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Abitare un fondaco al Cavone. Centro Studi per la Storia dell’Arte e dell’Architettura delle città portuali

Posted by on Mar 10, 2019

Abitare un fondaco al Cavone. Centro Studi per la Storia dell’Arte e dell’Architettura delle città portuali

Sylvain Bellenger, direttore della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte, ha organizzato, con la collaborazione del texano The Edith ‘O Donnell Institute of Art History, il “Centro Studi per la Storia dell’Arte e dell’Architettura delle città portuali”. Un centro internazionale che, nato nel settembre scorso, in un edificio borbonico nel Real Bosco, chiamato la Capraia, lunedì ha fatto la sua prima relazione pubblica. L’argomento: “Abitare un fondaco al Cavone. Dall’archivio alle fonti orali, tracce e memorie della cultura popolare”.

Due i relatori: la professoressa Brigitte Marin, che, docente di Storia Moderna all’ Aix-Marseille Université, è onusta di altri prestigiosi incarichi, e Marcello Anselmo, storico contemporaneista, ricercatore nella stessa università marsigliese e autore di réportages e di studi sociali sulle città dell’Europa Meridionale. 

La professoressa Marin ha  iniziato parlando del suo condiviso metodo di studio: definire un fenomeno urbano risalendo alle sue  origini storiche, attraverso la ricerca e l’attenta lettura di documenti di archivio. In più, la professoressa dimostra di tener conto anche degli scritti di altri studiosi sull’argomento, rifacendosi al compianto Giuseppe Galasso (1929/ 2018), storico accademico e importante politico che, come tale, aveva dovuto attenersi a una considerazione del passato napoletano soprattutto quale causa dei mali presenti, secondo la prassi solita di ogni governo.

La Marin, quindi, riferisce di Galasso l’affermazione che i problemi della città vengono dal passato e che la difficile situazione abitativa in cui versa il popolo è “la continuità di un problema irrisolto”. In realtà, durante il governo spagnolo, quando Napoli era capitale di una delle Spagne, qui ci fu uno straordinario aumento del numero degli abitanti che, dai 40.000 esistenti durante il precedente governo aragonese, passarono a centinaia di migliaia.

Nel frattempo, furono costruite nuove mura, mentre veniva emanato il divieto di costruire fuori dalla loro cinta. Di conseguenza, i palazzi si innalzarono tanto che ai visitatori dell’epoca Napoli apparve come una città di grattacieli. E piacque. Ma esistevano ancora, al suo interno, i giardini delle case nobiliari e dei monasteri e c’era la vista amena delle verdi colline.

L’aumento demografico continuò anche dopo la terribile peste del 1656, per la quale morì – si dice- metà della popolazione, tra cui anche artisti famosi come Massimo Stanzione Battistello Caracciolo.

Dal Seicento la professoressa riporta l’uso fatto da uno scrittore francese in visita a Napoli, della parola “fondachiera”, per indicare la povera gente abitante dei fondaci napoletani, detta, poi, “plebe” e “gentaglia”. Nello stesso periodo (è forse interessante notarlo), un napoletano di genio come Gianlorenzo Bernini, che era stato chiamato da Luigi XIV per costruire il “Palazzo del Re”, veniva continuamente criticato dalla Corte e dal Colbert, Controllore Generale delle Finanze del Regno, e poi era ignominiosamente rimandato a casa. Così il “Palazzo del Re”, il Louvre, oggi ha le forme classiche della colonnade di Claude Perrault.

Delle incomprensioni e dei contrasti tra il razionalismo dei francesi e il naturalismo libero e ardito del Bernini riferì, nel suo diario, Paul Fréart de Chantelou, Mastro di Casa del Re, rivelandosi amico dell’artista italiano. Il che dimostra che ancora perdurava in Francia, nella seconda metà del ‘600, l’ammirazione per la creatività nostrana, ma stava per nascere, da un estremo razionalismo cartesiano, quell’illuminismo che si esprimerà, più di un secolo dopo, nel neoclassicismo giacobino.

Del suo lavoro di ricerca sul fondaco del Cavone, la professoressa Marin non nasconde le difficoltà. E ricorda come un colpo di fortuna, ma fu premio al suo impegno, l’essersi imbattuta nei documenti relativi ai monasteri scomparsi. Tra questi c’è il monastero femminile di santa Monica, nato come tale nel 1646 da un conservatorio del 1628.

Nell’insula, intorno al monastero, le monache costruirono un complesso di abitazioni modeste, il Fondaco del Cavone appunto, che dettero in fitto a basso prezzo a gente che aveva scarsi mezzi economici. Fu speculazione o beneficenza? L’uno e l’altro probabilmente, secondo i casi – suggerisce la professoressa. Che, citando i documenti, riferisce di numerosi interventi di manutenzione e decoro fatti, per queste abitazioni, nel Seicento e nel Settecento, che poi, nella seconda metà dell”800, vennero a mancare, determinandone il degrado.

Ma la situazione di degrado esistente in questo periodo storico riguardò tutta la città, e fu quello che Matilde Serao descrisse ne “Il ventre di Napoli”. Che non fu soltanto delle sue strutture materiali. Precedentemente, nel Settecento, invece, la maggior parte dei visitatori, notoriamente Goethe ma non solo,  avevano considerato il popolo napoletano, compresi i poveri, libero e felice.

Era ammirato il suo essere “picturesque”, termine inglese che allora sorse per connotare ciò che è veracemente originale ed è amabile per la sua diversità. Ma poi, appunto nella seconda metà dell”800, la povertà diventò miseria. Mentre, come dice la Marin, spesso il sorriso divertito dei turisti diventava una sorta di sprezzante ironia. Siamo negli anni successivi all’unità d’Italia. Il degrado delle abitazioni e dei relativi servizi portò all’emergenza sanitaria. A Napoli scoppiò il colera. E, di conseguenza, si giudicò necessario procedere alla bonifica del suo centro e del suo sistema fognario attraverso quello che fu detto il Risanamento oppure “lo sventramento”. Che diventò “la più estesa trasformazione urbanistica che la città storica abbia conosciuto”- ricorda, intervenendo nel colloquio instauratosi tra i relatori e il pubblico, un architetto, esperto urbanista.

È il professore Italo Ferraro, già docente alla Federico II e autore di un atlante in 12 volumi (edizioni Oikos), che racconta la storia di Napoli nella sua concreta realtà edilizia. Da cui si evince, non come semplice ipotesi ma come indubitabile testimonianza, l’eccezionale continuità storica dell’antica città partenopea.

Una continuità che ha fatto si che Napoli, che non è “una città con un porto” costruito successivamente (come Atene), ma una città-porto fondata da greci marinai, abbia potuto mantenere l’impronta delle sue origini marine, nell’organizzazione sociale, nella filosofia e nell’arte.

Infatti le antiche lcittà costiere greche, come Neapolis, Palepolis, o Elea, la patria di Parmenide, modellarono la loro organizzazione sociale tenendo conto dell’esperienza che ne avevano fatto sulla nave prima di stanziarsi sulla costa. Sulle antiche navi, non si eleggevano quali capi i politici-oratori. Ma era capo il nostromo (cubernetes in greco, gubernator in latino), il governatore, che otteneva la sua legittimità dando prova delle sue reali capacità. E ognuno dei marinai aveva le mansioni relative alle proprie possibilità, il che non comportava la sanzione di una superiorità degli uni sugli altri, perché era evidente il fatto che si era tutti sulla stessa barca: una paritaria società di disuguali.

Così, alla caduta dell’impero romano, Napoli fu, per molti secoli, guidata da un dux con le funzioni di governatore, e fu un ducato. Finché, dopo l’esperienza normanna, la città non conobbe gli Angioini, che la resero capitale di un Regno. E fu il centro conservatore di una cultura anomala, invisa agli accademici e temuta dalle Autorità. Una corrente filosofica diversa da quella classica improntata al razionalismo socratico-aristotelico. Fu l’empirismo contro il razionalismo, l’esperienza contro lo scientismo, la libertà di vivere contro l’eccessiva regolamentazione, contro la cosiddetta normalità.

Un fil rouge lega il filosofo marinaio Parmenide, di cui si era impadronito Aristotele travisandolo, al filosofo naturalista Bernardino Telesio, a Giovanbattista della Porta e alla sua associazione dei Secreti, accusata di occultismo, fu chiusa per ordine papale, a Tommaso Campanella, torturato e imprigionato, a Giordano Bruno, bruciato vivo in Campo dei Fiori, agli Investiganti seicenteschi, al principe di Sansevero, mago lo dissero e non  scienziato quale fu, a misconosciuti uomini geniali, come Giacinto De Cristofaro, chiuso in prigione per molti anni, e a tanti altri ancora.

Tra i quali, presumibilmente, quelli di cui è stata completamente cancellata la memoria. Questo fil rouge ci conduce a Gian Battista Vico. Negli scritti di questo grande filosofo napoletano si legge una concezione del tempo e dello spazio che ci riporta al marinaio Parmenide.

Il tempo, per Vico, non è un’entità unidirezionale e la realtà non è statica ma è ritmo che si muove ritornando su se stesso, come il mare. Come la musica napoletana che nutrì il mondo dai tempi di Nerone a quelli di Paisiello. E lo spazio, per Vico, non è quello definito dalla geometria cartesiana ed euclidea. Ma è quello che si apprende “con una mescolanza di corporeità e di pensiero”. 

Certamente anche la gente di mare nella mente non poteva avere lo spazio euclideo ma quell’ampio spazio marino che si conforma alla curva linea dell’orizzonte e alla volta del cielo. È un’immagine espressa anche nell’arte figurativa napoletana.  E che è ben diversa da quella dello spazio-scatola a tre dimensioni che Euclide teorizzò, pubblicandolo nel 300 a. C., e che viene realizzato dal 1400 in poi, per mezzo della classica prospettiva toscana. Che è la prospettiva per antonomasia, l’unica accettata accademicamente e considerata reale, sebbene, precocemente, L. B. Alberti la avesse definita artificialis, cioè meramente astratta. Eppure quella pittura napoletana che non si attiene alle sue regole è stata spesso considerata arretrata o errata. 

Erwin Panofsky, nel suo famoso libro “La prospettiva come forma simbolica”, riferisce della realizzazione dello spazio sulla curva superficie dei vasi magnogreci del IV secolo a C. e di una prospettiva simile a quella canonica (ma erroneamente realizzata) in alcuni affreschi pompeiani. Di errori di prospettiva hanno parlato ancora i dotti riferendosi alle vedute napoletane del Settecento. Non si tratta di errori ma di una prospettiva diversa che nel Settecento ha raggiunto la sua piena espressione, tanto da poter essere oggi tradotta in computer grafica.

È la prospettiva di quello spazio che la gente di mare aveva nel cuore e nella mente:  la prospettiva  napoletana. (cfr. “Lo spazio a 4 dimensioni nell’arte napoletana. La scoperta di una prospettiva spazio-tempo” ed T. Pironti). Uno spazio attualissimo, coerente a quest’epoca di imprese spaziali, mentre la prospettiva toscana del ristretto spazio-scatola è contestata da tempo. Nei dipinti napoletani considerati sbagliati, c’è la visione di uno spazio in movimento, che è visto da più punti di vista e ha quattro dimensioni. Napoli ha intuito da sempre quello che la scienza ha teorizzato soltanto nei primi anni del Novecento, con Albert Einstein, che d’altronde ha scritto: “Le origini del nostro pensiero sono nella Magna Graecia”. La prospettiva non è soltanto un fatto pittorico: essa rispecchia la mentalità, ovvero la struttura del pensiero, del pittore-autore, ma anche del suo ambiente. E la prospettiva napoletana.si basa sui plurali punti di vista di una società coesa, che danno concretezza a uno spazio iperbolico.

La persistenza nell’arte figurativa degli stessi caratteri si apparenta alla persistenza delle stesse famiglie nei quartieri popolari napoletani, come il Fondaco del Cavone. Famiglie che costituiscono una società coesa, con gli stessi modi di pensare, di sentire e di atteggiarsi. Di questa società racconta l’accurata indagine fatta sul posto dall’attento studioso Marcello Anselmo, che ha intervistato persone e ha filmato interviste e luoghi, indagando su importanti fenomeni ma anche su particolari, apparenti minuterie del modo di vivere del popolo povero, e così ricostruendone la vita.

Tutto questo è reso noto ora al pubblico nella vivace relazione dello studioso. Che chiarisce come la densità demografica del Fondaco del Cavone si sia andata via via accentuando. Già era accaduto dopo “lo sventramento” operato dal Risanamento del centro storico della città, un luogo densamente popolato, i cui abitanti, quindi, dovettero trasferirsi altrove. Di questi, mentre i più ricchi occuparono i nuovi appartamenti e quelli di media fascia andarono ad abitare al Vomero, i poveri andarono ad addensarsi nei luoghi già sovraffollati come i fondaci. Le condizioni degli abitanti peggiorarono.

Tuttora la densità demografica tende ad aumentare, perché, a volte, pur potendosi trasferire altrove, i giovani sono rimasti qui, accanto ai genitori, ai nonni, agli zii e agli amici di sempre. E anche coloro che si erano allontanati, andando ad abitare le case nuove della periferia, ritornano qui, nella vecchia Napoli,tra i parenti e gli amici, tra gente conosciuta, in quella società che gli è propria, a quel modo di vivere che è la loro vita. Così gli ambienti abitativi, per dar loro posto, si sono solidarmente divisi. Ma sono tenuti ordinati e lindi, e sono forniti di bagni e di moderne tecnologie casalinghe. I piani del fondaco si sono innalzati e vengono preferiti quelli più alti.

Certo ora, come nei vecchi vicoli napoletani, sta sorgendo, ed è una novità, un senso di insicurezza. Testimoniato anche dalla chiusura delle porte dei “bassi”, le case a pian terreno, con la “finestra zoppa” e, come nota acutamente Anselmo, dalla presenza dei cani – non i randagi a cui si dà il cibo, un calcio e una carezza – ma cani da difesa e robusti cani da guardia. Ora vi sono, anche nel Fondaco del Cavone, molti abitanti che vengono dall’estero, soprattutto africani e cingalesi, gente sconosciuta. Alcuni rimangono più a lungo, altri fanno un turn-over.

Ma sono sempre di più  e l’atteggiamento di accoglienza proprio delle civiltà di mare… da Nausica in poi… si chiude in un atteggiamento di faticosa sopportazione. E ogni tanto si protesta per piccole cose, che fanno emergere in superficie la diversità tra le etnie. Pure lo spazio, qui, al Cavone, scarseggia e rende più aspri gli attriti tra persone che sono profondamente diverse. Mentre l’armonia di una società è fatta dalla omogeneità dei suoi componenti.

Dalla relazione degli studiosi molte cose sono state chiarite. Ma una domanda rimane senza risposta. Se i fondaci sono una sorta di antichi magazzini portuali, di origine medievale, che si trovavano un tempo lungo i moli, a Napoli come a Venezia e a Genova, il fondaco del Cavone, come quello, anch’esso napoletano, di San Gregorio Armeno, che non sono costruiti nel porto, perché si chiamano fondaci?

Adriana Dragoni

fonte http://www.agenziaradicale.com/index.php/rubriche/arte-e-dintorni/5739-abitare-un-fondaco-al-cavone-centro-studi-per-la-storia-dell-arte-e-dell-architettura-delle-citt

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Due Sicilie: chi difende il busto di Cialdini

Posted by on Mar 5, 2019

Due Sicilie: chi difende il busto di Cialdini

Con una intera pagina messa a disposizione dall’edizione di Napoli del quotidiano “la Repubblica” (23.2.2019), il presidente della Società Napoletana di Storia Patria, Renata De Lorenzo e diverse associazioni di docenti universitari di Storia attaccano la Camera di Commercio di Napoli per la decisione di spostare il busto del generale piemontese Enrico Cialdini (1811-1892), responsabile del bombardamento di Gaeta durante l’assedio del 1860-61, dei massacri di Pontelandolfo e Casalduni (14 Agosto 1861) e di migliaia di fucilazioni, saccheggi e distruzioni di paesi del Sud durante la repressione dell’insurrezione definita brigantaggio successiva all’unificazione.

Il salone di rappresentanza dell’Ente, nel Palazzo della Borsa, ospita un grande busto in marmo di Cialdini, che la Giunta della Camera di Commercio, su proposta del vicepresidente vicario Fabrizio Luongo, ha deciso all’unanimità di spostare in altro luogo. “A noi piacerebbe  – ha detto Fabrizio Luongosostituirlo col volto di Angelina Romano, bimba di 9 anni che Cialdini fece fucilare” (“la Repubblica-Napoli”, 23.2.2019).

