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Mongiana una parte di storia sconosciuta

Posted by on Giu 10, 2023

Mongiana una parte di storia sconosciuta

Mongiana Una storia sconosciuta in cui si racconta il destino di una eccellenza calabrese distratta da speculazioni non sempre limpide, racconta di una bolla finanziaria e di soprusi amministrativi sfociati in azioni risarcitorie passanti, dalle aule dei tribunali e dagli scanni del parlamento italiano descrivendoci il destino toccato a questo impianto di Mongiana.

Fiore all’occhiello delle industrie borboniche, nella seconda parte del secolo XIX, quando a controllare lo stabilimento fu il regno d’Italia, il suo destino fu segnato per sempre annientando le produzioni, e dismettendo gli impianti produttivi. Dello stabilimento calabrese rimanevano il bosco e le miniere che furono presto aggredite da ulteriori appetiti. Lo stabilimento siderurgico di Mongiana sulle Serre calabresi, dopo l’Unità d’Italia ha subito una fase pilotata di inesorabile declino; oggi restaurato e divenuto un museo. Come altre eccellenze industriali borboniche, vedi le Officine di Pietrarsa escluse dagli appalti ridotte a Museo delle Ferrovie, rappresenta un caso da manuale, di come il tessuto industriale del Mezzogiorno, al momento dell’unificazione possedesse più addetti nel settore metallurgico rispetto al resto d’Italia, distrutta la produzione, negati appalti e investimenti pubblici quelle tecnologie furono trasferite al Nord.

La fine di Mongiana fu il risultato di una visione non unitaria del Paese, nonostante la retorica e di un intreccio di potere al servizio di speculatori e corruttori, fra cui un senatore, un deputato, la Banca Toscana e il cavalier Tanlongo della Banca Romana. Le Reali Ferriere di Mongiana erano il più grande stabilimento siderurgico italiano e non l’unico presidio del settore in quella zona, fiore all’occhiello dell’economia delle Due Sicilie, sostanzialmente autonome nelle forniture per le fabbriche d’armi, ferrovie, catenarie e travi per i ponti sospesi in ferro; nelle quali si formò un’aristocrazia operaia, smantellata dalle politiche del nuovo governo strategiche per il Nord, costrette all’emigrazione nelle fabbriche d’armi del Bresciano e nell’industria statunitense dell’acciaio. Finì così, quella stagione: (lo raccontano Brunello de Stefano Manno e Gennaro Matacena in “Le Reali Ferriere ed officine di Mongiana”; Franco Danilo in “Il ferro in Calabria: Vicende storico-economiche del trascorso industriale calabrese”; Vincenzo Falcone in “Le ferriere di Mongiana). Un’occasione mancata la tradizione siderurgica locale che risaliva ai fenici, favorita dalla presenza di miniere, foreste e salti d’acqua. Per chiudere Mongiana, furono delegittimate quelle tecnologie, capacità e concezioni industriali: si disse che non era più tempo di impianti in montagna, alimentati da corsi d’acqua e lontani dal mare.

