieramente di sconfessare i suoi principii rispondendo che avrebbe affrontato mille volte la morte, piuttosto che tradire il suo re. Così moriva Michele Pezza e la leggendaria figura, eternata dalla fantasia popolare e narrata dai cantastorie sulle piazze del Mezzogiorno, entrava nel mito. Un’antica stornellata nelle fiere e nelle feste dei paesi riportava: “Don Michele d’Itri quando galoppava era un angelo con la spada di fiamme / che tagliava la testa ai nemici della fede”.E E una poesia satirica napoletana, del 1806, dal titolo “Amalgama”, molto diffusa, esaltava il Pezza. Eccone una quartina: “Si mandi a Fra Diavolo / Che tanto in guerra vale / A dir che venga in Napoli / A far da generale!”
Il 28 dello stesso mese, per volere della regina Maria Carolina d’Austria ( si dice che, alla notizia della sua morte, la sovrana scoppiasse in pianto dirotto e queste lacrime, secondo alcuni, avvalorerebbero le insinuazioni messe in giro da libellisti dell’epoca su una relazione fra Maria Carolina e Michele Pezza) , che, assieme alle figlie, aveva ricamato per Michele uno stendardo con i gigli d’oro, un dono personalizzato, che riuniva ad un tempo le insegne della Santa Fede e quella dei Borbone,una solenne messa funebre in suffragio dello scomparso fu officiata dall’Arcivescovo Carrano, tenuta a Palermo, nella chiesa di S. Giovanni Battista, detta “dei Napoletani”, a cui parteciparono Sua Altezza il Principe Leopoldo di Borbone, i più alti dignitari dello Stato e gli eserciti inglesi, napoletani e siciliani, oltre ad una grande folla. Fu eretto un mausoleo, in cui si trovava un’urna, sulla cui base era scritto: “non omnis moriar; virtus post fata superstes; gloria cum fortes accubuisse vetet. Qui decus, atque fidem, qui iactat militis artem, dicat pro patria si mihi dulce mori” (Non morirò del tutto; il valore dopo la morte sopravvive; la gloria impedisce che io, come i forti, possa soccombere. Colui che ha il senso dell’onore e la fedeltà, che esalta l’arte militare, dica se a me fu dolce il morire per la patria”, che richiama il verso oraziano “Dulce et decorum est pro patria mori”, ovvero “è dolce e nobile cosa il morir per la patria”. Il corteo, partito dall’angolo settentrionale di piazza della Marina, era fatto di fiaccolate con prefiche che percorrevano tutta la città, al lume delle torce a vento, recitando il Salmo 50, cioè il “Miserere”. Le campane a lutto suonarono per tre giorni interi. Su il già citato mausoleo vennero incise lunghissime epigrafi latine per celebrare lo “strenuo, sagace, incorrotto” uomo. Alla vedova di Michele Pezza fu assegnata una pensione di cento ducati mensili, vita vedovile durante.
Victor-Marie Hugo, caposcuola del Romanticismo francese, paladino della giustizia e della libertà, scrisse che l’indomito, implacabile, ossessionante nemico dei francesi personificava il tipo di insorto che si presenta in tutti i Paesi occupati dallo straniero, il partigiano legittimo in lotta contro gli invasori della sua terra. Egli fu, dunque, per l’Italia ciò che in seguito dovevano essere Canaris in Grecia, l’Empecinado ed il Mina per la Spagna, Abdel-Kader in Algeria. E l’Hugo approva le parole dello storico Adolphe Thiers in “Histoire du Consulat et de l’Empire”: “Fra Diavolo, nel suo genere, fu un eroe e un grande patriota”. Michele fu un partigiano difensore della sua casa, dei suoi averi, della sua donna e della sua religione. Così egli deve essere considerato, come furono considerati i loro colleghi spagnoli, russi e tirolesi. Allo stesso si può senz’altro attribuire il merito di aver creato la guerriglia, capace di creare scompiglio e panico nelle file nemiche, specialista del “mordi e fuggi”, di una guerriglia appresa, si può dire, dal latte materno. primo tecnico in Italia della guerriglia, precursore di Guevara e di Garibaldi, famoso in tutto il Vecchio Continente per la sua strategia militare che affascinò persino Napoleone Bonaparte.
Al di là delle passioni politiche contrapposte, furono moltissimi coloro che ammirarono nell’intrepido ed indomito capo di insorti il guerrigliero leale e coraggioso che non compì mai una sola azione contraria alle consuetudini dei belligeranti e che affrontò con fierezza la morte, anziché tradire il suo sovrano. Un purissimo eroe,un campione popolare della riscossa nazionale contro gli invasori francesi, ultimo paladino di un antico regno avviato al tramonto, di cui Itri può gloriarsi, che combatté per la difesa del suolo natìo e delle patrie istituzioni, in cui correva già un soffio di Risorgimento (doveva passare ancora un decennio perché arrivasse in Italia il Romanticismo) , non abiurando i sovrani neanche per aver salva la vita, animato da un vivo senso dell’onore.