Diverse città del Sud tra le quali Palermo, Catania, Barletta e Lametia Terme, hanno cambiato negli anni scorsi la denominazione di strade e piazze intitolate all’autore delle stragi di civili meridionali. Anche Mestre ha deciso di cambiare il nome del piazzale che porta il nome del generale piemontese, mentre Vicenza ha cambiato la denominazione della piazza intitolata al colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, luogotenente di Cialdini che guidò i bersaglieri nella strage di Pontelandolfo, e l’ha ridenominata Piazza Pontelandolfo.

A Napoli, invece il tentativo di spostare un simbolo della violenza con la quale l’unificazione fu imposta all’ex Regno delle Due Sicilie provoca la mobilitazione della stampa radical-chic, delle vestali del Risorgimento, di giornalisti e docenti dietro i quali si muovono i poteri forti che presidiano la narrazione mitica dell’unificazione.

Secondo la De Lorenzoi comportamenti dei Gruppi dirigenti locali” sono da “contestualizzare in base ad una valutazione del clima complessivo che dettò scelte a suo tempo condivise”.

Gli atti di Cialdini e dei suoi uomini, quindi, non andrebbero valutati per il loro contenuto oggettivo (il massacro di inermi, donne, bambini) ma giustificati dall’ideologia dominante (il liberalismo risorgimentale) e dal consenso politico che esso raccoglieva tra i “gruppi dirigenti”.

Per la De Lorenzo, peraltro, i massacri di Pontelandolfo e Casalduni sono solo “presunti eccidi”, anche se perfino il socialista Giuliano Amato, presidente del Comitato per le celebrazioni per i 150 anni dell’unificazione, chiese ufficialmente scusa, a nome dello Stato italiano, ai discendenti delle vittime dei massacri.

Il presidente della Società Napoletana di Storia Patria, il cui metodo di ricerca storica è lo stesso degli autori delle fiction televisive, aggiunge che “la repressione del brigantaggio ebbe manifestazioni crudeli da entrambe le parti in lotta (…) con episodi di cannibalismo [sic!] e altre aberrazioni” da parte di questi ultimi, e mette sullo stesso piano “la distruzione del villaggio di Bosco”, ordinata dopo i moti liberali del 1828 dal Governo Borbonico, che avvenne – come scrive il liberale Luigi Settembrini – quando il villaggio era “già vuoto di abitanti”, e le stragi di civili inermi compiute dai piemontesi, per concludere che è su questa base che “la Società Napoletana di Storia Patria si è espressa contro una visione del passato che stravolge gli spazi e il loro portato simbolico, disancorandoli dalle motivazioni che le hanno plasmate.

Torna il concetto che “la motivazione” può giustificare un atto, indipendentemente dal suo contenuto. Con la stessa logica (la tesi dell’“accerchiamento delle potenze capitalistiche”) sono stati giustificate dai comunisti le epurazioni di massa di Stalin, lo sterminio dei kulaki, i Gulag sovietici… Quanto al “portato simbolico”, bisogna effettivamente chiedersi, se i contadini arsi vivi insieme alle loro donne ed ai bambini, nel Beneventano, non siano il simbolo migliore dell’unificazione italiana.

Contro lo spostamento del busto di Cialdini, la De Lorenzo ha promosso anche un appello di docenti universitari di Storia, ospitato senza alcuna replica da “la Repubblica-Napoli” (23.2.2019).

Negli ultimi anni – scrivono i docenti universitari – si sono moltiplicati i segnali di una certa conflittualità nella produzione di memorie collettive “ e citano “l’istituzione di una giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia. Quanto alla decisione della Camera di Commercio di spostare il busto di Cialdini, si tratterebbe di un episodio di “bonifica storica.

Le “memorie collettive” si producono, secondo questi docenti di Storia, e “negli ultimi anni” la loro “produzione“ sarebbe diventata “conflittuale. Forse vogliono dire che una nuova generazione di studiosi, in gran parte non accademici, ha cominciato, sulla base di fatti e documenti storici e non di costruzioni ideologiche, a mettere in discussione il “rito antico ed accettato” del Risorgimento del quale sono i guardiani.

Renata De Lorenzo è un’allieva del prof. Alfonso Scirocco (1924-2009), titolare della cattedra di Storia del Risorgimento all’Università Federico II, poi collaboratrice di Giuseppe Galasso. Il suo libro su Murat, personaggio del quale il presidente di Storia Patria è un’ammiratrice, è stato presentato in anteprima a Roma, l’8 luglio 2011, nella sede del Grande Oriente d’Italia, nel corso di una serata conclusa dal “Gran MaestroGustavo Raffi.

Le cattedre di “Storia del Risorgimento” furono create nelle Università italiane per costruire la memoria storica di un evento che vide come protagonisti gruppi ristrettissimi in ciascuno degli Stati pre-unitari dell’Italia. Un bilancio della loro attività può essere fatto guardando alla produzione. In occasione dei 150 anni dell’unificazione (2011), dalla parte risorgimentalista non è stato prodotto nessun contributo scientifico di rilievo, mentre la divulgazione ha sfornato biografie di personaggi risorgimentali firmate da giornalisti e compilatori, saccheggiando la bibliografia già esistente, mentre gli studiosi critici del Risorgimento hanno prodotto contributi originali corredati da documenti. Basti citare gli studi di Antonella Grippo, Angela Pellicciari, Gennaro De Crescenzo.

Ma perché i cultori della leggenda risorgimentale non producono nulla di serio? Perché se ci si mettesse a studiare davvero che cosa fu quello che è stato definito Risorgimento, emergerebbero non solo le stragi, di meridionali di cui Pontelandolofo e Casalduni sono solo un esempio, ma anche la totale mancanza di legittimazione dei suoi “gruppi dirigenti. Come si svolsero i plebisciti, non solo nel Regno delle Due Sicilie, ma nel Granducato di Toscana, nelle Legazioni Pontificie, in Veneto? Da dove provenivano i “patrioti” e quali legami avevano con le sette, con potenze straniere come l’Inghilterra? Che ruolo ebbero la camorra e la mafia nella gestione dell’ordine pubblico a Napoli e nell’avanzata di Garibaldi in Sicilia?

A queste ed altre domande è pericoloso rispondere. Si incrinerebbe definitivamente la ricostruzione affabulatoria dell’unificazione italiana. Meglio continuare a difendere i busti di Cialdini e di altri “eroi” del Risorgimento come lui, per impedire che vengano trasferiti in appositi Musei storici con targhette che rechino scritto: “criminale di guerra. (LN132/19)

Lettera Napoletana

fonte http://www.editorialeilgiglio.it/due-sicilie-chi-difende-il-busto-di-cialdini/

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“Studi Storici” sulle insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica

Posted by on Feb 24, 2019

“Studi Storici” sulle insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica

1. Premessa

Il numero di aprile-giugno del 1998 di Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, di Roma, è interamente dedicato a Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica (1).

Il fascicolo, che si apre con il saggio Introduzione. La questione delle insorgenze italiane (pp. 325-348) di Anna Maria Rao — professore ordinario di Storia Moderna nell’università di Napoli Federico II, membro del comitato di direzione della rivista e coordinatrice dell’iniziativa —, presenta un insieme di monografie di studiosi di varia estrazione — anche se di comune orientamento —, dedicate a episodi e a momenti particolarmente significativi delle insorgenze popolari, verificatesi in Italia nel periodo del dominio napoleonico, fra il 1796 e il 1815.

L’ordine di presentazione è quello geografico. S’inizia infatti con uno studio sulle insorgenze delle province lombarde già sotto dominio veneto, per proseguire con un saggio volto a individuare tratti comuni fra l’insorgenza veronese del 1797 — le cosiddette Pasque Veronesi — e fenomeni coevi simili, a sfondo sociale, verificatisi nel Regno di Sardegna. Seguono uno studio sui moti agrari del Piemonte Meridionale nel 1797 e due saggi rispettivamente dedicati all’insorgenza ligure del 1797 e a quella romagnola del 1796-1797. La rassegna include poi l’analisi di alcuni aspetti di quelle che possono essere considerate le manifestazioni più significative e complesse della resistenza italiana contro la Rivoluzione francese, ovvero il movimento del Viva Maria! in Toscana, l’insorgenza del Lazio — comprendente anche un esame della politica di Papa Pio VII (1799-1821) nei confronti degl’insorgenti dopo la fine della Repubblica Romana e il ritorno del Pontefice a Roma — e la grande rivolta sanfedista nel Regno di Napoli, tutte del 1799.

2. Esposizione

Nello studio introduttivo la Rao mette anzitutto in rilievo l’ampiezza delle “resistenze e insurrezioni contro la rivoluzione e la repubblicanizzazione della penisola” (p. 330), individuandone le cause in motivazioni di medio e di lungo periodo — la crisi economico-sociale della seconda metà del secolo XVIII, la limitazione delle proprietà ecclesiastiche e le conseguenti ripercussioni sulle tradizionali forme d’assistenza, la riduzione delle autonomie locali, l’attaccamento alle tradizioni religiose, minacciate dal riformismo illuministico e dalla Rivoluzione — e in motivi più immediati, legati alle circostanze dell’invasione e dell’occupazione francesi. Si sofferma quindi su due elementi — “la diffusione delle insorgenze sull’insieme del territorio nazionale” (p. 331) e l’assenza di una conflittualità di classe fra contadini “sanfedisti” e borghesia “giacobina” — che ribaltano alcuni luoghi comuni della storiografia, per concludere che […] dai saggi che si presentano l’insorgenza emerge in tutta la sua irriducibile complessità di fenomeno fortemente differenziato nello spazio e nel tempo” (p. 341).

Lo studioso vicentino Paolo Preto — professore ordinario di Storia Moderna nell’università di Padova — ricostruisce in Le valli bergamasche e bresciane fra democratizzazione e rivolta antigiacobina (pp. 349-365) gli avvenimenti del 1797 nelle province venete più occidentali, dalla dichiarazione di neutralità del governo veneziano e dalla sollevazione di nuclei giacobini prima a Bergamo e poi a Brescia — entrambe “democratizzate” con la forza — all’invasione francese del territorio della Repubblica di Venezia, ai soprusi dell’occupazione e alla forzata inerzia delle truppe di San Marco, alla montante collera dei contadini, che esplode nel marzo del 1797. In quel mese le valli bergamasche — Seriana, Cavallina, Gandino e altre — e quelle bresciane — Camonica, Trompia e Sabbia —, unitamente alle popolazioni della riviera gardesana occidentale — in particolare della zona di Salò, un tempo indipendente —, dopo solenni giuramenti formulati nel corso delle tradizionali assemblee comunitarie, si sollevano coralmente contro le città “rivoluzionate” fino a scontrarsi con le neonate milizie “italiche” e con i francesi, dopo aver coltivato inizialmente l’illusione di regolare i conti con i giacobini nella neutralità dell’esercito occupante. Fa parte del quadro anche la cruda repressione perpetrata dalle truppe franco-bresciane — rinforzate da volontari accorsi da altre città italiane, come per esempio Pavia, di recente “democratizzate” — contro i contadini insorti: oltre al cannoneggiamento di Salò dalla parte del lago, vi sono, come rappresaglia, il saccheggio e l’incendio di diversi borghi della montagna bresciana, quali Nozza, Vestone, Barghe e Lavenone. Nel saggio, corredato da una ricca bibliografia, rimangono in ombra i moventi religiosi dell’insurrezione, mentre, fra le cause, viene dato il massimo risalto al legittimismo e alla difesa degli statuti locali da parte delle comunità rurali, preoccupate di perdere autonomia di fronte al nuovo regime a prevalente base cittadina. Nella parte finale dello studio Preto, ampliando la visuale all’insieme dei territori veneti, ritiene di diluire ulteriormente la caratterizzazione ideologica dell’insorgenza esaminata, ponendo l’accento sulla cronicità dei tumulti a sfondo annonario, antifeudali e contro il governo, verificatisi nelle province venete durante il Settecento, ma non sottovaluta il carattere politico dei moti del 1797: le popolazioni — scrive — […] questa volta non tumultuano per la fame ma per difendere le loro autonomie” (p. 365), ovvero l’antico regime nel quale hanno vissuto per secoli.

L’accento sul tema economico-agrario è posto anche da Gian Paolo Romagnani — ricercatore all’università di Verona, docente di Storia della Storiografia — in un saggio che, nonostante il titolo — Dalle “Pasque veronesi” ai moti agrari del Piemonte (pp. 367-399) —, è dedicato esclusivamente ai moti veronesi del 1797 e solo nelle conclusioni ipotizza — riferendosi però ad altri studi — un’unica matrice per le insorgenze dell’Italia Settentrionale durante il Triennio. Dopo una sintesi delle linee storiche e politiche dell’invasione francese dell’Alta Italia, il saggio traccia un profilo — includente anche una rassegna della storiografia sulla vicenda dall’Ottocento a oggi (2) — dell’insurrezione veronese, ricondotta alla crisi agricola che caratterizza il Veneto alla fine del Settecento e alle tensioni sociali che ne derivano, acuite entrambe dalla rapace presenza delle armate francesi. La tesi di fondo è l’esistenza di cause di un disagio economico-sociale generale, che si esprime in moti antifrancesi dove sono presenti le armi straniere e si scaglia invece contro le autorità tradizionali, la monarchia e i feudatari, dove i francesi sono assenti — o solo parzialmente presenti, a presidio di città sedi di fortezze —, come nel caso del Piemonte dopo l’armistizio di Cherasco dell’aprile del 1796. Romagnani ammette peraltro che una lettura politica dei moti piemontesi sarebbe fuorviante, essendo prodotto di una pluralità di fattori, e che in Italia[…] i moti agrari sono una conseguenza diretta della guerra” (p. 398), ovvero dei contraccolpi arrecati dalla stessa a una situazione economico-sociale già critica. Con ciò ricollega quindi le insorgenze piemontesi del 1797 ai drammatici mutamenti indotti non da riforme di struttura, ancora da realizzare, ma dalla guerra rivoluzionaria condotta dall’armata francese, con le sue sfrenate requisizioni militari e con il suo inaudito drenaggio di risorse finanziarie, oltre che artistiche e religiose. Il ventaglio delle cause viene ampliato, considerando pure che “caratteristica del caso italiano è […] l’insofferenza di molti centri minori nei confronti dei centri maggiori” (ibidem) e che “non va infine trascurato il fattore psicologico […] nel determinare il comportamento delle masse” (p. 399). Lo studio contiene anche un parallelo fra la Vandea francese e l’Insorgenza italiana, attribuito soprattutto agli ambienti che hanno celebrato il bicentenario della seconda; ma parallelo alquanto avventato, perché riconosce alla Vandea connotati di rivolta sociale e all’Insorgenza italiana una minore rilevanza rispetto alla prima.

Al Piemonte è dedicato anche l’ampio saggio di Blythe Alice Raviola — dottoranda in Storia della Società Europea all’università di Torino —, Le rivolte del luglio 1797 nel Piemonte meridionale (pp. 401-447), che, partendo dagli studi di Giuseppe Ricuperati (3) e grazie a un’accurata ricerca d’archivio, ricostruisce capillarmente i tumulti e i veri e propri moti che, a causa del rincaro dei prezzi dei generi alimentari di base, oppone le comunità di villaggio del Piemonte Meridionale — il Cuneese e l’Astigiano, con propaggini nell’Alessandrino e nel Monferrato — alle autorità sabaude e ai feudatari locali. Lo studio rivela episodi e aspetti poco noti della vicenda e si situa su una linea interpretativa decisamente socio-economica, che però tiene equilibratamente conto dell’autentica portata dei moti, nonché della difficoltà dell’”innesto” delle avanguardie giacobine piemontesi sulle popolazioni insorgenti, la cui ricezione delle parole d’ordine rivoluzionarie è limitata e che conservano una sostanziale fedeltà alla monarchia e al regime signorile.