Distrutto lo stabilimento di Mongiana, si costruì quello di Terni, in montagna, più lontano dal mare e alimentato da energia idroelettrica. Vi si trasferirono i mongianesi, senza i privilegi goduti con i Borbone: primi al mondo a lavorare 8 ore al giorno, e non il doppio o poco meno, assistenza e pensione garantiti, con donne e uomini insieme in fabbrica. Con l’arrivo dei Savoia, l’impianto-gioiello dei Borbone fu immediatamente deprezzato nelle strategie industriali del governo e subì una decadenza da cui non si sollevò più. Lo stabilimento siderurgico fu affidato alle cure di una sorta di curatore fallimentare, che aveva fornito prove delle sue capacità nello stabilimento minerario di Agordo, nel Bellunese. L’ingegner Antonino Sommariva, nel 1862 entrerà a dirigere Mongiana e in un solo anno, le precarie condizioni dell’impianto metallurgico peggioreranno tanto che, un’apposita commissione parlamentare le definirà gravissime. Il Sommariva, così, mostrò che la fiducia in lui non era malriposta, se dopo aver mandato sul lastrico lo stabilimento agordino, fu promosso a guidare quello di Mongiana. Dall’interrogazione parlamentare dell’onorevole Mariano D’Ayala, 23 maggio 1870, si apprende: “Il dottore Antonio Sommariva fa parte del ruolo della direzione dello stabilimento metallurgico di Agordo col titolo di amministratore del sotterraneo. Ebbene quel medesimo amministratore del sotterraneo nello stabilimento metallurgico bellunese, lo stesso amministratore del sotterraneo sarà promosso nelle funzioni di direttore in Mongiana. Io non intendo come un direttore di una parte speciale dello stabilimento di Agordo possa fare da reggitore delle ferriere e miniere di Calabria. E come volete che questi opifici, che queste fabbriche possano andar prosperamente e darvi qualche frutto? Ed io con sentimento di dolore debbo rammentare il bisogno di una petizione che presentai alla Camera nella tornata del 7 aprile 1870, come ne parlai più lontanamente nella tornata del 20 aprile del 1867: il Consiglio comunale di Mongiana diceva che la miseria certamente regna fra quei miseri operai e comunisti, i quali non vivono che di quei lavori e di quella industria, cioè minatori, artefici, staffatori, mulattieri e carbonari, e che non solamente la povertà andava crescendo un dì più che l’altro, ma si vedeva quel comune nella necessità di domandare qualche lavoro, di quei lavori che si possono fare colà in Calabria in concorrenza della industria forestiera. Mi consolai da una parte nella speranza che era sorta fra quei faticosi popolani e fra quei periti artefici, che era tutta bella speranza, per una lettera dell’onorevole ministro delle finanze Sella, il quale era propenso ad affidare anche a quella fabbrica una parte dei contatori meccanici, e certamente che quella parte sarebbe stata fatta con coscienza e con arte; ma poi quella speranza fu anche miseramente delusa, ed i contatori non furono nemmeno in piccola parte fatti nell’officina di Mongiana”. L’osservazione non era peregrina.

Il Ministero delle Finanze già dal 1862 aveva comunicato alle Camere che lo Stato non poteva supplire alle necessità del privato, pertanto quegli impianti speciali come le miniere, dovevano essere gestite dai privati, in regime di concorrenza. Non si era previsto però, che entrassero in concorrenza fra loro e non solo con miniere e stabilimenti esteri. Per questo l’invettiva del D’Ayala possedeva più di una ragione. Un dirigente di una miniera privata nel bellunese da cui si estraevano rame e ferro, non avrebbe potuto risanare una concorrente calabrese, perché a rimetterci sarebbe stata quella meno florida. Da altre carte è palese lo stato di sofferenza della miniera di Agordo che, costretta, per evitare il fallimento, a tagli energici delle spese, dal personale agli impianti produttivi, non avrebbe mai tagliato il volume delle estrazioni, se a beneficiarne fosse stata una concorrente seppur italiana. A rimetterci furono i minatori e lo stabilimento calabrese, che divenne un ottimo boccone immobiliare per gli speculatori e una questione politica fino al 1894. A rimediare agli errori del ministero delle Finanze si propose un senatore e imprenditore, attivo nelle ferrovie romane, Francesco Brioschi. Tutta la questione era incardinata sullo sviluppo delle strade ferrate in Italia e le conseguenti grandi commesse di acciaio. Le fabbriche sparse in Italia non ne producevano a sufficienza. Fu scelto di chiudere alcuni stabilimenti minerari per risparmiare e far nascere all’Elba un impianto avveniristico. La Statistica del Regno d’Italia, alla voce “industria”, 1868, mostra la condizione di approvvigionamento di ferro da trasformare in acciaio utile alle ferrovie. Furono così selezionati 45 stabilimenti siderurgici: 29 in Lombardia, 8 in Piemonte, 5 in Toscana, 1 in Emilia, Sardegna e Calabria.

