Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

La trattativa tra Stato e mafia è cominciata con l’unità d’Italia e non è mai stata interrotta

Posted by on Lug 27, 2019

La trattativa tra Stato e mafia è cominciata con l’unità d’Italia e non è mai stata interrotta

Per questo e’ difficile sconfiggere i mafiosi. Perche’ dal 1860 si annidano dentro le istituzioni. Ai piu’ alti livelli. Era cosi’ gia’ ai tempi di garibaldi, di crispi e di giolitti. Ed e’ cosi’ ancora oggi. Da qui le enormi difficolta’ dei magistrati che oggi indagano sulle stragi del 1992. Perche’ vanno a toccare gli interessi di ‘p’ezzi’ dello stato. Cioe’ di uomini ancora al vertice del nostro paese

PER QUESTO E’ DIFFICILE SCONFIGGERE I MAFIOSI. PERCHE’ DAL 1860 SI ANNIDANO DENTRO LE ISTITUZIONI. AI PIU’ ALTI LIVELLI. ERA COSI’ GIA’ AI TEMPI DI GARIBALDI, DI CRISPI E DI GIOLITTI. ED E’ COSI’ ANCORA OGGI. DA QUI LE ENORMI DIFFICOLTA’ DEI MAGISTRATI CHE OGGI INDAGANO SULLE STRAGI DEL 1992. PERCHE’ VANNO A TOCCARE GLI INTERESSI DI ‘P’EZZI’ DELLO STATO. CIOE’ DI UOMINI ANCORA AL VERTICE DEL NOSTRO PAESE

Quando oggi parliamo di trattativa “Stato-mafia”, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’Unità d’Italia o, peggio ancora, con la mala unità d’Italia e sin dai tempi dell’invasione garibaldina che si servì per le sue discusse e dubbie vittorie del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli.

In Sicilia, in quel lontano maggio del 1860, accorsero con i loro “famosi picciotti” in soccorso di Garibaldi i più autorevoli capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola di Erice i fratelli Sant’Anna di Alcamo, i Miceli di Monreale, il famigerato Santo Mele così bene descritto da Cesare Abba, Giovanni Corrao referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo nel quartiere del Borgo vecchio e che poi addirittura diverrà generale garibaldino e che verrà ucciso 3 anni dopo nell’agosto del 1863 nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose.

Un apporto determinante degli “uomini d’onore” di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro ”Storia della mafia”, che Garibaldi senza l’aiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come, del resto, lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi bastone Tore de Crescenzo , Michele “o chiazziere” e tanti altri. Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o no a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e detrminante contributo all’Unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato,per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale.

Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo, Giuseppe Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joe Bananas, che nel suo libro autobiografico “Uomo d’onore”, a cura di Sergio Lalli, a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione, così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina. “Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra ‘tradizione’ (= mafia) si schierarono con le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”. Più esplicito di così, a proposito dell’aiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere.

Con l’Unità d’Italia e con il determinante contributo dato all’impresa dei Mille la mafia esce dall’anonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà di fatto una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese. E di questa metamorfosi della mafia, dall’Italia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia ed una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione in un sanguinoso attentato in via Pipitone Federico, a Palermo.

Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato in qualità di capo dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo ed ideatore come anzidetto del pool antimafia di cui allora fecero parte tra gli altri giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello, fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche.

Da studioso fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi promosso a Grottaferrata il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura così, a proposito dell’evolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi: “Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia”.

“La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia – affermò Chinnici in quella occasione a conforto da quanto da noi sostenuto – non prima ma subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Ed ancora in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con l’aiuto determinante dato a Garibaldi e successivamente con l’Unità d’Italia, Rocco Chinnici ebbe a dire: “La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”.

Ed è questo “patto scellerato” tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi come sosteneva Rocco Chinnici dall’Unità d’Italia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che sin dagli albori dell’unità d’Italia hanno insanguinato la nostra terra per iniziare con la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti dei pugnalatori di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palazzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che della lotta alla mafia ne hanno fatto una ragione di vita e purtroppo anche di estremo sacrificio sino alla morte.

Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quello stesso Paolo Borsellino che da quanto, in questi ultimi tempi e alla luce di nuove risultanze processuali che hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi, ci è stato dato da apprendere si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra “Stato e mafia” e per questo ha pagato, per le connivenze tra mafia e servizi segreti deviati, con la vita il suo atto di coraggio.

Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti un mix di soggetti: Stato, mafia,banditismo (nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti, massoneria deviata e quant’altro che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare, da 153 anni a questa parte, la vita dei siciliani onesti. Quando ce ne potremo liberare? Con l’aria che tira sarà difficile.

fonte https://palermo.meridionews.it/articolo/22313/la-trattativa-tra-stato-e-mafia-e-cominciata-con-lunita-ditalia-e-non-e-mai-stata-interrotta/

Read More

La mafia? Creata dai massoni inglesi, per sabotare l’Italia

Posted by on Lug 24, 2019

La mafia? Creata dai massoni inglesi, per sabotare l’Italia

Spaghetti, pizza e mafia. Sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti triti e ritriti, spesso impiegati per dipingere l’intera Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra gli Stati semi-falliti».