Sulle rivolte di Genova e delle valli liguri orientali — Bisagno, Sturla, Aveto, Fontanabuona, Vara e Magra, con propaggini in Val Trebbia e nei feudi imperiali verso la Val Scrivia e l’Alessandrino —, che si manifestano a due riprese, rispettivamente nel maggio-giugno e nell’agosto-settembre del 1797, verte il saggio di Giovanni Assereto — professore associato di Storia Moderna nell’università di Genova — I “Viva Maria” nella Repubblica ligure (pp. 449-471). Più che a descrivere i fatti il saggio sembra inteso a evidenziare e ad affrontare le questioni suscitate dalla reazione della popolazione ligure, mettendo in luce la diversità fra la prima fase dei moti e quella, più intensa e significativa, che segue alla promulgazione della costituzione democratica. L’ipotesi della sobillazione nobiliare e clericale non viene esclusa, ma viene ridimensionata rispetto alla forza con cui tale ipotesi fu avanzata dai francesi e poi da numerosi storici “progressisti”, dimostrando come i processi susseguenti alla repressione non individuino né puniscano alcun nobile o prelato, benché i giacobini tornati al potere instaurino un “clima da caccia alle streghe” (p. 465) e ne abbiano i mezzi e l’intenzione. Viene anche discusso il legame, ipotizzato da alcuni studiosi, con la rivolta antiaustriaca del 1746 — quella di Giovanni Battista Perasso (1729-1781), detto “Balilla” —, nonché il carattere collettivo e corale — le autorità locali si pongono alla testa delle colonne di insorgenti — messo in evidenza dalle rivolte delle valli. Altri nodi affrontati sono il differente atteggiamento fra Levante e Ponente — quest’ultimo tanto fedele alla Repubblica ligure da proporre d’inviare proprie milizie per reprimere l’Insorgenza nel Levante —; la sostanziale refrattarietà popolare all’ideologia rivoluzionaria francese e la violenta avversione al giansenismo — particolarmente accentuata nella zona di Sarzana —, dopo la breve esperienza delle riforme religiose ispirate a mons. Scipione de Ricci (1741-1809), vescovo di Pistoia e di Prato; infine, la breve durata del moto e lo stato di endemica agitazione nelle campagne, che si protrae fino agli anni del Regno napoleonico. Esemplare è il caso di Val Fontanabuona, nell’entroterra di Chiavari, che verrà definita dai francesi la Vandea ligure. Il saggio di Assereto è d’intonazione senz’altro diversa rispetto ai primi della raccolta, perché vi sembrano meno operanti pregiudiziali teoriche. La sua condivisibile conclusione è che l’insorgenza ligure sarebbe stata una reazione difensiva, scatenata dall’intera gamma di realtà raccolte comunemente sotto il nome di Antico Regime — che nella Repubblica di Genova era rimasto sostanzialmente immune da riforme “illuminate” —, di fronte a un tentativo di modernizzazione troppo rapido e dalle modalità disorientanti, come nel caso della missione dei preti “patriottici” giansenisti nelle valli.

Il quadro che Valentino Sani — dottorando in Storia della Società Europea nell’università statale di Milano — in Le rivolte antifrancesi nel Ferrarese (pp. 473-494) traccia degli accadimenti nel Ferrarese e nella Bassa Romagna ha il pregio di spingersi fino agli anni del Regno napoleonico e ai fatti del 1809. Mentre emerge chiaramente che, dal momento dell’invasione fino alla caduta della dominazione francese, la zona non conosce soste nell’agitazione popolare, di essa si possono individuare quattro fasi ad “alta temperatura”: le insorgenze dell’estate del 1796, la più nota e sanguinosa delle quali è quella di Lugo, che coinvolge anche Argenta e Cento; la sollevazione generale del 1799, al momento della temporanea espulsione dei francesi dall’Italia a opera delle truppe imperiali e russe, che vede la partecipazione di milizie d’insorgenti all’assedio di Ferrara e la conquista di Pontelagoscuro, importante emporio padano; le rivolte contro la coscrizione obbligatoria del 1802-1803 e del 1805, quest’ultima culminata nella sommossa del borgo padano di Crespino, che Napoleone Bonaparte (1769-1821) reprime in modo particolarmente pesante; e, infine, i moti nelle campagne conseguenti alla grande insorgenza tirolese del 1809, che interessano ampie aree della Valle Padana. La repressione in quest’ultima è assai sanguinosa, con 63 condanne a morte per “brigantaggio”. L’ampio apparato critico comprende anche riferimenti a non pochi documenti d’archivio. Per Sani, il Leitmotiv delle insorgenze ferraresi — peraltro “fenomeno [non] valutabile in maniera univoca e omogenea” (p. 476) — sarebbero le croniche rivalità fra i municipi e la rivendicazione di privilegi e di autonomie locali, aggravate da disagi e da conflitti sociali originati da problemi economici.

All’insorgenza toscana del Viva Maria!, del 1799-1800, è dedicata la ricerca condotta da Claudio Tosi Il marchese Albergotti colonnello delle bande aretine del 1799 (pp. 495-531). Dopo una breve ma utile rassegna della storiografia in argomento — senz’altro fra le meno esigue, confrontabile solo con quella relativa alla Santa Fede nel Regno di Napoli —, Tosi sostiene che non ci si debba concentrare oltre misura sugli aspetti economici e sociali dell’Insorgenza toscana, ma piuttosto, come le più recenti tendenze storiografiche sembrerebbero confermare, dare — o ridare — spazio all’analisi di tematiche meno “tangibili”, come la sfera della psicologia e delle credenze religiose, il sentimento d’identità collettiva, la mentalità e la sensibilità delle diverse e riccamente differenziate componenti della società d’Antico Regime, come pure vanno approfondite le cause politiche, nel duplice aspetto strategico-internazionale e tattico-locale. In particolare andrebbe intensificata l’indagine sul ceto dirigente di un’insorgenza che presenta caratteri — per la durata e l’estensione, nonché per la presenza di un’élite dirigente non improvvisata — nettamente diversi da quelli di altri movimenti. In questa prospettiva si situa la ricerca condotta da Tosi sulla figura del marchese Giovan Battista Albergotti (1761-1816), leader del moto aretino. Attraverso la ricostruzione della biografia del marchese e di alcuni membri della sua antichissima famiglia — quasi completamente schierata in quegli anni contro la Rivoluzione: solo un membro sceglie infatti la militanza giacobina —, come il fratello Agostino (1755-1825), divenuto poi vescovo della sua città, lo storico si propone d’inquadrare il comportamento della classe dirigente del Viva Maria!, nonché gli eventi di cui essa fu protagonista e le ragioni delle diverse scelte politiche e militari che dovette fare, rilevandone aspetti sicuramente sconosciuti, che arricchiscono e illuminano l’intera vicenda dell’Insorgenza. Emergono così, fra l’altro, l’accortezza politica e l’abilità militare del nobile toscano, nonché le doti umane e cristiane che conducono il governo provvisorio aretino, e poi toscano, da lui presieduto a instaurare rapporti da tempo sconosciuti fra potere e popolo, fra autorità sociali e ceti umili. Lo studio è munito di un nutrito apparato di note, che fanno riferimento a una varietà di fonti, fra cui l’archivio della famiglia Albergotti.

Le premesse, le origini e le vicende delle insorgenze a Roma e nello Stato Pontificio negli anni 1798-1799 costituiscono l’oggetto del saggio di Massimo Cattaneo — dottore di ricerca presso l’università di Napoli Federico II — L’opposizione popolare al “giacobinismo” a Roma e nello Stato pontificio (pp. 533-568). In un rapido schizzo viene descritta in esordio la “battaglia delle idee” combattuta dagli ambienti pontifici ed ecclesiastici romani contro la Rivoluzione francese, anche se di questa propaganda si esagera alquanto la finalità, definita “terroristica”, e sopravvalutata forse la portata, soprattutto se si pensa alla massiccia e pluridecennale operazione di propaganda messa in campo dall’avversario. L’efficacia della “profilassi” poliziesca, attuata dal governo di Papa Pio VI (1775-1799), contro le infiltrazioni giacobine fomentate dagli agenti diplomatici francesi in vista di un rivolgimento autoctono e in preparazione a una possibile invasione francese, si vede però nel fatto che i nuclei giacobini a Roma ammettono[…] nel 1797 di poter contare in città su non più di settecento simpatizzanti, di cui solo sessantotto pronti a rischiare personalmente in un eventuale tentativo rivoluzionario” (p. 538). Particolarmente interessante è la descrizione — anche attraverso la poesia popolare, utilizzata per veicolare princìpi contro-rivoluzionari — della mentalità e dei costumi religiosi della popolazione del rione Trastevere, che sarà l’epicentro del moto del 25 febbraio 1798. Lo svolgimento di questo viene ripercorso tanto nella dinamica dei fatti quanto nelle cause immediate, quanto, infine, nelle modalità di soffocamento e di punizione adottate dai francesi e sfociate in decine di fucilazioni, non tutte comminate da tribunali e per di più eseguite con modalità nuove, cioè senza cornice religiosa, che contribuiscono a sconcertare e a irritare ulteriormente il popolo romano. Il saggio contiene una rassegna della storiografia sull’Insorgenza nei territori pontifici, che ha inizio nel Montefeltro e nelle Marche addirittura al principio del 1797, al momento del primo impatto bellico fra la Repubblica Francese e lo Stato della Chiesa, e massimo sviluppo nel 1799, anno in cui l’Insorgenza nel Basso Lazio si collega, anche se non organicamente, al Viva Maria!, a quella nell’Umbria e al sanfedismo napoletano.

Marina Caffiero — professore associato di Storia Moderna nell’università di Roma La Sapienza — in Perdòno per i giacobini, severità per gli insorgenti: la prima Restaurazione pontificia (pp. 569-602) riporta alla luce aspetti poco noti del periodo rivoluzionario e napoleonico nei domini pontifici. Lo studio — documentato anche con reperti d’archivio — tratta infatti della politica attuata dal governo romano, dopo la restaurazione pontificia del 1800, nei confronti dei partecipanti alla vicenda della Repubblica Romana del 1798-1799 e dell’atteggiamento tenuto dal medesimo verso i conati d’insorgenza che caratterizzano gli Stati del Papa fra l’inizio del secolo e il momento della nuova conquista francese, fra il 1807 e il 1808. Nel primo caso, si palesa un atteggiamento di clemenza che, nonostante gli ammonimenti dei contro-rivoluzionari non occasionali, sfocia in una serie di misure che si spingono fino a reintegrare non solo nei diritti civili ma anche negli uffici o, addirittura, a promuovere a incarichi di responsabilità i protagonisti e i leader giacobini degli anni della repubblica e della guerra civile del 1798-1799. Misure tanto impegnative e indiscriminate che vengono lette come espressione di una condizione di debolezza, peraltro reale a causa della situazione internazionale, caratterizzata dalla forte pressione francese sullo Stato della Chiesa dopo il riaprirsi del conflitto con il confinante Regno borbonico. Nella prospettiva di ristabilire la pace sociale e di stornare da Roma una seconda invasione — poi comunque subita — il vertice romano preferisce mostrarsi acquiescente e collaborativo oltre misura con i francesi e allearsi con gli ex giacobini contro quanti mettevano a repentaglio la sopravvivenza dello status quo, ovvero, da un lato — in accordo con la politica di Parigi —, reprimendo gli elementi più enragés o anarchistes fra i rivoluzionari italiani, dall’altro lato combattendo gl’insorgenti dei vari dipartimenti e le formazioni del ribellismo endemico — il cosiddetto “brigantaggio” —, venutesi a costituire nello scenario di disordine e d’instabilità sociale degli anni napoleonici. Dopo un prodromo in provincia di Frosinone nel 1801, le insorgenze popolari riprendono e si moltiplicano nel 1806 in sintonia e in prossimità della seconda insorgenza generale del Regno di Napoli, riesplosa in grande stile dopo l’occupazione napoleonica. Il governo pontificio giunge a istituire una congregazione speciale con compiti di controllo e di repressione dei movimenti popolari: di essa fanno parte sia elementi antigiacobini sia, significativamente, i maggiori e più noti esponenti del giacobinismo laziale, che si trovano così a giudicare talvolta persone già schierate sul fronte loro opposto nei moti di otto anni prima. L’esame degli atti di questa commissione getta luce su aspetti poco noti della vicenda, sui moventi e sull’appartenenza sociale degl’insorgenti. Tutti questi dati rafforzerebbero la tesi della studiosa secondo cui l’insorgenza laziale, più che esser letta come conflitto a sfondo religioso o puramente economico, andrebbe collocata nel quadro di cronico scontro municipalistico e campanilistico, clientelare e parentale, che caratterizza l’Italia e gli Stati pontifici e che si riacutizza a causa dei problemi indotti dall’occupazione francese.

La panoramica dell’Insorgenza italiana termina con Rivolte popolari e controrivoluzione nel Mezzogiorno continentale (pp. 603-622), una sintesi della reazione popolare nel Regno borbonico tracciata da John A. Davis, del Dipartimento di Storia dell’università del Connecticut. Già noto per altri studi sul medesimo soggetto e buon conoscitore delle fonti storiografiche italiane, anch’egli propende per un’interpretazione dell’Insorgenza meridionale che vada oltre le pure ragioni di ordine economico, spostando il fuoco della ricerca sul mutamento indotto, sovente a forza, nella società di Antico Regime e tenendo conto della grave crisi della monarchia napoletana, che sarebbe all’origine anche dell’opzione di alcuni maggiorenti per la Rivoluzione, allo scopo di garantire comunque l’ordine civile. Attenzione particolare andrebbe riservata alle vicende micro-sociali, perché sarebbero i municipi — con le loro storie e con i retaggi infiniti di rivalità e di conflitti, che trovano nuovo alimento nella situazione di “rottura” di un equilibrio negli anni napoleonici — a sostanziare, più delle macro-strutture istituzionali, l’Insorgenza meridionale. Davis ritrova questa serie di problemi nelle scelte operate dal leader della Santa Fede, il cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827), analizzandone accuratamente la condotta durante e dopo l’insorgenza.

3. Qualche considerazione

Il fascicolo di Studi Storici fornisce contributi sostanziosi e sufficientemente obiettivi, e sembra rappresentare un promettente inizio di riflessione sul fenomeno dell’Insorgenza italiana, ma evidenzia anche un atteggiamento di fondo che si presta a non pochi rilievi.

La principale osservazione è che un po’ tutti i contributi tendano a persuadere il lettore dell’esistenza di una ricerca — e di non trascurabile spessore — sull’Insorgenza stessa, che viene data addirittura per scontata; anzi, si lascia intendere che, al suo interno, vi sarebbero articolazioni, correnti e scuole diverse, su cui peraltro s’innesterebbe al presente un tanto vigoroso quanto esecrato “revisionismo” — i cui contributi sarebbero per lo più scadenti sotto il profilo scientifico —, promosso strumentalmente da ambienti ideologizzati in senso nostalgico-reazionario e mirante a inquinare il ricupero d’identità in corso nel mondo culturale e politico italiano.

Già nel 1995 Giuseppe Galasso, uno dei maggiori storici italiani contemporanei, ha sostenuto sulle colonne della rubrica culturale del più autorevole quotidiano nazionale (4) esser “sciocchezze” le pretese di quanti lamentano che le insorgenze siano state sottoposte all’“oblio e al disconoscimento [da parte di] una gretta storiografia nazionale, liberale, democratica” (5). Al contrario — sosteneva il professore napoletano — […] i movimenti controrivoluzionari sono stati in Italia largamente studiati in opere e saggi dovuti spesso ad autori anche illustri” (6); e poi, […] nessuno ha mai disconosciuto l’”eroismo” di quelle Vandee italiane” (7). Vien da dire: altro che “sferzante giudizio” sul “revisionismo”, quale lo reputa, citandolo, Cattaneo (p. 568, nota 94)! Si tratta invece di affermazioni che, nella più benevola delle ipotesi, suonano superficiali, quando non mistificanti. Le cose stanno in realtà assai diversamente e non riesco a persuadermi che lo ignori il curatore di una delle più prestigiose collane di storia d’Italia.

L’Insorgenza non è stata per nulla “largamente” studiata. Mancano di essa tuttora quattro dimensioni essenziali. In primo luogo la ricerca e l’analisi delle fonti primarie — anzitutto documenti degli archivi civili e religiosi —, capillarmente estesa al territorio italiano, come richiede lo studio di una realtà così disaggregata e legata a fattori locali. Poi è del tutto assente un’elaborazione a livello generale delle fonti e, dunque, una storiografia di respiro nazionale sul tema. Quindi non si può nemmeno parlare di una tradizione o di una scuola storiografica, neanche di esiguo spessore, sulla quale potersi innestare. Infine — per tacere dell’informazione culturale, ossia dei mezzi di comunicazione sociale — manca il necessario “travaso” delle acquisizioni storiografiche sul piano della formazione culturale del cittadino medio, ovvero nei programmi scolastici. Non è solo in questione la mancanza di “un aggiornato quadro d’insieme”, come rileva la Rao nel saggio d’apertura (p. 326) — che non è solo colpa “della frammentazione e dispersione delle fonti documentarie degli Stati preunitari” (p. 325) —: è in questione la conoscenza tout court del fenomeno, che dipende in buona sostanza dalla non volontà di dar rilievo, nei fatti e nelle interpretazioni, a questa pagina non secondaria della biografia della nazione italiana. Forse solo per il Mezzogiorno — e concordo qui in parte con la studiosa lucana — si può parlare di una storiografia di una qualche portata: ma l’Insorgenza nell’Italia Meridionale ha avuto tratti talmente macroscopici da rendere impossibile ignorarne o affievolirne la memoria. Anche in questo caso la ricerca scientifica si è mostrata finora carente e stereotipata, almeno nelle interpretazioni, benché forse si profilino segnali di cambiamento: la prospettiva accennata nel saggio di Davis — il legame fra Insorgenza e crisi generale della monarchia borbonica — costituisce per esempio una pista di ricerca innovativa e promettente.