Quello di Mongiana fu destinato alla dismissione. Le cronache, fin dai primi anni del regno d’Italia, lo descrissero inservibile e improduttivo; il governo, nel 1863, spostò la disponibilità di Mongiana dal ministero della Guerra a quello delle Finanze: se ne pilotò l’alienazione; il presidente Quintino Sella fece sua una mozione della Camera dei Deputati, per stimare il valore di Mongiana. La commissione preposta fece sue le valutazioni degli ingegneri Rinaldi e Grasso: 2.776.076 lire; successivamente, fu richiesta una diversa perizia, “più tecnica”, all’ingegnere Enrico Grabau livornese, al servizio delle miniere toscane, e all’ingegnere Augusto Ponsard, direttore delle miniere dell’Elba, che valutarono lo stesso impianto siderurgico solo 226.000 lire. Per dirla in cronaca nera, individuata la vittima, si sono scoperti i sicari e i loro mandanti. La Banca Nazionale Toscana e le miniere toscane, aiutate dal parlamento e dal governo, abbatterono Mongiana; ma il ricordo del gigante minerario, ritornerà più volte nella storia parlamentare italiana, disturbando i sonni dei rei, dopo che lo scandalo delle ferrovie liguri li travolse tutti. Dalla Rassegna di agricoltura, industria e commercio, pp. 520-522, pubblicata dalla Società d’incoraggiamento di Padova 1873 si può avere idea della dimensione dell’affare delle miniere di ferro dell’isola D’Elba: “…evidenti impacci alla soddisfazione della brama generale di trasformazione dell’industria ferriera in quell’isola, industria che trovasi colà in condizioni veramente primitive, come può leggersi nella relazione del deputato Alli Meccarani. Grazie però al buon volere di molte persone autorevoli, si poté venire col Brioschi, il quale naturalmente agisce per una società anonima da crearsi, ad una convenzione sulle seguenti basi: Delle cinque miniere principali dell’isola, che sono quelle di Rio, Rio Albano, Vigneria, Terranera e Calamita, le due ultime sono cedute al Brioschi per tutto il tempo che dura la regia cointeressata suddetta, cioè fino al 1881, e trent’anni dopo cessata quella. Il Brioschi s’impegnò di provvedere alle calate, ai moli ed in genere alle opere per facilitare il carico e lo scarico di minerale, di costruire una ferrovia a vapore dalle miniere, di cui gli venne ceduto l’uso, ad un porto dell’isola, e di creare uno stabilimento siderurgico atto a produrre non meno di 35.000 tonnellate di ghisa all’anno.

Tutte queste opere, che dovranno importare non meno di tre milioni e mezzo, rimarranno al termine del contratto in proprietà demaniale. Il Brioschi inoltre, pagherà all’amministrazione cointeressata prima e allo stato poi, lire 2 per ogni tonnellata di minerale esportato dall’isola, e lire 2,20 per ogni tonnellata di ghisa prodotta nelle sue officine. L’ammontare di questo tributo, a cominciare dal primo luglio 1876, non dovrà essere inferiore a lire 200.000. È incontestabile l’utilità per lo stato di siffatta convenzione, la quale, oltre ai vantaggi diretti, presenta anche quello indiretto di offrire, colla creazione di una grande industria, uno smercio proficuo di prodotto delle altre miniere elbane che non furono comprese nella cessione. A ragione adunque fu accolto con plauso questo contratto”. Furono gettate sul lastrico intere comunità. Brioschi incamerò l’appalto e costituì la sua società, come segnalato negli atti parlamentari, doveva realizzare officine, stabilimento, moli per lo smercio dei prodotti estratti, la ferrovia che collegasse le miniere al porto, gli impianti portuali elbani che non esistevano. Ma non fece nulla. Guglielmo Jervis, “I tesori sotterranei dell’Italia: Descrizione topografica e geologica nel Regno d’Italia in cui rinvengonsi Minerali, ordinata secondo i Bacini idrografici del Paese: arricchita di Analisi di Minerali impiegati nelle Arti nelle Industrie”. Loescher, 1874 p. 408: “a partire dall’anno 1873 la miniera di Terranera è stata data in accollo al senatore Brioschi. Nell’esercizio 1873-74 la produzione di minerale di ferro della miniera suddetta è stata di tonnellate 20.637: di tale quantità si sono spediti ai compratori francesi tonnellate 13.029”. Come dire che le necessità della ferrovia italiana, di raccogliere tutto l’acciaio utile, vennero disattese dallo stesso Brioschi che indirizzò una grossa fetta della produzione verso la Francia, in sfregio a quanto pattuito. Nessuno degli impianti elbani fu realizzato e la produzione fu ridotta di oltre il 60%, togliendola all’Italia. Furono chiusi stabilimenti produttivi per aprirne uno che deviasse i guadagni in altre tasche. Ecco l’Italia ai suoi primi passi. Quanto a Mongiana, c’è da aggiungere qualcosa sul destino degli immobili che costituivano, con gli impianti, il polo siderurgico calabrese, e il cui smantellamento è figlio di una legge che ne accomuna la sorte a quella di altre tre eccellenze di altrettanti ex stati pre-unitari (atti parlamentari, 23 giugno 1873): “Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue. Art 1 È fatta facoltà al Governo di vendere, colle norme stabilite dalla legge 21 agosto 1862 n 793, ed in base a capitolati sui quali sarà udito il Consiglio di Stato, le miniere e gli stabilimenti minerari-metallurgici della Tolfa e di Allumiere in provincia di Roma, di Montioni in provincia di Grosseto, di Agordo in provincia di Belluno, e di Mongiana e stabilimenti annessi nelle provincie di Catanzaro e di Reggio”. Mongiana non fu dismesso per incapacità di produrre ricchezza, ma per decisione governativa che puntava a migliorare nelle intenzioni, la produzione di acciaio per le ferrovie. Ma queste ultime, sbagliando la strategia finanziaria, trasformarono un errore politico in una catastrofe nazionale, coinvolgendo l’intero sistema bancario.