Read More

La vera storia dell’impresa dei mille 9/ E da Marsala a Salemi Garibaldi comincia ad arruolare i picciotti di mafia…

Posted by on Mag 6, 2019

La vera storia dell’impresa dei mille 9/ E da Marsala a Salemi Garibaldi comincia ad arruolare i picciotti di mafia…

L’impresa dei mille, nella marcia che va da Marsala a Salemi, comincia a prendere il ‘colore’ della mafia. Ci sono i servizi segreti inglesi, rappresentati dal Barone Sant’Anna. E cominciano ad arrivare i picciotti della mafia che ne combineranno di tutti i colori. E poi si chiedono come mai lo Stato italiano tratta con la mafia, quando la prima ‘Trattativa” con i mafiosi l’ha fatta Garibaldi con gli inglesi…  

di Giuseppe Scianò

GARIBALDINI IN MARCIA DA MARSALA A SALEMI – 12 maggio 1860: sulla strada per Salemi. «Dove sono gli insorti?»

Torniamo alla cronaca dei fatti. Garibaldi ed i suoi Mille, «conquistata» Marsala, si spostano verso Salemi. Questa, sì, dovrebbe essere una città amica perché è sotto l’influenza del Barone Sant’Anna. Uomo di primo piano, anzi pezzo da novanta, secondo Montanelli e secondo non pochi autori. Certamente, il Barone è agganciato ai servizi segreti britannici ed esponente egli stesso della Massoneria filoinglese. L’unica che conti veramente in Europa e nel mondo.

Una sosta – a circa metà strada – è prevista, intanto nel feudo Rampingallo, a dieci chilometri circa da Salemi. Si tratta di una grande proprietà del Barone Mistretta. A Rampingallo prima e a Salemi dopo, sono previsti gli incontri, oltre che con i galantuomini, anche con le squadre di sedicenti insorti in armi. Vedremo di che cosa si tratterà.

Mentre la colonna si mette in cammino, proprio alle porte di Marsala, si svolge un interessante, significativo dialogo fra Garibaldi ed il suo ufficiale di Stato Maggiore, Giuseppe Bandi. Chi è costui?

Giuseppe Bandi, aiutante e fedelissimo di Garibaldi, giovane e brillante ufficiale, toscanaccio quasi quanto Indro Montanelli (pur senza la finezza né la cultura dello stesso Montanelli), è a sua volta, in maniera moderata, agiografo (1) ed apologeta della Spedizione dei Mille. Qualche volta però perde le staffe e riesce ad essere molto sincero. Cosa, questa, che avviene appunto alla partenza da Marsala per raggiungere il feudo di Rampingallo. Il Bandi è infatti deluso, più di quanto non sembri o non voglia ammettere, per l’accoglienza trovata a Marsala.

È deluso altresì perché non vede «…gli innumerevoli insorti di cui era corsa fama che brulicassero le campagne siciliane».(2)

Vale la pena di seguirlo per strappargli qualche informazione preziosa, fra quelle annotate in successive pubblicazioni. Così ci racconterà, dopo diversi anni, la storica conversazione con il suo Generale.

«Non volevo mostrarmi scoraggiato, né uomo di poca fede ma mi premeva chiarire qual fosse l’impressione suscitata nell’animo di Garibaldi dalle prime accoglienze, che ci avevano fatto i Siciliani. E, così, avvicinatomi a lui, con non so qual pretesto, gli dissi:

“O dove sono, Generale, que’ magni insorti che promettevano Roma e Toma? Mi pare che la gente guardi e passi, ed abbia una voglia matta di starsene allegramente a vedere quel che accadrà”.

Il Generale rispose con la sua inalterabile tranquillità: “Pazienza, pazienza; vedrete che tutto andrà bene. Perché la gente si scuota e ci venga dietro, bisogna farle vedere che sappiamo picchiare. Il mondo è amico dei coraggiosi e dei fortunati”.

Capii che diceva una cosa santa, e mi tacqui; ma dopo poco, tornai a farmi vivo per domandargli:

“O dov’è Rosolino Pilo? Dov’è Corrao? Non ci dissero a Genova che erano padroni di mezza l’isola (sic)?”.

“Ce lo dissero…, – soggiunse il Generale – ma che volete? Avranno fatto quel che poterono fare, e adesso saranno per la montagna”».(3)

Garibaldi non si preoccupa. È verosimile, infatti, che lui non sappia dove diavolo siano gli insorti in quel momento, ma sa bene dove sono gli Inglesi. Quelli, sì, che brulicavano in Sicilia. E la marcia verso Salemi (e poi verso Calatafimi e verso Palermo e via di seguito) sarà solo una marcia verso una vittoria prefabbricata. Nel conseguimento di tale vittoria, tuttavia, non mancheranno sorprese ed incidenti di percorso.