E prova di tale condizione è proprio il fatto che gli studiosi della rassegna, invece di limitarsi a “glossare” criticamente studi già esistenti, hanno dovuto “scavare” in archivi assai poco “battuti” e in neglette storie locali, per lo più datate, per raccogliere le informazioni offerte al lettore. Si potrebbe chiedere: dove sono gli autori, l’equivalente dei Saitta, dei Vaccarino, degli Zaghi? dove sono i testi? dove sono gli schemi esplicativi da rimettere in discussione? dov’è la “scolastica” accademica in questo àmbito? Posso personalmente testimoniare che nel 1973, quando iniziai a elaborare la mia tesi di laurea sul tema delle insorgenze nella Lombardia del 1796, al primo accostamento alla materia non riuscii a mettere insieme più di due opere di sintesi, quella di Lumbroso — del 1932, che è parziale e copre il solo Triennio Giacobino (8) — e il volume di Jacques Godechot (1907-1994) La Contre-révolution, doctrine et action (1789-1804), del 1962 — che si ferma al 1804 e che è stato tradotto in italiano solo nel 1988 (9).

Quanto non si vuole ammettere è che siamo in realtà di fronte a una oggettiva rimozione, di origine non recente e tenacemente reiterata — e rafforzata dalla gramsciana conquista dell’egemonia culturale —, di un evento che non è un banale accadimento sporadico, ma, come riconosce ancora — ma perché solo adesso? — la Rao, autrice di molteplici studi sul periodo rivoluzionario in Italia, un fenomeno che […] ebbe un ruolo centrale nella vita politica italiana alla svolta fra Sette e Ottocento, non solo, ma anche negli orientamenti dei repubblicani del triennio 1796-1799 e nella politica napoleonica, e ancor più nell’immaginario e nella riflessione storiografica dell’Ottocento. Basti ricordare il peso che avrebbe esercitato nel pensiero e nell’azione degli uomini del Risorgimento, da Mazzini a Pisacane, nel dibattito sulle vie da seguire per realizzare l’indipendenza e l’unificazione politica italiane” (p. 327) (10). Una realtà, fra l’altro, costata agli italiani, secondo una stima per difetto, in quanto limitata all’inizio del 1799 — che la studiosa del Mezzogiorno suppongo conosca, in quanto fornita da uno dei protagonisti delle vicende della Repubblica Napoletana, il generale francese Paul-Charles Thiébault — almeno sessantamila vittime (11), un dato ancora più impressionante se lo si confronta percentualmente con la popolazione dell’epoca (12) e se si pone mente che non è dovuto a qualche malaugurato evento naturale — un terremoto o un’inondazione —, ma è il prodotto di una volontà umana.

Di fronte a questa obiettiva carenza storica non mi sembra lecito, oltre tutto, squalificare i tentativi — magari anche ideologicamente orientati — di chi, con i mezzi di cui ha potuto avvalersi, non certo comparabili con quelli di cui dispone la storiografia istituzionale, ha cercato di ricostruire la fisionomia di un momento della storia italiana che, come confermano i lavori ospitati da Studi Storici, rivela sempre più nitidamente la sua portata nei fatti e nelle conseguenze.

Non si sa davvero che cosa pensare davanti a un simile “peccato” di omissione riguardo a un fenomeno sul quale non può, come minimo, non “inciampare” qualunque percorso di ricerca serio, né si vede dove possa condurre questo modo di fare storia. Che “magistero” può esercitare? Che futuro può aiutare a costruire? Quale contributo può fornire un atteggiamento scientifico non solo viziato dall’ideologia, ma tendenzialmente ostruzionistico, in un frangente nel quale l’Italia ha bisogno di ogni sforzo volto a farle ricuperare integralmente la propria memoria storica, civile e religiosa per poter così meglio ridefinire la propria identità e per formulare nuove regole con cui perseguire il “bene comune”?

Ma vi sono altri rilievi di merito, che riguardano i giudizi espressi sull’interpretazione generale dell’Insorgenza e sui contributi finora forniti dagli ambienti cosiddetti del “cattolicesimo reazionario e intransigente” (p. 326). La prospettiva delineata da Cattaneo — ovvero il “progetto di incidere nel processo di formazione di un nuovo paradigma repubblicano elaborando una nuova memoria storica nazionale, anche a partire dal recupero di ogni forma di “sanfedismo”, in quanto testimonianza di una rimpianta unità tra valori religiosi e valori pubblici, di una società organicamente “ordinata”, tradizionalista e impermeabile alle detestate ideologie liberali e di sinistra” (p. 568), che trova accoglienza da parte di testate di forze politiche conservatrici, nella fattispecie il Secolo d’Italia, e i cui prodotti confluiscono in “dizionari del pensiero forte” — sembra correttamente ricostruita e, anche se evocata in chiave tendenzialmente polemica, non si vede che cosa vi sia d’illegittimo nel “tentare di incidere” “da destra” nell’elaborazione culturale che prelude alla formulazione di un nuovo assetto repubblicano. Né che cosa vi sia d’ignobile nel rifarsi ai valori evocati, non espungendo dal curriculum del nostro Paese neppure il “sanfedismo” — forse emblema dell’omissione e della contraffazione perpetrate nei confronti dell’Insorgenza —, che certamente va valutato criticamente — e severamente, anche nei suoi aspetti meno “rosei” —, ma riguardo al quale va rifiutata la vera e propria “leggenda nera” — mostrante ogni giorno di più la corda — che è gli è stata costruita addosso nel tempo, sì che l’aggettivo “sanfedista” viene utilizzato ancor oggi più come “clava” ideologica che per designare una posizione ideale.

Riguardo invece al “revisionismo” che affliggerebbe la storiografia sviluppata nella prospettiva predetta — tendente a “sollecitare una totale riscrittura della storia italiana ed europea dal XVIII al XX secolo “dal punto di vista degli sconfitti”” (p. 367) e che viene evocata a più riprese nei vari saggi, ancora in veste di giudizio di merito e con intenti non del tutto benevoli —, occorre subito premettere che anche in questo caso una definizione comunemente accettata di questo termine non esiste. Proprio nel 1998 Ernst Nolte, il “padre” del revisionismo contemporaneo, ne ha fornito una definizione a mio avviso “aurea”, scrivendo: […] considero tratti distintivi di ogni revisionismo serio e perlomeno orientato in una direzione scientifica la critica documentata all’unilateralità e alle lacune della veduta “ufficiale” e la volontà di attenersi ad una maggiore obiettività” (13).

Se tale è il “revisionismo”, muoversi in tal senso sarebbe non solo lecito, ma doveroso. Anzi esso dovrebbe assumere quell’atteggiamento “militante”, che viene lamentato ancora da Cattaneo nei confronti dello storico cattolico maceratese Sandro Petrucci (14) — pur da lui apprezzato dal punto di vista “tecnico” —, perché renderebbe “opaco sul piano interpretativo” (p. 561, nota 82) il lavoro di ricerca. Ma non si può non domandarsi a che cosa si dovrebbe applicare nella fattispecie dell’Insorgenza la “revisione” denunciata, ovvero quali paradigmi scientifici unilateralmente invalsi si dovrebbero sottoporre a “revisione”, dato che essi non vi sono. Non che manchino “vedute ufficiali” — che affiorano per esempio quando si rompe il silenzio —, ma esse sono costituite per la gran parte da giudizi non approfonditi, derivati da orientamenti ideologici pregiudizialmente contrari, senza riscontri fattuali, resi superflui dalla maramaldesca consapevolezza che chi ne è oggetto è uno “sconfitto”, sia storico che nella “battaglia delle idee”.

Non sembra, ancora, accettabile ricondurre, come fa lo stesso studioso con un’intentio palesemente squalificante, il “revisionismo” sull’Insorgenza alle prospettive “cattolico-integralista, neo e postfascista, monarchico legittimista” (p. 567), senza fornire definizione di tali realtà. Il cosiddetto revisionismo nasce invece da un atteggiamento di domanda di verità e di obiettività e come spontanea e costruttiva reazione alla percezione di una monumentale ingiustizia inferta a uomini, nostri antenati, le cui scelte vanno giudicate e anche — se necessario — condannate, ma la cui memoria ci appartiene e che dobbiamo riscoprire e recepire con atteggiamento di profonda e amorosa pietas.

Venendo infine alla tesi secondo cui gli storici “revisionisti”, ergo “di destra”, “revisionano” tutto, ma salvano sempre e solo l’opera dello storico nazionalista e fascista Lumbroso (15), viene spontaneo domandarsi a che cosa si poteva riallacciare fattualmente chi volesse conoscere, anche solo ieri, qualcosa della reazione delle popolazioni contro la Rivoluzione francese in Italia, dato che null’altro di fatto esisteva a un primo accostamento, se non l’opera dello storico fiorentino. Ho già avuto modo di mettere in luce questo aspetto nell’introduzione alla riedizione del suo “vecchio e ben noto — ma a quanti? — studio” (p. 325) apparsa nel 1997. In tale sede mi sono altresì sforzato di non operare il minimo “ricupero” né delle prospettive storiografiche — che giudico oggettivamente insufficienti e forzate sotto il profilo ermeneutico, anche se vanno lette nel clima culturale italiano fra le due guerre mondiali — né tanto meno delle prospettive dottrinali di Lumbroso, ma di effettuare solo un’operazione di ricupero documentale. Vedo però purtroppo che il punto è stato frainteso, se Preto sostiene che la mia nota biografica e la mia prefazione al volume […] ribadiscono la prospettiva storico-politica nazionalista (risalente a Niccolò Rodolico [1873-1969])” (p. 350).

Tentando un giudizio d’insieme sui contenuti del fascicolo monografico di Studi Storici, si può osservare che, dal punto di vista delle interpretazioni i diversi studiosi sembrano essere accomunati, oltre che dal rigetto delle forzature nazionalistiche dei primi decenni del secolo, dall’esigenza di guardare al fenomeno con una visuale sempre più ampia e spregiudicata, abbandonando interpretazioni più o meno rigidamente monocausali a sfondo “infrastrutturale” — di cui potrebbe essere modello, nel caso della storia contemporanea, il gramsciano Giorgio Candeloro (1909-1988) — e muovendosi verso una visione maggiormente interdisciplinare, esigita peraltro da una realtà così complessa e disomogenea qual è l’Insorgenza. Se questo cambiamento sia un semplice tentativo di “noyer le poisson” — “annegare il pesce”, ovvero di diluire al massimo una realtà, facendole perdere sostanza —, come sembra stia accadendo riguardo ad altre tematiche (16); sia cioè frutto del prevalere di una visione “debole”, tendenzialmente portata a frammentare e a relativizzare l’interpretazione generale dell’Insorgenza, oppure segno di un progresso salutare, al momento non è possibile affermarlo. Certo, l’assenza di una sintesi di qualche spessore fra i saggi della raccolta, come pure il fatto che l’orizzonte spaziale e temporale evidenziato dagli studiosi sia sempre piuttosto ristretto, sembrerebbero far propendere per la prima ipotesi. Su tale atteggiamento maggiormente “aperto” la convergenza di studiosi di altra origine e collocazione anche militante può già fin da ora essere più ampia, soprattutto da parte di quegli studiosi che, partendo da diverse ipotesi di lavoro e rifacendosi a certa storiografia francese degli ultimi anni — per esempio a Jean Dumont, a Reynald Secher e a Jean Meyer (17) —, ritengono che l’Insorgenza vada letta all’interno della logica del processo di genesi e d’affermazione della modernità in Occidente. Uno schema esplicativo tendenzialmente portato a leggere l’Insorgenza come categoria, piuttosto che come puro fenomeno, e fondamentalmente “forte” — di qui il suo legame con il “pensiero forte” —, apparentemente monocausale, ma in realtà ampiamente sfaccettata. Una visione sufficientemente flessibile per accogliere contributi diversi e più idonea a cogliere la verità di un fenomeno storico multiforme, che, servata distantia, presenta analogie con una realtà di un’altra epoca, il comune medievale, il quale si origina spesso per ragioni le più diverse, non in maniera sincrona nello spazio, ma si afferma più o meno nella stessa epoca in tutto il continente europeo.

Nella massa dei dati proposti è possibile cogliere anche spunti e stimoli meritevoli di ulteriori approfondimenti. Per esempio, la ricerca di Tosi sul Viva Maria! fa scoprire che, anche fra i contro-rivoluzionari, non erano assenti prospettive di mutamento dello status quo e di ricongiunzione alle forme socio-politiche precedenti le riforme illuministiche dei prìncipi settecenteschi. Ancora, lo stesso studio, forse nell’ottica di superare la visione delle “masse” contadine come soggetto indistinto e monolitico, contiene un primo tentativo di biografia di un leader contro-rivoluzionario — quella del marchese Albergotti —, che può costituire un valido esempio per analoghe ricerche.

La rassegna edita dall’Istituto Gramsci presenta anche contenuti, espliciti o impliciti, meno felici.

In primo luogo si rileva in pressoché tutti gli studi una pregiudiziale aprioristicamente negativa verso la componente religiosa nella genesi e nello svolgimento dei vari episodi d’insorgenza, che si traduce nella sua pratica espunzione oppure nella sua “riduzione” o nel suo appiattimento sociologico. Se è vero che il fattore religioso non è stato sempre l’unico movente delle reazioni popolari, è altresì indubbio che esso è sempre e ovunque presente e trascurarlo, oppure posporlo a realtà apparentemente “più profonde”, significa non tener conto dell’assoluta primarietà delle credenze e dei riti nella cultura ancora omogeneamente cristiana delle popolazioni della Penisola alla fine del Settecento, elaborando così interpretazioni quanto meno inadeguate.

Dalla lettura dei diversi saggi, ma soprattutto di quello introduttivo, non emerge poi un aspetto importante dell’Insorgenza italiana, ovvero la sua appartenenza a un quadro europeo. Nel periodo napoleonico la resistenza popolare contro i francesi in difesa delle tradizioni religiose e civili si manifesta in tutte le nazioni cattoliche, all’improvviso esposte a un processo di modernizzazione e di secolarizzazione ad alta intensità, non “preparato”, come altrove, dalla Riforma. Dal Belgio alla Spagna, alla Svizzera, fino all’isola di Malta, ovunque la Rivoluzione francese avanza dietro le armi napoleoniche, le popolazioni, i ceti umili, si sollevano, rialzano i simboli religiosi e le insegne delle “piccole patrie”, dando vita a sollevazioni, come quella spagnola, di vasta portata. Non dare sufficiente rilievo a questa dimensione transnazionale, trascurando gli studi — unici a tracciarne il profilo, anche se in maniera incompleta — di Godechot, significa menomare la possibilità di comprendere adeguatamente l’Insorgenza italiana, rischiando di ridurla a una ripresa di “beghe” fra municipi in perenne e atavico conflitto. A questo riguardo, mentre va osservato che le lotte campanilistiche trovano nuovo vigore — come ha messo in rilievo Petrucci (18) — proprio in conseguenza dello sconvolgimento di equilibri plurisecolari a opera della “totale organizzazione” (19) della società del tempo attuata dalle repubbliche giacobine — nella fattispecie dalla Repubblica Romana —, non si può non ricordare come, almeno per l’Insorgenza nell’Italia Centrale del 1798-1799, non ci si trovi affatto di fronte a episodi — anche numerosi, ma del tutto particolaristici e scoordinati fra loro — di difesa della “piccola patria”, ma si manifesti invece una embrionale unità d’intenti e di lotta fra gl’insorgenti.