Al centro di tutto, Achille Fazzari. Chi era? Nato a Catanzaro, ex garibaldino, entrato nella cordata politica del barone Giovanni Barracco, eletto deputato nel circondario di Chiaravalle, da analfabeta e povero, divenne banchiere, proprietario terriero e ricchissimo finanziere. Il mistero che avvolge la sua improvvisa ricchezza, farà sussurrare ai suoi compaesani e a qualche giornaletto del tempo, che fosse il redivivo conte di Montecristo. Riuscì a tessere una fitta rete di complicità con imprenditori, faccendieri e perfino la gerarchia papalina, quando tentò una pacificazione fra la Santa Sede e il governo, e con banchieri, specie il cavalier Bernardo Tanlongo, direttore della Banca Romana che coprì debiti del Fazzari e produsse un buco di 9 milioni di lire che mise a rischio fallimento la Banca e l’Istituto della Banca Nazionale Toscana, che aveva in pancia altri debiti già di Fazzari. I cui intrallazzi continueranno a tenere banco nelle gazzette, fino al 1894 nelle pagine di una commissione d’inchiesta, presieduta dall’onorevole Mordini, su una strana scomparsa di documenti dalla casa di Tanlongo, che tentò di camuffare i registri fiduciari allegati alla questione Mongiana. Con i proventi finanziari bancari sul bene Mongiana fu appaltata la grande commessa della linea ferrata ligure. Il tutto partì dalla stima del valore dello stabilimento calabrese. Mentre si sbandierava nelle gazzette italiane che quegli impianti erano una zavorra insopportabile per l’Italia, sui suoi beni puntarono diversi speculatori, fra cui la Banca Nazionale Toscana. Camera dei Deputati, p. 2241, sessione del 1878, 27 giugno: “se per l’affare della Mongiana il Governo aveva fatto una cattiva vendita, la Banca Toscana facendosi garantire sulla Mongiana faceva invece una eccellente operazione, perchè la Mongiana valeva molto di più del credito che vantava contro il Fazzari”. Cosa vuol dire? Achille Fazzari acquistò la Mongiana nel 1872 per appena 300.000 lire, dopo che tre pubbliche aste andate deserte, ne avevano ridotto il valore nominale del 300%. Fazzari possedeva nella Banca Nazionale conti correnti per poco più di 1.800.000 lire; da altre carte si apprende che la Banca nazionale Toscana incamerò la Mongiana, valutata per la concessione dell’ipoteca, 4 milioni di lire, per dismetterla nel 1883, in conto perdite, in seguito alla crisi per il finanziamento della linea ferrata ligure, a un valore che sfiorava i 5 milioni. Insomma: quanto valeva davvero lo stabilimento calabrese? C’è quasi da perdersi: dismesso e deprezzato per favorire la speculazione di un senatore all’Elba, Brioschi, viene svenduto a un altro speculatore e deputato, Fazzari, passa a una banca per un valore 13 volte più alto e da questa torna allo Stato per 17 volte tanto. Una storia italiana, che segnò la morte della siderurgia meridionale.

Alessandro Fumia

1 Comment

  1. E’ la storia di molte eccellenze produttive che con l’unificazione sono andate gambe all’aria… il capovolgimento politico ha generato una destabilizzazione generale di tutte le attività produttive, orgoglio delle zone in cui sono nate. caterina

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