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Origini di Itri e la sua controversa etimologia

Posted by on Dic 23, 2021

Origini di Itri e la sua controversa etimologia

   Molte congetture si sono fatte sulle origini del nostro paese. Alcuni studiosi sostengono che i primi fondatori ed abitatori di Itri siano stati gli Osci, altri gli Aurunci, altri ancora i rozzi ed antropofagi Lestrigoni, come il Pagnani, che pretende che il nostro centro fosse stato fondato dal suo re, Lamo, mentre lo Schott, nel suo “Itinerario”, fa fondatore di Itri Elio Lama, senatore romano.

Da alcuni geografi (Fra’ Leandro Alberti, “Descrittione di tutta Italia”, Flavio Biondo, “Roma ristaurata, et Italia illustrata”, 1540, Ferdinando Ughelli, “Italia sacra”, 1717, l’abate Lucenti nel tomo I della sua “Italia sacra”, G. B. Rampoldi, “Corografia dell’Italia”) Itri fu identificato con l’antica “urbs Mamurrarum”, dalle cui rovine sarebbe sortto. L’ipotesi, che si appoggia al distico oraziano. “In Mamurrarum lassi deinde Urbe manemus, / Murena praebente domum, Capitone culinam”, della V Satira del libro primo, è risibile, dato che il ricchissimo cavaliere Mamurra, generale del genio (“praefectus fabrum”) sotto Giulio Cesare, oggetto della bile e dei virulenti, sferzanti strali di Gaio Valerio Catullo, grandissimo poeta per limpidezza di lingua e per icasticità, che lo definisce “decoctor”, scialacquatore, era formiano, ed ancora oggi nella contigua città tirrenica vi sussiste un sito, chiamato “Mammorano”, indubbia corruzione di “Mamurrano”. L’equivoco è sorto, senza dubbio, per il fatto che la nobile famiglia di senatori aveva grandi possedimenti ad Itri.

Il viaggio di Orazio fu fatto nell’autunno del 37 a. C., al seguito dell’uomo politico e raffinato  cultore di lettere ed arti Mecenate, discendente da un’antica, regale famiglia etrusca di Arezzo, consigliere di Ottaviano. Il tragitto era da Roma a Brindisi, dove  l’amico di Augusto, protettore ed amico di Orazio e di Virgilio, si recava per preparate l’accordo fra Ottaviano ed Antonio, che parve dar tregua al contrasto tra i due contendenti, con il riservare al primo l’Occidente e all’altro l’Oriente. Un viaggio, quello del figlio dell’alpestre Venosa, di circa 550 km,in 15 giorni, fatto quasi tutto in vettura, con una  media di circa 35 km. al giorno, che non rapresenta certamente un record di velocità, neppure per i Romani. Orazio adoperò, come mezzo di locomozione, la “rheda”, vettura a due e poi a quattro ruote, tirata da due o anche da quattro cavalli o mule, e fatta, al tempo del Poeta, per non più di tre viaggiatori, con pochi bagagli. Nel 4° giorno, il percorso in terra aurunca era Terracina-Fondi-Formia, per complessive 24 miglia. L’ospitalità a lui e al rètore greco Eliodoro era offerta in casa di L. Licinio Terenzio Varrone Murena, cognato di Mecenate, e di Fonteio Capitone. A stancare Quinto Orazio Flacco, dovette contribuire la ripida salita di Sant’Andrea, lunga circa tre miglia, la parte malagevole della Via Appia, dove si produceva il Cècubo, il più celebre vino dell’antichità romana. Simile produzione si faceva su quella parte del territorio, che, dalla salita di Itri, si distende verso il mare di Sperlonga sino alle vicinanze di Gaeta. In questa striscia di terra, vi allignavano anche messi abbondanti. Nelle parti involte, piene di mirti e di lentischi, che molto servivano per la concia delle pelli di animale, si trovava, tra le pietre, il traslucido alabastro, usato per far vasi, statuine, decorazioni e, in lastre sottili, per la chiusura di finestre, particolarmente nelle absidi delle chiese. Nonostante la fatica dell’attraversamento della gola di Sant’Andrea, l’asceta del Presente, del “carpe diem”, dovette provare un estremo piacere per la posizione amena di Itri e pensato, almeno per un momento, al tanto decantato Cecubo, prodotto dai vigneti delle campagne e delle colline itrane.