Tralascio ogni considerazione sulla liceità — che non viene mai posta in dubbio nella raccolta — da parte della Repubblica Francese di aggredire, di spogliare e di “democratizzare”, violando diritti costituiti plurisecolari, Stati neutrali e pacifici, come pure dell’esproprio di risorse finanziarie e di tesori artistici, cui i francesi sottopongono nel Triennio i popoli italiani. Osservo invece che, mentre nel panorama delineato affiora in più punti la denuncia della “bestiale ferocia” degl’insorgenti — che non è assolutamente né ordinaria, né generalizzata: se ad Arezzo nel 1799 vengono uccisi e bruciati tredici ebrei, nell’insurrezione di Pavia del 1796 i cinquemila contadini insorti non provocano una sola vittima, né fra i giacobini, né fra i francesi —, non emerge sufficientemente, o forse non emerge affatto, quanto brutale siano state la repressione e le rappresaglie perpetrate dai francesi — ma anche dalle milizie cisalpine e “italiche”, evocando immagini di diversi e più recenti collaborazionismi — contro una popolazione il più delle volte inerme. Le loro vittime sono forse da considerare ovvi e dovuti “contributi” al “riscatto” delle popolazioni italiane? Che cosa pensare dell’assordante silenzio sulle sofferenze dei tanti minores — perché privi della cultura riflessa e dei mezzi per far conoscere le proprie ragioni — e il rilievo tributato ad avvenimenti oggettivamente insignificanti, ma di diverso segno “politico”? Si tace delle migliaia di morti dell’Insorgenza a Milano, a Pavia, a Verona, a Lugo di Romagna, a Firenze, a Roma, a Napoli, in Abruzzo, nelle Calabrie e si assorda invece il cittadino con quelle, pur reali, ma incomparabilmente più lievi, per far un esempio, dei “quattro” “martiri dello Spielberg”. Eppure la fase finale dell’Insorgenza precede solo di pochi anni quest’ultima vicenda.

In conclusione, se il numero monografico di Studi Storici rappresenta, com’è lecito credere, una “galleria” delle ultime tendenze della ricerca — almeno di una certa “scuola”, ma non poco significativa — in merito alle insorgenze popolari nel periodo napoleonico, se ne trae l’impressione e l’auspicio che la storiografia sul tema esca finalmente dalla minorità e si avvii verso una maggiore consapevolezza. Soprattutto pare che l’Insorgenza abbia trovato spiragli d’interesse in una parte del mondo accademico. È questa, se non l’unica, almeno la via decisiva per giungere a una conoscenza adeguata del fenomeno. L’importante è che questo interesse non venga inquinato e fuorviato dalle sopravvivenze ideologiche — magari travestite da pensiero “debole” —, e che iniziative private o non istituzionali, invece di essere declassate o combattute, trovino incremento e sostegno da parte di chi è istituzionalmente preposto a “fare storia” e a promuovere la cultura. La prossimità della ricorrenza del secondo centenario della fase clou dell’Insorgenza italiana e della sua, anche se temporanea, vittoria, il 1799 — in vista della quale va senz’altro collocata l’iniziativa realizzata da Studi Storici —, può essere un’opportunità da non perdere.

Oscar Sanguinetti

***

(1) Cfr. Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, numero monografico di Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 39, n. 2, aprile-giugno 1998, pp. 325-622, Dedalo, Bari 1998. Tutti i riferimenti senza rimando sono tratti da questo volume e la paginazione è indicata fra parentesi.

(2) La rassegna contiene alcune affermazioni inesatte sullo storico Giacomo Lumbroso (1897-1944), che viene detto attivo “agli inizi di questo secolo” (p. 376), il che pare difficile, essendo egli nato nel 1897, e definito […] un intelligente conservatore di matrice positivista che ci ha lasciato alcune ricerche assai ben documentate sulle insorgenze antinapoleoniche nella pianura padana” (ibidem). A riguardo, mentre è condivisibile il giudizio relativo all’“intelligente conservatore”, non è evidente da dove si possa dedurre una matrice positivista in Lumbroso; né sono note ricerche “assai ben documentate” dello stesso sulla pianura padana, avendo egli trattato tale argomento nel quadro della sua — peraltro unica — opera di sintesi I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800) (2a ed. rivista, a cura di Oscar Sanguinetti, Minchella, Milano 1997; 1a ed., Le Monnier, Firenze 1932; cfr. la recensione di Paolo Martinucci, in Cristianità, anno XXVI, n. 277, maggio 1998, pp. 24-26), dedicata alle insurrezioni dell’intera Penisola, nella quale dà invece più spazio, come doveroso, all’Insorgenza nell’Italia Centrale e nel Regno di Napoli.

(3) Cfr. Giuseppe Ricuperati, Il Settecento, in Pierpaolo Merlin, Claudio Rosso, Geoffrey Symcox e Giuseppe Ricuperati, Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, in Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, UTET, Torino 1994, vol. VIII*, pp. 441-834.

(4) Cfr. G. Galasso, Un’eroica Vandea non si nega a nessuno, in Corriere della Sera, 13-9-1995; cfr. anche ISIN. Istituto per la Storia delle Insorgenze, Perché l’attenzione all’Insorgenza, comunicato del 2-12-1996, in Cristianità, anno XXIV, n. 260, dicembre 1996, p. 6.

(5) G. Galasso, art. cit.

(6) Ibidem.

(7) Ibidem.

(8) Cfr. G. Lumbroso, op. cit.; tale tesi è all’origine del mio Le insorgenze contro-rivoluzionarie in Lombardia nel primo anno della dominazione napoleonica. 1796, con una prefazione di Marco Tangheroni, Cristianità, Piacenza 1996; cfr. recensione di Marco Invernizzi, in Cristianità, anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 26 e 30.

(9) Jacques Godechot, La contre-révolution, doctrine et action (1789-1804), PUF, Parigi 1961, trad. it. sulla 2a ed. francese, La controrivoluzione. Dottrina e azione (1789-1804), Mursia, Milano 1988.

(10) Viene irresistibile chiedere: ma in quale liceo o aula accademica s’insegna, non solo che Giuseppe Mazzini (1805-1872) si sia posto il problema delle insorgenze del periodo napoleonico nel quadro della sua elaborazione teorica, ma che esse siano esistite tout court? La stessa Rao, in un precedente studio — Mezzogiorno e rivoluzione: trent’anni di storiografia, in Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 37, n. 4, ottobre-dicembre 1996, pp. 981-1041 —, ha avuto modo di farsi portavoce della tesi di Galasso nel contesto della valutazione — peraltro incidentale — di un breve profilo delle Insorgenze contro-rivoluzionarie da me tracciato e comparso nel volume collettaneo Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 1994, pp. 373-407). E la valutazione risulta del seguente tenore: mentre le mie poche righe vengono rubricate sotto la voce […] impudenti ricorrenti recriminazioni dei reazionari di turno prontamente recepite e amplificate dai mezzi di comunicazione su un’insorgenza negletta e incompresa” (ibid., p. 1010), a carico di chi scrive viene detto che […] solo l’incoscienza può spingere a spaziare in poco più di trenta pagine dalla Vandea del 1793 al Messico del 1926, e solo l’ignoranza può sorreggere nell’affermazione che il fenomeno delle insorgenze popolari controrivoluzionarie sia stato fino a non molti anni fa […] poco esplorato in ambiente di ricerca” (ibid., nota 108). A riguardo mi limito solo a rilevare il tono alquanto scomposto della reazione della docente mentre, sotto il profilo sostanziale, mi permetto di osservare che esistono sintesi di poche pagine riguardo a periodi e a fenomeni storici ben più ampi. Come ben sa, il “taglio” del contributo dipende dal contesto in cui deve situarsi e non sempre l’autore può sceglierlo; anzi, ritengo che le sintesi, per di più del respiro di un articolo di rivista, siano fra le modalità espressive più difficili. O forse il mio contributo, così esiguo, ha acutizzato, traducendolo in un improvviso e violento accesso, l’idiosincrasia per le interpretazioni “unitarie” dell’Insorgenza da cui la professoressa Rao sembra essere affetta? Mi sfugge invece totalmente come la studiosa abbia potuto riscontrare che le tesi dei “reazionari” vengano prontamente recepite e amplificate dai mezzi di comunicazione: a me pare, al contrario, che le poche volte in cui viene rotto il silenzio da parte dei mass media sui “reazionari” — e si veda proprio la sortita di Galasso sopra ricordata e peraltro reiterata in successiva occasione — è quando occorre parlarne per “batterne in breccia”, facendo sparare magari “cannoni” di grosso calibro, le argomentazioni e le azioni. Last but not least, non rilevo fra quelli addotti dalla studiosa alcun elemento che imponga di rivedere la mia asserzione, e devo quindi ribadirla, soprattutto alla luce dei primi risultati di ricerche che l’ISIN, l’Istituto per la Storia dele Insorgenze, ha promosso relativamente all’Italia Settentrionale. Anzi, il dotto e nutritissimo studio bibliografico della Rao sulla Rivoluzione nel Mezzogiorno d’Italia rafforza ulteriormente la mia convinzione, quando confronto l’esiguità dei riferimenti a opere dedicate alla maggiore delle insorgenze della Penisola, quella del Regno di Napoli — mentre si afferma contraddittoriamente che occorre […] comprendere […] come mai tanto ampie e diffuse furono le resistenze e le reazioni popolari contro i francesi e i loro sostenitori “giacobini”” (ibid., p. 997) —, con la dovizia dei titoli relativi alla Rivoluzione.

(11) Cfr. Generale Paul-Charles Thiébault, Mémoires du Général Baron Thiébault publiées sous les auspices de sa fille M.lle Claire Thiébault d’après le manuscript original par Fernand Calmettes, Parigi 1893-1895, vol. II, p. 325.

(12) Cfr. Athos Bellettini (1921-1983), La popolazione italiana. Un profilo storico, a cura di Franco Tassinari, con un’introduzione di Marino Berengo, Einaudi, Torino 1987, che valuta la popolazione a circa 15,5 milioni nel 1750 e a circa 18 milioni nel 1800 (cfr. tabella I, p. 14).

(13) Ernst Nolte, Verità e leggenda del revisionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, anno II, n. 5, settembre-ottobre 1998, Luni, Milano 1998, p. 11.

(14) Il riferimento è a Sandro Petrucci, Insorgenti marchigiani. Il Trattato di Tolentino e i moti antifrancesi del 1797, con una prefazione di M. Tangheroni, SICO, Macerata 1996; cfr. la recensione di Francesco Pappalardo, in Cristianità, anno XXIV, n. 259, novembre 1996, pp. 25-26.

(15) Cfr. alcune notizie sulla vita e l’opera di Lumbroso in O. Sanguinetti, saggio introduttivo a G. Lumbroso, op. cit.

(16) Cfr., a riguardo, Alberto Indelicato — cui per inciso debbo l’efficace espressione “noyer le poisson” —, Revisionismo e giustificazionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, cit., pp. 143-150.

(17) Cfr. Jean Dumont, I falsi miti della Rivoluzione francese, con una prefazione di Giovanni Cantoni, trad. it., Effedieffe, Milano 1989; Reynald Secher, Il genocidio vandeano, con una prefazione di Jean Meyer e una presentazione di Pierre Chaunu, Effedieffe, Milano 1989; e Jean Meyer, La Cristiada, 4a ed. riveduta, 3 voll., Siglo Ventuno, Mexico-Madrid-Buenos Aires 1976.

(18) Cfr. S. Petrucci, L’insorgenza nell’Italia Centrale negli anni 1797-1798, in Nota informativa (dell’Istituto per la Storia delle Insorgenze di Milano), anno II, n. 8, gennaio-aprile 1998, pp. 7-24.

(19 ) Ibid., p. 13: l’espressione è tratta da un documento “romano” dell’epoca.

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1. Premessa

Il numero di aprile-giugno del 1998 di Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, di Roma, è interamente dedicato a Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica (1).

Il fascicolo, che si apre con il saggio Introduzione. La questione delle insorgenze italiane (pp. 325-348) di Anna Maria Rao — professore ordinario di Storia Moderna nell’università di Napoli Federico II, membro del comitato di direzione della rivista e coordinatrice dell’iniziativa —, presenta un insieme di monografie di studiosi di varia estrazione — anche se di comune orientamento —, dedicate a episodi e a momenti particolarmente significativi delle insorgenze popolari, verificatesi in Italia nel periodo del dominio napoleonico, fra il 1796 e il 1815.

L’ordine di presentazione è quello geografico. S’inizia infatti con uno studio sulle insorgenze delle province lombarde già sotto dominio veneto, per proseguire con un saggio volto a individuare tratti comuni fra l’insorgenza veronese del 1797 — le cosiddette Pasque Veronesi — e fenomeni coevi simili, a sfondo sociale, verificatisi nel Regno di Sardegna. Seguono uno studio sui moti agrari del Piemonte Meridionale nel 1797 e due saggi rispettivamente dedicati all’insorgenza ligure del 1797 e a quella romagnola del 1796-1797. La rassegna include poi l’analisi di alcuni aspetti di quelle che possono essere considerate le manifestazioni più significative e complesse della resistenza italiana contro la Rivoluzione francese, ovvero il movimento del Viva Maria! in Toscana, l’insorgenza del Lazio — comprendente anche un esame della politica di Papa Pio VII (1799-1821) nei confronti degl’insorgenti dopo la fine della Repubblica Romana e il ritorno del Pontefice a Roma — e la grande rivolta sanfedista nel Regno di Napoli, tutte del 1799.

2. Esposizione

Nello studio introduttivo la Rao mette anzitutto in rilievo l’ampiezza delle “resistenze e insurrezioni contro la rivoluzione e la repubblicanizzazione della penisola” (p. 330), individuandone le cause in motivazioni di medio e di lungo periodo — la crisi economico-sociale della seconda metà del secolo XVIII, la limitazione delle proprietà ecclesiastiche e le conseguenti ripercussioni sulle tradizionali forme d’assistenza, la riduzione delle autonomie locali, l’attaccamento alle tradizioni religiose, minacciate dal riformismo illuministico e dalla Rivoluzione — e in motivi più immediati, legati alle circostanze dell’invasione e dell’occupazione francesi. Si sofferma quindi su due elementi — “la diffusione delle insorgenze sull’insieme del territorio nazionale” (p. 331) e l’assenza di una conflittualità di classe fra contadini “sanfedisti” e borghesia “giacobina” — che ribaltano alcuni luoghi comuni della storiografia, per concludere che […] dai saggi che si presentano l’insorgenza emerge in tutta la sua irriducibile complessità di fenomeno fortemente differenziato nello spazio e nel tempo” (p. 341).

Lo studioso vicentino Paolo Preto — professore ordinario di Storia Moderna nell’università di Padova — ricostruisce in Le valli bergamasche e bresciane fra democratizzazione e rivolta antigiacobina (pp. 349-365) gli avvenimenti del 1797 nelle province venete più occidentali, dalla dichiarazione di neutralità del governo veneziano e dalla sollevazione di nuclei giacobini prima a Bergamo e poi a Brescia — entrambe “democratizzate” con la forza — all’invasione francese del territorio della Repubblica di Venezia, ai soprusi dell’occupazione e alla forzata inerzia delle truppe di San Marco, alla montante collera dei contadini, che esplode nel marzo del 1797. In quel mese le valli bergamasche — Seriana, Cavallina, Gandino e altre — e quelle bresciane — Camonica, Trompia e Sabbia —, unitamente alle popolazioni della riviera gardesana occidentale — in particolare della zona di Salò, un tempo indipendente —, dopo solenni giuramenti formulati nel corso delle tradizionali assemblee comunitarie, si sollevano coralmente contro le città “rivoluzionate” fino a scontrarsi con le neonate milizie “italiche” e con i francesi, dopo aver coltivato inizialmente l’illusione di regolare i conti con i giacobini nella neutralità dell’esercito occupante. Fa parte del quadro anche la cruda repressione perpetrata dalle truppe franco-bresciane — rinforzate da volontari accorsi da altre città italiane, come per esempio Pavia, di recente “democratizzate” — contro i contadini insorti: oltre al cannoneggiamento di Salò dalla parte del lago, vi sono, come rappresaglia, il saccheggio e l’incendio di diversi borghi della montagna bresciana, quali Nozza, Vestone, Barghe e Lavenone. Nel saggio, corredato da una ricca bibliografia, rimangono in ombra i moventi religiosi dell’insurrezione, mentre, fra le cause, viene dato il massimo risalto al legittimismo e alla difesa degli statuti locali da parte delle comunità rurali, preoccupate di perdere autonomia di fronte al nuovo regime a prevalente base cittadina. Nella parte finale dello studio Preto, ampliando la visuale all’insieme dei territori veneti, ritiene di diluire ulteriormente la caratterizzazione ideologica dell’insorgenza esaminata, ponendo l’accento sulla cronicità dei tumulti a sfondo annonario, antifeudali e contro il governo, verificatisi nelle province venete durante il Settecento, ma non sottovaluta il carattere politico dei moti del 1797: le popolazioni — scrive — […] questa volta non tumultuano per la fame ma per difendere le loro autonomie” (p. 365), ovvero l’antico regime nel quale hanno vissuto per secoli.