Le storie di briganti, inventate dalla compiacente e servile fantasia di certi storici francesi, non hanno nessun fondamento storico, poiché essi chiamavano “briganti” tutti gli italiani che volevano difendere l’indipendenza e l’inviolabilità del suolo nazionale. Rendiamo onore al grande Vandeano di Terra di Lavoro, mai fedifrago, mai vile, mai brigante, che fu uno dei più audaci e valorosi guerriglieri e capi di insorti che la storia ricordi. Un soldato che dette tanto filo da torcere ai francesi. Championnet confessava che “aveva dovuto più stentare per trionfare della banda di Fra Diavolo, che di un corpo di esercito di soldati napoletani”. B. Capefigue, in “L’Europa durante il Consolato e l’Impero di Napoleone”, scrive che “Fra Diavolo qualificato per masnadiere nel bullettini, moschettato (sic) senza pietà, era unicamente un ardito e fedele montanaro devoto alla regina Carolina, siccome più tardi vedremo le “guerrillas” di Spagna sollevarsi al grido dell’indipendenza”.
Anche lo storico e critico Cesare Cantù cita con favore il duca di Cassano, piccolo villaggio calabrese, fondato dai Sibariti, ma soprattutto teatro delle sue imprese, per la fiera e tenace difesa della tradizione locale, lui che, per Pietro Calà Ulloa, “ebbe celebrità d’infamia, ed una di coraggio indomito e di fede meritava. Singolar destino degli uomini ! Nella sollevazione spagnuola, molti di lui minori d’assai e più spietati, ebber fama onorata. Egli sin gli scenici onori qual feroce bandito. Vero è che banditi si disser gli Spagnuoli , come già i Vandeani, come si disse il misero Hofer. Gl’invasori ciò diceano, i partigiani, che non han patria mai, lo ripeteano”. Da noi, però, si ha, forse per ignavia, troppa propensione a screditarci!
E’ ora che il Pezza, una delle più originali individualtà del nostro passato politico-militare, dalla tumultuosa, vorticosa vicenda umana, segnata da un umiliante stigma “nigro lapillo”, sia riaccreditata pienamente e mondata di colpa. E’ ora che la storia trionfi sulla leggenda oscura, tragicamente tenebrosa, che adombra e avvolge ancora la fama di un soldato sfortunato, colpevole soltanto di aver mancato il successo finale. In quell’ora di follìa collettiva, cagionata dal grande rivolgimento sociale, la cronaca fu fatta, come sempre, dai vincitori e, quindi, servì poi a fabbricare la pseudostoria che ancora si insegna nelle nostre scuole.
“Fra’ Diavolo” fu un “gran calunniato”, condannato alla “damnatio memoriae”. Troppo spesso la vera storia di Michele Pezza viene travisata, dimenticata, offesa, per dar luogo a strane leggende di brigantaggio sviluppatesi attraverso i tempi, ad opera specialmente di romanzieri e di narratori facili alle fantasticherie di ogni sorta.
La purezza e l’eroismo della lotta sostenuta dal colonnello Pezza, duca di Cassano allo Ionio, in difesa della sua patria e del proprio re, e la morte, affrontata per non venir meno alla sua fede, costituiscono la dimostrazione più chiara della sua esistenza di soldato.
In ultima analisi, possiamo dire che “Fra’ Diavolo” è uno di quei personaggi che hanno lasciato un segno indelebile nella fantasia storica, tanto da ispirare molti e diversi artisti, facendo breccia, come nessun altro, nell’immaginario collettivo Ad Itri si dice che uno spettro si aggira, nelle tetre serate invernali, sui bastioni del castello medioevale. Il fantasma, inquieto, vagante come anima in pena, aleggia lungo il caratteristico camminamento di ronda. E’ il bellicoso spirito di Michele Pezza, che, in alcune serate buie e piovose, si drizza sugli spalti ferrigni, quasi a vigile scolta della fortezza, minaccioso, guatando verso l’Appia sottostante, in attesa della venuta dei francesi, apprestandosi a sostenere contro di essi altri cruenti scontri, in una guerra “eterna”, implacabile. Lui che aveva spento tante vite, che fu un terribile “martello” contro le truppe francesi, per eroismo, coraggio, attività, ingegno nel concepire stratagemmi, nel combattere,impavido, e battere i napoleonici ad Amantea, a Maida, a Cosenza,a Sapri, a Licosa. Quando non poteva farlo, Michele Pezza scappava dalle loro mani come un pesce da quelle del pescatore.
Alfredo Saccoccio