Il nome di Itri viene fatto derivare da “Atrium”,da “Itrium”. Altri spiegano l’origine della parola, ricollegandola a “Tar-It”, che significa terra alta, “Alta ripa”, ovvero luogo dirupato e scosceso, com’è proprio la collina di Sant’Angelo, posta di fronte al torrente vernotico “Muro Torto”. Infatti, ancora oggi, Tarìta è detto il nucleo tra S. Maria e S. Angelo. Altri ancora sostengono che il  vocabolo alludi alle anfore, dette “itrie”, da Itri, luogo originario di produzione, dove si sono usate fino a quarant’ anni fa. Ne “Il Vangelo”  troviamo l’idria di pietra posta per la purificazione dei Giudei.

   La tempera su tavola, “La Madonna delle Itrie”, databile alla seconda metà del Quattrocento, attribuita a Giovanni da Gaeta e conservata nel Museo Diocesano di Gaeta, molto interessante per l’elegante figura della Vergine, che ha sulle ginocchia il Bambino Gesù, e per la vivacità del figlioletto, quasi nudo, avviluppato da un velo, che regge, con la mano sinistra, un libro, mentre la destra tiene una bandierina, potrebbe provenire dalla chiesa di S. Maria Maggiore, dove operò il pittore tardogotico gaetano.

   La “vexata quaestio” non accenna a chiarirsi. Anzi fioriscono le ipotesi sull’etimo. Negli ultimi tempi ha preso consistenza l’opinione che Itri possa derivare dalla voce latina “Iter”, che significa viaggio, poiché le prime abitazioni (che sorsero in “vico Cavone” e “vico Casale”) lungo la classica via Appia, furono adibite a luogo di sosta delle legioni e dei corrieri romani, che, dopo la tortuosa e faticosa salita di “Sant’Andrea”, avevano bisogno di riposo e di rinfrancarsi. In Itri essi trovavano ristoro nelle “deversoriae tabernae” e respiravano l’aria fresca e salutare delle sue colline.

   Gli studiosi che propugnano tale tesi portano a loro sostegno la lapide (di circa 2 metri), posta nella “porta Mamurra, nella parte sinistra, che ha un’elegante iscrizione a carattere maiuscolo, con sopra la  parola “ITER”

   Noi la pensiamo diversamente e diciamo che questi epigrafisti prendono un grosso abbaglio, se vogliono sostenere la loro tesi con l’ausilio di questa lapide. Quell’ITER  è l’abbreviazione  di “ITERUM”, che significa “per la seconda volta” ed è riferito alla parola precedente, “AEDIL”. Quindi l’ITER non comprova affatto la tesi su esposta, ma lascia intendere che il personaggio ricordato dalla tavola in pietra, un certo CAIO MARCO AGNIO, figlio di Marco, della gente Emilia, ricopriva, per la seconda volta, la carica di Edile. Sulla tavola lapidea l’epigrafe è scritta così:

                                        C. M. AGNIUS M. F. AE

                                         AEDIL. ITER.

   Il nostro parere sulla “questione”, suffragato dal compianto, autorevole epigrafista Lidio Gasperini, è che Itri debba, invece, derivare da “hydrus”, serpente che è raffigurato nella ricordata porta Mamurra e nello stemma comunale come simbolo della salute. La tradizione vuole che, “latrando”, esso rendesse i suoi oracoli.  A tal riguardo, dobbiamo far notare che i monaci benedettini di Montecassino, nel “Codex Diplomaticus Cajetanus”, che rappresenta il più completo repertorio di documenti del basso Lazio, riportano spesso il toponimo “Idru”, riferendosi forse all’Idra Lernea uccisa da Ercole, che nell’antichissima Itri aveva un tempio e, forse, un culto speciale,  in stretta relazione con le vie di transito delle transumanze e in collegamento con l’interno della Valle del Sacco,con i santuari della media Valle del Liri. Una tradizione leggendaria, ma costante, dice che i fondatori di Itri erano Amiclani, che si erano rifugiati sui suoi monti, dopo l’abbandono di “Amyclae”,causata dall’invasione dei serpenti. Gli abitanti di Amyclae (città marinara, fondata dai Laconi) erano seguaci di Pitagora, il cui dogma proibiva di uccidere il serpente, animale sacro. .I pochi superstiti assunsero, come simbolo del luogo e come nume tutelare, proprio il serpente della dottrina pitagorica.  

Alfredo Saccoccio

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