L’accento sul tema economico-agrario è posto anche da Gian Paolo Romagnani — ricercatore all’università di Verona, docente di Storia della Storiografia — in un saggio che, nonostante il titolo — Dalle “Pasque veronesi” ai moti agrari del Piemonte (pp. 367-399) —, è dedicato esclusivamente ai moti veronesi del 1797 e solo nelle conclusioni ipotizza — riferendosi però ad altri studi — un’unica matrice per le insorgenze dell’Italia Settentrionale durante il Triennio. Dopo una sintesi delle linee storiche e politiche dell’invasione francese dell’Alta Italia, il saggio traccia un profilo — includente anche una rassegna della storiografia sulla vicenda dall’Ottocento a oggi (2) — dell’insurrezione veronese, ricondotta alla crisi agricola che caratterizza il Veneto alla fine del Settecento e alle tensioni sociali che ne derivano, acuite entrambe dalla rapace presenza delle armate francesi. La tesi di fondo è l’esistenza di cause di un disagio economico-sociale generale, che si esprime in moti antifrancesi dove sono presenti le armi straniere e si scaglia invece contro le autorità tradizionali, la monarchia e i feudatari, dove i francesi sono assenti — o solo parzialmente presenti, a presidio di città sedi di fortezze —, come nel caso del Piemonte dopo l’armistizio di Cherasco dell’aprile del 1796. Romagnani ammette peraltro che una lettura politica dei moti piemontesi sarebbe fuorviante, essendo prodotto di una pluralità di fattori, e che in Italia[…] i moti agrari sono una conseguenza diretta della guerra” (p. 398), ovvero dei contraccolpi arrecati dalla stessa a una situazione economico-sociale già critica. Con ciò ricollega quindi le insorgenze piemontesi del 1797 ai drammatici mutamenti indotti non da riforme di struttura, ancora da realizzare, ma dalla guerra rivoluzionaria condotta dall’armata francese, con le sue sfrenate requisizioni militari e con il suo inaudito drenaggio di risorse finanziarie, oltre che artistiche e religiose. Il ventaglio delle cause viene ampliato, considerando pure che “caratteristica del caso italiano è […] l’insofferenza di molti centri minori nei confronti dei centri maggiori” (ibidem) e che “non va infine trascurato il fattore psicologico […] nel determinare il comportamento delle masse” (p. 399). Lo studio contiene anche un parallelo fra la Vandea francese e l’Insorgenza italiana, attribuito soprattutto agli ambienti che hanno celebrato il bicentenario della seconda; ma parallelo alquanto avventato, perché riconosce alla Vandea connotati di rivolta sociale e all’Insorgenza italiana una minore rilevanza rispetto alla prima.

Al Piemonte è dedicato anche l’ampio saggio di Blythe Alice Raviola — dottoranda in Storia della Società Europea all’università di Torino —, Le rivolte del luglio 1797 nel Piemonte meridionale (pp. 401-447), che, partendo dagli studi di Giuseppe Ricuperati (3) e grazie a un’accurata ricerca d’archivio, ricostruisce capillarmente i tumulti e i veri e propri moti che, a causa del rincaro dei prezzi dei generi alimentari di base, oppone le comunità di villaggio del Piemonte Meridionale — il Cuneese e l’Astigiano, con propaggini nell’Alessandrino e nel Monferrato — alle autorità sabaude e ai feudatari locali. Lo studio rivela episodi e aspetti poco noti della vicenda e si situa su una linea interpretativa decisamente socio-economica, che però tiene equilibratamente conto dell’autentica portata dei moti, nonché della difficoltà dell’”innesto” delle avanguardie giacobine piemontesi sulle popolazioni insorgenti, la cui ricezione delle parole d’ordine rivoluzionarie è limitata e che conservano una sostanziale fedeltà alla monarchia e al regime signorile.

Sulle rivolte di Genova e delle valli liguri orientali — Bisagno, Sturla, Aveto, Fontanabuona, Vara e Magra, con propaggini in Val Trebbia e nei feudi imperiali verso la Val Scrivia e l’Alessandrino —, che si manifestano a due riprese, rispettivamente nel maggio-giugno e nell’agosto-settembre del 1797, verte il saggio di Giovanni Assereto — professore associato di Storia Moderna nell’università di Genova — I “Viva Maria” nella Repubblica ligure (pp. 449-471). Più che a descrivere i fatti il saggio sembra inteso a evidenziare e ad affrontare le questioni suscitate dalla reazione della popolazione ligure, mettendo in luce la diversità fra la prima fase dei moti e quella, più intensa e significativa, che segue alla promulgazione della costituzione democratica. L’ipotesi della sobillazione nobiliare e clericale non viene esclusa, ma viene ridimensionata rispetto alla forza con cui tale ipotesi fu avanzata dai francesi e poi da numerosi storici “progressisti”, dimostrando come i processi susseguenti alla repressione non individuino né puniscano alcun nobile o prelato, benché i giacobini tornati al potere instaurino un “clima da caccia alle streghe” (p. 465) e ne abbiano i mezzi e l’intenzione. Viene anche discusso il legame, ipotizzato da alcuni studiosi, con la rivolta antiaustriaca del 1746 — quella di Giovanni Battista Perasso (1729-1781), detto “Balilla” —, nonché il carattere collettivo e corale — le autorità locali si pongono alla testa delle colonne di insorgenti — messo in evidenza dalle rivolte delle valli. Altri nodi affrontati sono il differente atteggiamento fra Levante e Ponente — quest’ultimo tanto fedele alla Repubblica ligure da proporre d’inviare proprie milizie per reprimere l’Insorgenza nel Levante —; la sostanziale refrattarietà popolare all’ideologia rivoluzionaria francese e la violenta avversione al giansenismo — particolarmente accentuata nella zona di Sarzana —, dopo la breve esperienza delle riforme religiose ispirate a mons. Scipione de Ricci (1741-1809), vescovo di Pistoia e di Prato; infine, la breve durata del moto e lo stato di endemica agitazione nelle campagne, che si protrae fino agli anni del Regno napoleonico. Esemplare è il caso di Val Fontanabuona, nell’entroterra di Chiavari, che verrà definita dai francesi la Vandea ligure. Il saggio di Assereto è d’intonazione senz’altro diversa rispetto ai primi della raccolta, perché vi sembrano meno operanti pregiudiziali teoriche. La sua condivisibile conclusione è che l’insorgenza ligure sarebbe stata una reazione difensiva, scatenata dall’intera gamma di realtà raccolte comunemente sotto il nome di Antico Regime — che nella Repubblica di Genova era rimasto sostanzialmente immune da riforme “illuminate” —, di fronte a un tentativo di modernizzazione troppo rapido e dalle modalità disorientanti, come nel caso della missione dei preti “patriottici” giansenisti nelle valli.

Il quadro che Valentino Sani — dottorando in Storia della Società Europea nell’università statale di Milano — in Le rivolte antifrancesi nel Ferrarese (pp. 473-494) traccia degli accadimenti nel Ferrarese e nella Bassa Romagna ha il pregio di spingersi fino agli anni del Regno napoleonico e ai fatti del 1809. Mentre emerge chiaramente che, dal momento dell’invasione fino alla caduta della dominazione francese, la zona non conosce soste nell’agitazione popolare, di essa si possono individuare quattro fasi ad “alta temperatura”: le insorgenze dell’estate del 1796, la più nota e sanguinosa delle quali è quella di Lugo, che coinvolge anche Argenta e Cento; la sollevazione generale del 1799, al momento della temporanea espulsione dei francesi dall’Italia a opera delle truppe imperiali e russe, che vede la partecipazione di milizie d’insorgenti all’assedio di Ferrara e la conquista di Pontelagoscuro, importante emporio padano; le rivolte contro la coscrizione obbligatoria del 1802-1803 e del 1805, quest’ultima culminata nella sommossa del borgo padano di Crespino, che Napoleone Bonaparte (1769-1821) reprime in modo particolarmente pesante; e, infine, i moti nelle campagne conseguenti alla grande insorgenza tirolese del 1809, che interessano ampie aree della Valle Padana. La repressione in quest’ultima è assai sanguinosa, con 63 condanne a morte per “brigantaggio”. L’ampio apparato critico comprende anche riferimenti a non pochi documenti d’archivio. Per Sani, il Leitmotiv delle insorgenze ferraresi — peraltro “fenomeno [non] valutabile in maniera univoca e omogenea” (p. 476) — sarebbero le croniche rivalità fra i municipi e la rivendicazione di privilegi e di autonomie locali, aggravate da disagi e da conflitti sociali originati da problemi economici.

All’insorgenza toscana del Viva Maria!, del 1799-1800, è dedicata la ricerca condotta da Claudio Tosi Il marchese Albergotti colonnello delle bande aretine del 1799 (pp. 495-531). Dopo una breve ma utile rassegna della storiografia in argomento — senz’altro fra le meno esigue, confrontabile solo con quella relativa alla Santa Fede nel Regno di Napoli —, Tosi sostiene che non ci si debba concentrare oltre misura sugli aspetti economici e sociali dell’Insorgenza toscana, ma piuttosto, come le più recenti tendenze storiografiche sembrerebbero confermare, dare — o ridare — spazio all’analisi di tematiche meno “tangibili”, come la sfera della psicologia e delle credenze religiose, il sentimento d’identità collettiva, la mentalità e la sensibilità delle diverse e riccamente differenziate componenti della società d’Antico Regime, come pure vanno approfondite le cause politiche, nel duplice aspetto strategico-internazionale e tattico-locale. In particolare andrebbe intensificata l’indagine sul ceto dirigente di un’insorgenza che presenta caratteri — per la durata e l’estensione, nonché per la presenza di un’élite dirigente non improvvisata — nettamente diversi da quelli di altri movimenti. In questa prospettiva si situa la ricerca condotta da Tosi sulla figura del marchese Giovan Battista Albergotti (1761-1816), leader del moto aretino. Attraverso la ricostruzione della biografia del marchese e di alcuni membri della sua antichissima famiglia — quasi completamente schierata in quegli anni contro la Rivoluzione: solo un membro sceglie infatti la militanza giacobina —, come il fratello Agostino (1755-1825), divenuto poi vescovo della sua città, lo storico si propone d’inquadrare il comportamento della classe dirigente del Viva Maria!, nonché gli eventi di cui essa fu protagonista e le ragioni delle diverse scelte politiche e militari che dovette fare, rilevandone aspetti sicuramente sconosciuti, che arricchiscono e illuminano l’intera vicenda dell’Insorgenza. Emergono così, fra l’altro, l’accortezza politica e l’abilità militare del nobile toscano, nonché le doti umane e cristiane che conducono il governo provvisorio aretino, e poi toscano, da lui presieduto a instaurare rapporti da tempo sconosciuti fra potere e popolo, fra autorità sociali e ceti umili. Lo studio è munito di un nutrito apparato di note, che fanno riferimento a una varietà di fonti, fra cui l’archivio della famiglia Albergotti.

Le premesse, le origini e le vicende delle insorgenze a Roma e nello Stato Pontificio negli anni 1798-1799 costituiscono l’oggetto del saggio di Massimo Cattaneo — dottore di ricerca presso l’università di Napoli Federico II — L’opposizione popolare al “giacobinismo” a Roma e nello Stato pontificio (pp. 533-568). In un rapido schizzo viene descritta in esordio la “battaglia delle idee” combattuta dagli ambienti pontifici ed ecclesiastici romani contro la Rivoluzione francese, anche se di questa propaganda si esagera alquanto la finalità, definita “terroristica”, e sopravvalutata forse la portata, soprattutto se si pensa alla massiccia e pluridecennale operazione di propaganda messa in campo dall’avversario. L’efficacia della “profilassi” poliziesca, attuata dal governo di Papa Pio VI (1775-1799), contro le infiltrazioni giacobine fomentate dagli agenti diplomatici francesi in vista di un rivolgimento autoctono e in preparazione a una possibile invasione francese, si vede però nel fatto che i nuclei giacobini a Roma ammettono[…] nel 1797 di poter contare in città su non più di settecento simpatizzanti, di cui solo sessantotto pronti a rischiare personalmente in un eventuale tentativo rivoluzionario” (p. 538). Particolarmente interessante è la descrizione — anche attraverso la poesia popolare, utilizzata per veicolare princìpi contro-rivoluzionari — della mentalità e dei costumi religiosi della popolazione del rione Trastevere, che sarà l’epicentro del moto del 25 febbraio 1798. Lo svolgimento di questo viene ripercorso tanto nella dinamica dei fatti quanto nelle cause immediate, quanto, infine, nelle modalità di soffocamento e di punizione adottate dai francesi e sfociate in decine di fucilazioni, non tutte comminate da tribunali e per di più eseguite con modalità nuove, cioè senza cornice religiosa, che contribuiscono a sconcertare e a irritare ulteriormente il popolo romano. Il saggio contiene una rassegna della storiografia sull’Insorgenza nei territori pontifici, che ha inizio nel Montefeltro e nelle Marche addirittura al principio del 1797, al momento del primo impatto bellico fra la Repubblica Francese e lo Stato della Chiesa, e massimo sviluppo nel 1799, anno in cui l’Insorgenza nel Basso Lazio si collega, anche se non organicamente, al Viva Maria!, a quella nell’Umbria e al sanfedismo napoletano.

Marina Caffiero — professore associato di Storia Moderna nell’università di Roma La Sapienza — in Perdòno per i giacobini, severità per gli insorgenti: la prima Restaurazione pontificia (pp. 569-602) riporta alla luce aspetti poco noti del periodo rivoluzionario e napoleonico nei domini pontifici. Lo studio — documentato anche con reperti d’archivio — tratta infatti della politica attuata dal governo romano, dopo la restaurazione pontificia del 1800, nei confronti dei partecipanti alla vicenda della Repubblica Romana del 1798-1799 e dell’atteggiamento tenuto dal medesimo verso i conati d’insorgenza che caratterizzano gli Stati del Papa fra l’inizio del secolo e il momento della nuova conquista francese, fra il 1807 e il 1808. Nel primo caso, si palesa un atteggiamento di clemenza che, nonostante gli ammonimenti dei contro-rivoluzionari non occasionali, sfocia in una serie di misure che si spingono fino a reintegrare non solo nei diritti civili ma anche negli uffici o, addirittura, a promuovere a incarichi di responsabilità i protagonisti e i leader giacobini degli anni della repubblica e della guerra civile del 1798-1799. Misure tanto impegnative e indiscriminate che vengono lette come espressione di una condizione di debolezza, peraltro reale a causa della situazione internazionale, caratterizzata dalla forte pressione francese sullo Stato della Chiesa dopo il riaprirsi del conflitto con il confinante Regno borbonico. Nella prospettiva di ristabilire la pace sociale e di stornare da Roma una seconda invasione — poi comunque subita — il vertice romano preferisce mostrarsi acquiescente e collaborativo oltre misura con i francesi e allearsi con gli ex giacobini contro quanti mettevano a repentaglio la sopravvivenza dello status quo, ovvero, da un lato — in accordo con la politica di Parigi —, reprimendo gli elementi più enragés o anarchistes fra i rivoluzionari italiani, dall’altro lato combattendo gl’insorgenti dei vari dipartimenti e le formazioni del ribellismo endemico — il cosiddetto “brigantaggio” —, venutesi a costituire nello scenario di disordine e d’instabilità sociale degli anni napoleonici. Dopo un prodromo in provincia di Frosinone nel 1801, le insorgenze popolari riprendono e si moltiplicano nel 1806 in sintonia e in prossimità della seconda insorgenza generale del Regno di Napoli, riesplosa in grande stile dopo l’occupazione napoleonica. Il governo pontificio giunge a istituire una congregazione speciale con compiti di controllo e di repressione dei movimenti popolari: di essa fanno parte sia elementi antigiacobini sia, significativamente, i maggiori e più noti esponenti del giacobinismo laziale, che si trovano così a giudicare talvolta persone già schierate sul fronte loro opposto nei moti di otto anni prima. L’esame degli atti di questa commissione getta luce su aspetti poco noti della vicenda, sui moventi e sull’appartenenza sociale degl’insorgenti. Tutti questi dati rafforzerebbero la tesi della studiosa secondo cui l’insorgenza laziale, più che esser letta come conflitto a sfondo religioso o puramente economico, andrebbe collocata nel quadro di cronico scontro municipalistico e campanilistico, clientelare e parentale, che caratterizza l’Italia e gli Stati pontifici e che si riacutizza a causa dei problemi indotti dall’occupazione francese.

La panoramica dell’Insorgenza italiana termina con Rivolte popolari e controrivoluzione nel Mezzogiorno continentale (pp. 603-622), una sintesi della reazione popolare nel Regno borbonico tracciata da John A. Davis, del Dipartimento di Storia dell’università del Connecticut. Già noto per altri studi sul medesimo soggetto e buon conoscitore delle fonti storiografiche italiane, anch’egli propende per un’interpretazione dell’Insorgenza meridionale che vada oltre le pure ragioni di ordine economico, spostando il fuoco della ricerca sul mutamento indotto, sovente a forza, nella società di Antico Regime e tenendo conto della grave crisi della monarchia napoletana, che sarebbe all’origine anche dell’opzione di alcuni maggiorenti per la Rivoluzione, allo scopo di garantire comunque l’ordine civile. Attenzione particolare andrebbe riservata alle vicende micro-sociali, perché sarebbero i municipi — con le loro storie e con i retaggi infiniti di rivalità e di conflitti, che trovano nuovo alimento nella situazione di “rottura” di un equilibrio negli anni napoleonici — a sostanziare, più delle macro-strutture istituzionali, l’Insorgenza meridionale. Davis ritrova questa serie di problemi nelle scelte operate dal leader della Santa Fede, il cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827), analizzandone accuratamente la condotta durante e dopo l’insorgenza.

3. Qualche considerazione

Il fascicolo di Studi Storici fornisce contributi sostanziosi e sufficientemente obiettivi, e sembra rappresentare un promettente inizio di riflessione sul fenomeno dell’Insorgenza italiana, ma evidenzia anche un atteggiamento di fondo che si presta a non pochi rilievi.

La principale osservazione è che un po’ tutti i contributi tendano a persuadere il lettore dell’esistenza di una ricerca — e di non trascurabile spessore — sull’Insorgenza stessa, che viene data addirittura per scontata; anzi, si lascia intendere che, al suo interno, vi sarebbero articolazioni, correnti e scuole diverse, su cui peraltro s’innesterebbe al presente un tanto vigoroso quanto esecrato “revisionismo” — i cui contributi sarebbero per lo più scadenti sotto il profilo scientifico —, promosso strumentalmente da ambienti ideologizzati in senso nostalgico-reazionario e mirante a inquinare il ricupero d’identità in corso nel mondo culturale e politico italiano.

Già nel 1995 Giuseppe Galasso, uno dei maggiori storici italiani contemporanei, ha sostenuto sulle colonne della rubrica culturale del più autorevole quotidiano nazionale (4) esser “sciocchezze” le pretese di quanti lamentano che le insorgenze siano state sottoposte all’“oblio e al disconoscimento [da parte di] una gretta storiografia nazionale, liberale, democratica” (5). Al contrario — sosteneva il professore napoletano — […] i movimenti controrivoluzionari sono stati in Italia largamente studiati in opere e saggi dovuti spesso ad autori anche illustri” (6); e poi, […] nessuno ha mai disconosciuto l’”eroismo” di quelle Vandee italiane” (7). Vien da dire: altro che “sferzante giudizio” sul “revisionismo”, quale lo reputa, citandolo, Cattaneo (p. 568, nota 94)! Si tratta invece di affermazioni che, nella più benevola delle ipotesi, suonano superficiali, quando non mistificanti. Le cose stanno in realtà assai diversamente e non riesco a persuadermi che lo ignori il curatore di una delle più prestigiose collane di storia d’Italia.

L’Insorgenza non è stata per nulla “largamente” studiata. Mancano di essa tuttora quattro dimensioni essenziali. In primo luogo la ricerca e l’analisi delle fonti primarie — anzitutto documenti degli archivi civili e religiosi —, capillarmente estesa al territorio italiano, come richiede lo studio di una realtà così disaggregata e legata a fattori locali. Poi è del tutto assente un’elaborazione a livello generale delle fonti e, dunque, una storiografia di respiro nazionale sul tema. Quindi non si può nemmeno parlare di una tradizione o di una scuola storiografica, neanche di esiguo spessore, sulla quale potersi innestare. Infine — per tacere dell’informazione culturale, ossia dei mezzi di comunicazione sociale — manca il necessario “travaso” delle acquisizioni storiografiche sul piano della formazione culturale del cittadino medio, ovvero nei programmi scolastici. Non è solo in questione la mancanza di “un aggiornato quadro d’insieme”, come rileva la Rao nel saggio d’apertura (p. 326) — che non è solo colpa “della frammentazione e dispersione delle fonti documentarie degli Stati preunitari” (p. 325) —: è in questione la conoscenza tout court del fenomeno, che dipende in buona sostanza dalla non volontà di dar rilievo, nei fatti e nelle interpretazioni, a questa pagina non secondaria della biografia della nazione italiana. Forse solo per il Mezzogiorno — e concordo qui in parte con la studiosa lucana — si può parlare di una storiografia di una qualche portata: ma l’Insorgenza nell’Italia Meridionale ha avuto tratti talmente macroscopici da rendere impossibile ignorarne o affievolirne la memoria. Anche in questo caso la ricerca scientifica si è mostrata finora carente e stereotipata, almeno nelle interpretazioni, benché forse si profilino segnali di cambiamento: la prospettiva accennata nel saggio di Davis — il legame fra Insorgenza e crisi generale della monarchia borbonica — costituisce per esempio una pista di ricerca innovativa e promettente.

E prova di tale condizione è proprio il fatto che gli studiosi della rassegna, invece di limitarsi a “glossare” criticamente studi già esistenti, hanno dovuto “scavare” in archivi assai poco “battuti” e in neglette storie locali, per lo più datate, per raccogliere le informazioni offerte al lettore. Si potrebbe chiedere: dove sono gli autori, l’equivalente dei Saitta, dei Vaccarino, degli Zaghi? dove sono i testi? dove sono gli schemi esplicativi da rimettere in discussione? dov’è la “scolastica” accademica in questo àmbito? Posso personalmente testimoniare che nel 1973, quando iniziai a elaborare la mia tesi di laurea sul tema delle insorgenze nella Lombardia del 1796, al primo accostamento alla materia non riuscii a mettere insieme più di due opere di sintesi, quella di Lumbroso — del 1932, che è parziale e copre il solo Triennio Giacobino (8) — e il volume di Jacques Godechot (1907-1994) La Contre-révolution, doctrine et action (1789-1804), del 1962 — che si ferma al 1804 e che è stato tradotto in italiano solo nel 1988 (9).

Quanto non si vuole ammettere è che siamo in realtà di fronte a una oggettiva rimozione, di origine non recente e tenacemente reiterata — e rafforzata dalla gramsciana conquista dell’egemonia culturale —, di un evento che non è un banale accadimento sporadico, ma, come riconosce ancora — ma perché solo adesso? — la Rao, autrice di molteplici studi sul periodo rivoluzionario in Italia, un fenomeno che […] ebbe un ruolo centrale nella vita politica italiana alla svolta fra Sette e Ottocento, non solo, ma anche negli orientamenti dei repubblicani del triennio 1796-1799 e nella politica napoleonica, e ancor più nell’immaginario e nella riflessione storiografica dell’Ottocento. Basti ricordare il peso che avrebbe esercitato nel pensiero e nell’azione degli uomini del Risorgimento, da Mazzini a Pisacane, nel dibattito sulle vie da seguire per realizzare l’indipendenza e l’unificazione politica italiane” (p. 327) (10). Una realtà, fra l’altro, costata agli italiani, secondo una stima per difetto, in quanto limitata all’inizio del 1799 — che la studiosa del Mezzogiorno suppongo conosca, in quanto fornita da uno dei protagonisti delle vicende della Repubblica Napoletana, il generale francese Paul-Charles Thiébault — almeno sessantamila vittime (11), un dato ancora più impressionante se lo si confronta percentualmente con la popolazione dell’epoca (12) e se si pone mente che non è dovuto a qualche malaugurato evento naturale — un terremoto o un’inondazione —, ma è il prodotto di una volontà umana.

Di fronte a questa obiettiva carenza storica non mi sembra lecito, oltre tutto, squalificare i tentativi — magari anche ideologicamente orientati — di chi, con i mezzi di cui ha potuto avvalersi, non certo comparabili con quelli di cui dispone la storiografia istituzionale, ha cercato di ricostruire la fisionomia di un momento della storia italiana che, come confermano i lavori ospitati da Studi Storici, rivela sempre più nitidamente la sua portata nei fatti e nelle conseguenze.

Non si sa davvero che cosa pensare davanti a un simile “peccato” di omissione riguardo a un fenomeno sul quale non può, come minimo, non “inciampare” qualunque percorso di ricerca serio, né si vede dove possa condurre questo modo di fare storia. Che “magistero” può esercitare? Che futuro può aiutare a costruire? Quale contributo può fornire un atteggiamento scientifico non solo viziato dall’ideologia, ma tendenzialmente ostruzionistico, in un frangente nel quale l’Italia ha bisogno di ogni sforzo volto a farle ricuperare integralmente la propria memoria storica, civile e religiosa per poter così meglio ridefinire la propria identità e per formulare nuove regole con cui perseguire il “bene comune”?

Ma vi sono altri rilievi di merito, che riguardano i giudizi espressi sull’interpretazione generale dell’Insorgenza e sui contributi finora forniti dagli ambienti cosiddetti del “cattolicesimo reazionario e intransigente” (p. 326). La prospettiva delineata da Cattaneo — ovvero il “progetto di incidere nel processo di formazione di un nuovo paradigma repubblicano elaborando una nuova memoria storica nazionale, anche a partire dal recupero di ogni forma di “sanfedismo”, in quanto testimonianza di una rimpianta unità tra valori religiosi e valori pubblici, di una società organicamente “ordinata”, tradizionalista e impermeabile alle detestate ideologie liberali e di sinistra” (p. 568), che trova accoglienza da parte di testate di forze politiche conservatrici, nella fattispecie il Secolo d’Italia, e i cui prodotti confluiscono in “dizionari del pensiero forte” — sembra correttamente ricostruita e, anche se evocata in chiave tendenzialmente polemica, non si vede che cosa vi sia d’illegittimo nel “tentare di incidere” “da destra” nell’elaborazione culturale che prelude alla formulazione di un nuovo assetto repubblicano. Né che cosa vi sia d’ignobile nel rifarsi ai valori evocati, non espungendo dal curriculum del nostro Paese neppure il “sanfedismo” — forse emblema dell’omissione e della contraffazione perpetrate nei confronti dell’Insorgenza —, che certamente va valutato criticamente — e severamente, anche nei suoi aspetti meno “rosei” —, ma riguardo al quale va rifiutata la vera e propria “leggenda nera” — mostrante ogni giorno di più la corda — che è gli è stata costruita addosso nel tempo, sì che l’aggettivo “sanfedista” viene utilizzato ancor oggi più come “clava” ideologica che per designare una posizione ideale.

Riguardo invece al “revisionismo” che affliggerebbe la storiografia sviluppata nella prospettiva predetta — tendente a “sollecitare una totale riscrittura della storia italiana ed europea dal XVIII al XX secolo “dal punto di vista degli sconfitti”” (p. 367) e che viene evocata a più riprese nei vari saggi, ancora in veste di giudizio di merito e con intenti non del tutto benevoli —, occorre subito premettere che anche in questo caso una definizione comunemente accettata di questo termine non esiste. Proprio nel 1998 Ernst Nolte, il “padre” del revisionismo contemporaneo, ne ha fornito una definizione a mio avviso “aurea”, scrivendo: […] considero tratti distintivi di ogni revisionismo serio e perlomeno orientato in una direzione scientifica la critica documentata all’unilateralità e alle lacune della veduta “ufficiale” e la volontà di attenersi ad una maggiore obiettività” (13).

Se tale è il “revisionismo”, muoversi in tal senso sarebbe non solo lecito, ma doveroso. Anzi esso dovrebbe assumere quell’atteggiamento “militante”, che viene lamentato ancora da Cattaneo nei confronti dello storico cattolico maceratese Sandro Petrucci (14) — pur da lui apprezzato dal punto di vista “tecnico” —, perché renderebbe “opaco sul piano interpretativo” (p. 561, nota 82) il lavoro di ricerca. Ma non si può non domandarsi a che cosa si dovrebbe applicare nella fattispecie dell’Insorgenza la “revisione” denunciata, ovvero quali paradigmi scientifici unilateralmente invalsi si dovrebbero sottoporre a “revisione”, dato che essi non vi sono. Non che manchino “vedute ufficiali” — che affiorano per esempio quando si rompe il silenzio —, ma esse sono costituite per la gran parte da giudizi non approfonditi, derivati da orientamenti ideologici pregiudizialmente contrari, senza riscontri fattuali, resi superflui dalla maramaldesca consapevolezza che chi ne è oggetto è uno “sconfitto”, sia storico che nella “battaglia delle idee”.

Non sembra, ancora, accettabile ricondurre, come fa lo stesso studioso con un’intentio palesemente squalificante, il “revisionismo” sull’Insorgenza alle prospettive “cattolico-integralista, neo e postfascista, monarchico legittimista” (p. 567), senza fornire definizione di tali realtà. Il cosiddetto revisionismo nasce invece da un atteggiamento di domanda di verità e di obiettività e come spontanea e costruttiva reazione alla percezione di una monumentale ingiustizia inferta a uomini, nostri antenati, le cui scelte vanno giudicate e anche — se necessario — condannate, ma la cui memoria ci appartiene e che dobbiamo riscoprire e recepire con atteggiamento di profonda e amorosa pietas.

Venendo infine alla tesi secondo cui gli storici “revisionisti”, ergo “di destra”, “revisionano” tutto, ma salvano sempre e solo l’opera dello storico nazionalista e fascista Lumbroso (15), viene spontaneo domandarsi a che cosa si poteva riallacciare fattualmente chi volesse conoscere, anche solo ieri, qualcosa della reazione delle popolazioni contro la Rivoluzione francese in Italia, dato che null’altro di fatto esisteva a un primo accostamento, se non l’opera dello storico fiorentino. Ho già avuto modo di mettere in luce questo aspetto nell’introduzione alla riedizione del suo “vecchio e ben noto — ma a quanti? — studio” (p. 325) apparsa nel 1997. In tale sede mi sono altresì sforzato di non operare il minimo “ricupero” né delle prospettive storiografiche — che giudico oggettivamente insufficienti e forzate sotto il profilo ermeneutico, anche se vanno lette nel clima culturale italiano fra le due guerre mondiali — né tanto meno delle prospettive dottrinali di Lumbroso, ma di effettuare solo un’operazione di ricupero documentale. Vedo però purtroppo che il punto è stato frainteso, se Preto sostiene che la mia nota biografica e la mia prefazione al volume […] ribadiscono la prospettiva storico-politica nazionalista (risalente a Niccolò Rodolico [1873-1969])” (p. 350).

Tentando un giudizio d’insieme sui contenuti del fascicolo monografico di Studi Storici, si può osservare che, dal punto di vista delle interpretazioni i diversi studiosi sembrano essere accomunati, oltre che dal rigetto delle forzature nazionalistiche dei primi decenni del secolo, dall’esigenza di guardare al fenomeno con una visuale sempre più ampia e spregiudicata, abbandonando interpretazioni più o meno rigidamente monocausali a sfondo “infrastrutturale” — di cui potrebbe essere modello, nel caso della storia contemporanea, il gramsciano Giorgio Candeloro (1909-1988) — e muovendosi verso una visione maggiormente interdisciplinare, esigita peraltro da una realtà così complessa e disomogenea qual è l’Insorgenza. Se questo cambiamento sia un semplice tentativo di “noyer le poisson” — “annegare il pesce”, ovvero di diluire al massimo una realtà, facendole perdere sostanza —, come sembra stia accadendo riguardo ad altre tematiche (16); sia cioè frutto del prevalere di una visione “debole”, tendenzialmente portata a frammentare e a relativizzare l’interpretazione generale dell’Insorgenza, oppure segno di un progresso salutare, al momento non è possibile affermarlo. Certo, l’assenza di una sintesi di qualche spessore fra i saggi della raccolta, come pure il fatto che l’orizzonte spaziale e temporale evidenziato dagli studiosi sia sempre piuttosto ristretto, sembrerebbero far propendere per la prima ipotesi. Su tale atteggiamento maggiormente “aperto” la convergenza di studiosi di altra origine e collocazione anche militante può già fin da ora essere più ampia, soprattutto da parte di quegli studiosi che, partendo da diverse ipotesi di lavoro e rifacendosi a certa storiografia francese degli ultimi anni — per esempio a Jean Dumont, a Reynald Secher e a Jean Meyer (17) —, ritengono che l’Insorgenza vada letta all’interno della logica del processo di genesi e d’affermazione della modernità in Occidente. Uno schema esplicativo tendenzialmente portato a leggere l’Insorgenza come categoria, piuttosto che come puro fenomeno, e fondamentalmente “forte” — di qui il suo legame con il “pensiero forte” —, apparentemente monocausale, ma in realtà ampiamente sfaccettata. Una visione sufficientemente flessibile per accogliere contributi diversi e più idonea a cogliere la verità di un fenomeno storico multiforme, che, servata distantia, presenta analogie con una realtà di un’altra epoca, il comune medievale, il quale si origina spesso per ragioni le più diverse, non in maniera sincrona nello spazio, ma si afferma più o meno nella stessa epoca in tutto il continente europeo.

Nella massa dei dati proposti è possibile cogliere anche spunti e stimoli meritevoli di ulteriori approfondimenti. Per esempio, la ricerca di Tosi sul Viva Maria! fa scoprire che, anche fra i contro-rivoluzionari, non erano assenti prospettive di mutamento dello status quo e di ricongiunzione alle forme socio-politiche precedenti le riforme illuministiche dei prìncipi settecenteschi. Ancora, lo stesso studio, forse nell’ottica di superare la visione delle “masse” contadine come soggetto indistinto e monolitico, contiene un primo tentativo di biografia di un leader contro-rivoluzionario — quella del marchese Albergotti —, che può costituire un valido esempio per analoghe ricerche.

La rassegna edita dall’Istituto Gramsci presenta anche contenuti, espliciti o impliciti, meno felici.

In primo luogo si rileva in pressoché tutti gli studi una pregiudiziale aprioristicamente negativa verso la componente religiosa nella genesi e nello svolgimento dei vari episodi d’insorgenza, che si traduce nella sua pratica espunzione oppure nella sua “riduzione” o nel suo appiattimento sociologico. Se è vero che il fattore religioso non è stato sempre l’unico movente delle reazioni popolari, è altresì indubbio che esso è sempre e ovunque presente e trascurarlo, oppure posporlo a realtà apparentemente “più profonde”, significa non tener conto dell’assoluta primarietà delle credenze e dei riti nella cultura ancora omogeneamente cristiana delle popolazioni della Penisola alla fine del Settecento, elaborando così interpretazioni quanto meno inadeguate.

Dalla lettura dei diversi saggi, ma soprattutto di quello introduttivo, non emerge poi un aspetto importante dell’Insorgenza italiana, ovvero la sua appartenenza a un quadro europeo. Nel periodo napoleonico la resistenza popolare contro i francesi in difesa delle tradizioni religiose e civili si manifesta in tutte le nazioni cattoliche, all’improvviso esposte a un processo di modernizzazione e di secolarizzazione ad alta intensità, non “preparato”, come altrove, dalla Riforma. Dal Belgio alla Spagna, alla Svizzera, fino all’isola di Malta, ovunque la Rivoluzione francese avanza dietro le armi napoleoniche, le popolazioni, i ceti umili, si sollevano, rialzano i simboli religiosi e le insegne delle “piccole patrie”, dando vita a sollevazioni, come quella spagnola, di vasta portata. Non dare sufficiente rilievo a questa dimensione transnazionale, trascurando gli studi — unici a tracciarne il profilo, anche se in maniera incompleta — di Godechot, significa menomare la possibilità di comprendere adeguatamente l’Insorgenza italiana, rischiando di ridurla a una ripresa di “beghe” fra municipi in perenne e atavico conflitto. A questo riguardo, mentre va osservato che le lotte campanilistiche trovano nuovo vigore — come ha messo in rilievo Petrucci (18) — proprio in conseguenza dello sconvolgimento di equilibri plurisecolari a opera della “totale organizzazione” (19) della società del tempo attuata dalle repubbliche giacobine — nella fattispecie dalla Repubblica Romana —, non si può non ricordare come, almeno per l’Insorgenza nell’Italia Centrale del 1798-1799, non ci si trovi affatto di fronte a episodi — anche numerosi, ma del tutto particolaristici e scoordinati fra loro — di difesa della “piccola patria”, ma si manifesti invece una embrionale unità d’intenti e di lotta fra gl’insorgenti.

Tralascio ogni considerazione sulla liceità — che non viene mai posta in dubbio nella raccolta — da parte della Repubblica Francese di aggredire, di spogliare e di “democratizzare”, violando diritti costituiti plurisecolari, Stati neutrali e pacifici, come pure dell’esproprio di risorse finanziarie e di tesori artistici, cui i francesi sottopongono nel Triennio i popoli italiani. Osservo invece che, mentre nel panorama delineato affiora in più punti la denuncia della “bestiale ferocia” degl’insorgenti — che non è assolutamente né ordinaria, né generalizzata: se ad Arezzo nel 1799 vengono uccisi e bruciati tredici ebrei, nell’insurrezione di Pavia del 1796 i cinquemila contadini insorti non provocano una sola vittima, né fra i giacobini, né fra i francesi —, non emerge sufficientemente, o forse non emerge affatto, quanto brutale siano state la repressione e le rappresaglie perpetrate dai francesi — ma anche dalle milizie cisalpine e “italiche”, evocando immagini di diversi e più recenti collaborazionismi — contro una popolazione il più delle volte inerme. Le loro vittime sono forse da considerare ovvi e dovuti “contributi” al “riscatto” delle popolazioni italiane? Che cosa pensare dell’assordante silenzio sulle sofferenze dei tanti minores — perché privi della cultura riflessa e dei mezzi per far conoscere le proprie ragioni — e il rilievo tributato ad avvenimenti oggettivamente insignificanti, ma di diverso segno “politico”? Si tace delle migliaia di morti dell’Insorgenza a Milano, a Pavia, a Verona, a Lugo di Romagna, a Firenze, a Roma, a Napoli, in Abruzzo, nelle Calabrie e si assorda invece il cittadino con quelle, pur reali, ma incomparabilmente più lievi, per far un esempio, dei “quattro” “martiri dello Spielberg”. Eppure la fase finale dell’Insorgenza precede solo di pochi anni quest’ultima vicenda.

In conclusione, se il numero monografico di Studi Storici rappresenta, com’è lecito credere, una “galleria” delle ultime tendenze della ricerca — almeno di una certa “scuola”, ma non poco significativa — in merito alle insorgenze popolari nel periodo napoleonico, se ne trae l’impressione e l’auspicio che la storiografia sul tema esca finalmente dalla minorità e si avvii verso una maggiore consapevolezza. Soprattutto pare che l’Insorgenza abbia trovato spiragli d’interesse in una parte del mondo accademico. È questa, se non l’unica, almeno la via decisiva per giungere a una conoscenza adeguata del fenomeno. L’importante è che questo interesse non venga inquinato e fuorviato dalle sopravvivenze ideologiche — magari travestite da pensiero “debole” —, e che iniziative private o non istituzionali, invece di essere declassate o combattute, trovino incremento e sostegno da parte di chi è istituzionalmente preposto a “fare storia” e a promuovere la cultura. La prossimità della ricorrenza del secondo centenario della fase clou dell’Insorgenza italiana e della sua, anche se temporanea, vittoria, il 1799 — in vista della quale va senz’altro collocata l’iniziativa realizzata da Studi Storici —, può essere un’opportunità da non perdere.

Oscar Sanguinetti

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(1) Cfr. Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica, numero monografico di Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 39, n. 2, aprile-giugno 1998, pp. 325-622, Dedalo, Bari 1998. Tutti i riferimenti senza rimando sono tratti da questo volume e la paginazione è indicata fra parentesi.

(2) La rassegna contiene alcune affermazioni inesatte sullo storico Giacomo Lumbroso (1897-1944), che viene detto attivo “agli inizi di questo secolo” (p. 376), il che pare difficile, essendo egli nato nel 1897, e definito […] un intelligente conservatore di matrice positivista che ci ha lasciato alcune ricerche assai ben documentate sulle insorgenze antinapoleoniche nella pianura padana” (ibidem). A riguardo, mentre è condivisibile il giudizio relativo all’“intelligente conservatore”, non è evidente da dove si possa dedurre una matrice positivista in Lumbroso; né sono note ricerche “assai ben documentate” dello stesso sulla pianura padana, avendo egli trattato tale argomento nel quadro della sua — peraltro unica — opera di sintesi I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796-1800) (2a ed. rivista, a cura di Oscar Sanguinetti, Minchella, Milano 1997; 1a ed., Le Monnier, Firenze 1932; cfr. la recensione di Paolo Martinucci, in Cristianità, anno XXVI, n. 277, maggio 1998, pp. 24-26), dedicata alle insurrezioni dell’intera Penisola, nella quale dà invece più spazio, come doveroso, all’Insorgenza nell’Italia Centrale e nel Regno di Napoli.

(3) Cfr. Giuseppe Ricuperati, Il Settecento, in Pierpaolo Merlin, Claudio Rosso, Geoffrey Symcox e Giuseppe Ricuperati, Il Piemonte sabaudo. Stato e territori in età moderna, in Storia d’Italia, diretta da Giuseppe Galasso, UTET, Torino 1994, vol. VIII*, pp. 441-834.

(4) Cfr. G. Galasso, Un’eroica Vandea non si nega a nessuno, in Corriere della Sera, 13-9-1995; cfr. anche ISIN. Istituto per la Storia delle Insorgenze, Perché l’attenzione all’Insorgenza, comunicato del 2-12-1996, in Cristianità, anno XXIV, n. 260, dicembre 1996, p. 6.

(5) G. Galasso, art. cit.

(6) Ibidem.

(7) Ibidem.

(8) Cfr. G. Lumbroso, op. cit.; tale tesi è all’origine del mio Le insorgenze contro-rivoluzionarie in Lombardia nel primo anno della dominazione napoleonica. 1796, con una prefazione di Marco Tangheroni, Cristianità, Piacenza 1996; cfr. recensione di Marco Invernizzi, in Cristianità, anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 26 e 30.

(9) Jacques Godechot, La contre-révolution, doctrine et action (1789-1804), PUF, Parigi 1961, trad. it. sulla 2a ed. francese, La controrivoluzione. Dottrina e azione (1789-1804), Mursia, Milano 1988.

(10) Viene irresistibile chiedere: ma in quale liceo o aula accademica s’insegna, non solo che Giuseppe Mazzini (1805-1872) si sia posto il problema delle insorgenze del periodo napoleonico nel quadro della sua elaborazione teorica, ma che esse siano esistite tout court? La stessa Rao, in un precedente studio — Mezzogiorno e rivoluzione: trent’anni di storiografia, in Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci, anno 37, n. 4, ottobre-dicembre 1996, pp. 981-1041 —, ha avuto modo di farsi portavoce della tesi di Galasso nel contesto della valutazione — peraltro incidentale — di un breve profilo delle Insorgenze contro-rivoluzionarie da me tracciato e comparso nel volume collettaneo Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 1994, pp. 373-407). E la valutazione risulta del seguente tenore: mentre le mie poche righe vengono rubricate sotto la voce […] impudenti ricorrenti recriminazioni dei reazionari di turno prontamente recepite e amplificate dai mezzi di comunicazione su un’insorgenza negletta e incompresa” (ibid., p. 1010), a carico di chi scrive viene detto che […] solo l’incoscienza può spingere a spaziare in poco più di trenta pagine dalla Vandea del 1793 al Messico del 1926, e solo l’ignoranza può sorreggere nell’affermazione che il fenomeno delle insorgenze popolari controrivoluzionarie sia stato fino a non molti anni fa […] poco esplorato in ambiente di ricerca” (ibid., nota 108). A riguardo mi limito solo a rilevare il tono alquanto scomposto della reazione della docente mentre, sotto il profilo sostanziale, mi permetto di osservare che esistono sintesi di poche pagine riguardo a periodi e a fenomeni storici ben più ampi. Come ben sa, il “taglio” del contributo dipende dal contesto in cui deve situarsi e non sempre l’autore può sceglierlo; anzi, ritengo che le sintesi, per di più del respiro di un articolo di rivista, siano fra le modalità espressive più difficili. O forse il mio contributo, così esiguo, ha acutizzato, traducendolo in un improvviso e violento accesso, l’idiosincrasia per le interpretazioni “unitarie” dell’Insorgenza da cui la professoressa Rao sembra essere affetta? Mi sfugge invece totalmente come la studiosa abbia potuto riscontrare che le tesi dei “reazionari” vengano prontamente recepite e amplificate dai mezzi di comunicazione: a me pare, al contrario, che le poche volte in cui viene rotto il silenzio da parte dei mass media sui “reazionari” — e si veda proprio la sortita di Galasso sopra ricordata e peraltro reiterata in successiva occasione — è quando occorre parlarne per “batterne in breccia”, facendo sparare magari “cannoni” di grosso calibro, le argomentazioni e le azioni. Last but not least, non rilevo fra quelli addotti dalla studiosa alcun elemento che imponga di rivedere la mia asserzione, e devo quindi ribadirla, soprattutto alla luce dei primi risultati di ricerche che l’ISIN, l’Istituto per la Storia dele Insorgenze, ha promosso relativamente all’Italia Settentrionale. Anzi, il dotto e nutritissimo studio bibliografico della Rao sulla Rivoluzione nel Mezzogiorno d’Italia rafforza ulteriormente la mia convinzione, quando confronto l’esiguità dei riferimenti a opere dedicate alla maggiore delle insorgenze della Penisola, quella del Regno di Napoli — mentre si afferma contraddittoriamente che occorre […] comprendere […] come mai tanto ampie e diffuse furono le resistenze e le reazioni popolari contro i francesi e i loro sostenitori “giacobini”” (ibid., p. 997) —, con la dovizia dei titoli relativi alla Rivoluzione.

(11) Cfr. Generale Paul-Charles Thiébault, Mémoires du Général Baron Thiébault publiées sous les auspices de sa fille M.lle Claire Thiébault d’après le manuscript original par Fernand Calmettes, Parigi 1893-1895, vol. II, p. 325.

(12) Cfr. Athos Bellettini (1921-1983), La popolazione italiana. Un profilo storico, a cura di Franco Tassinari, con un’introduzione di Marino Berengo, Einaudi, Torino 1987, che valuta la popolazione a circa 15,5 milioni nel 1750 e a circa 18 milioni nel 1800 (cfr. tabella I, p. 14).

(13) Ernst Nolte, Verità e leggenda del revisionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, anno II, n. 5, settembre-ottobre 1998, Luni, Milano 1998, p. 11.

(14) Il riferimento è a Sandro Petrucci, Insorgenti marchigiani. Il Trattato di Tolentino e i moti antifrancesi del 1797, con una prefazione di M. Tangheroni, SICO, Macerata 1996; cfr. la recensione di Francesco Pappalardo, in Cristianità, anno XXIV, n. 259, novembre 1996, pp. 25-26.

(15) Cfr. alcune notizie sulla vita e l’opera di Lumbroso in O. Sanguinetti, saggio introduttivo a G. Lumbroso, op. cit.

(16) Cfr., a riguardo, Alberto Indelicato — cui per inciso debbo l’efficace espressione “noyer le poisson” —, Revisionismo e giustificazionismo, in nuova Storia Contemporanea. Bimestrale di studi storici e politici sull’età contemporanea, cit., pp. 143-150.

(17) Cfr. Jean Dumont, I falsi miti della Rivoluzione francese, con una prefazione di Giovanni Cantoni, trad. it., Effedieffe, Milano 1989; Reynald Secher, Il genocidio vandeano, con una prefazione di Jean Meyer e una presentazione di Pierre Chaunu, Effedieffe, Milano 1989; e Jean Meyer, La Cristiada, 4a ed. riveduta, 3 voll., Siglo Ventuno, Mexico-Madrid-Buenos Aires 1976.

(18) Cfr. S. Petrucci, L’insorgenza nell’Italia Centrale negli anni 1797-1798, in Nota informativa (dell’Istituto per la Storia delle Insorgenze di Milano), anno II, n. 8, gennaio-aprile 1998, pp. 7-24.

(19 ) Ibid., p. 13: l’espressione è tratta da un documento “romano” dell’epoca.

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