Quelli veri intendiamo. Non programmati…

Tappa di Rampingallo – La prima sosta nel loro spostamento da Marsala a Salemi, i Garibaldini la fanno dunque nel feudo Rampingallo. Il centro aziendale è costituito da una vetusta ma comoda struttura edilizia, caratteristica della campagna siciliana: ’u bagghiu (il baglio). Nel cui interno trovano posto le abitazioni del proprietario e dei suoi più diretti collaboratori e talvolta la «cappella», nella quale si celebrano anche importanti funzioni religiose. Al centro, di solito, esiste un grandissimo spazio capace di varie attività di trasformazione e di conservazione dei prodotti agricoli. Rifugio sicuro talvolta per intere greggi, soprattutto di notte.

Così è anche il baglio di Rampingallo. I Garibaldini pertanto, ed i loro capi, vi troveranno comoda ospitalità. Qui, come ci spiega il Bandi, verranno raggiunti da una prima squadra di picciotti, guidata dal fratello del Barone Sant’Anna. Questi diventerà sempre più, deus ex machina ed autorità a Salemi, come ad Alcamo ed in altre località della provincia di Trapani.

G. C. Abba ci descrive questi presunti insorti in maniera tale da farci capire che, sì, lui li chiama insorti, ma sono piuttosto uomini vestiti di «pelli di pecora sopra gli altri panni, tutti paiono gente risoluta» e sono «armati di doppiette da caccia e di picche bizzarre».(4)

Non garantisce insomma, che siano veri ribelli, veri insorti.

Poco prima il Bandi aveva incontrato, appunto, il fratello dello stesso Barone Sant’Anna con sette o otto signori, «tutti a cavallo, con le papaline in testa e con gli schioppi attraverso alla sella come tanti beduini». Questi, poco dopo, avvicinatisi al Bandi avrebbero gridato «Viva Cicilia! Viva la Taglia (Viva Sicilia! Viva l’Italia)».(5)

Scrive testualmente il Bandi per evidenziare, giustamente, che quei signori non conoscevano bene l’italiano, né cosa fosse l’Italia, né che diavolo questa volesse da loro. Sulla pronunzia della parola Sicilia in Cicilia, il Bandi tuttavia si sbaglia, perché nel Siciliano è la «C» che spesso viene pronunziata come una «S» leggera. E non viceversa.

Parlando della tappa di Rampingallo, è necessario ricordare un altro
episodio narrato dal Bandi. Un episodio che per la verità il toscano cita per un suo motivo specifico, ma che noi riprendiamo per un’altra ragione.
Mentre Garibaldi, con l’aiuto del Bandi e di un altro garibaldino, si stava spogliando per andare a letto (non dimentichiamo che l’Eroe è afflitto da dolori reumatici e da vari acciacchi), il Barone Sant’Anna in persona chiede di essere ricevuto ed entra nella stanza, dicendo che ha bisogno di un’autorizzazione, di una lettera cioè scritta (il Bandi parla di spedizione) che lui, a sua volta avrebbe consegnato «a due de’ suoi uomini» e con la quale Garibaldi «dichiarasse che dava loro facoltà di levare gente per conto suo in certi villaggi non lontani, promettendo che i due uomini sarebb ro tornati quanto prima, recandoci qualche buon aiuto».

Garibaldi, racconta sempre il Bandi, gli dice:

«Scrivete subito in mio nome una “spedizione” per i due uomini di Sant’Anna, acciò si sappia che la gente che arruoleranno sarà arruolata per me; e quando l’avrete scritta, firmerò».(6)

Il Bandi cita questo episodio anche per evidenziare la formula che lui avrebbe adottato per indicare l’autorità dalla quale viene emessa l’autorizzazione a svolgere quella specie di incarico (la formula del Bandi per la cronaca così recita: «Giuseppe Garibaldi, Generale del Popolo italiano, disceso in Sicilia per rendere alla nobile isola l’antica gloria e libertà, dà commissione ecc.»).

In quel momento Garibaldi mostra di gradire la proposta del Bandi e l’adotta. Tale formula sarebbe stata, tuttavia, per i casi successivi, «messa all’indice e surrogata con una diversa formula». Ci pare ovvio. Non l’antica gloria, ma una nuova (7) terribile schiavitù Garibaldi sta rendendo alla Sicilia. Meglio quindi non mettere il dito sulla piaga. E poi si dimostra ancora una volta che in Sicilia non esiste alcuna rivoluzione. E che non esistono affatto i volontari dei quali tanto parla la storiografia ufficiale.

I picciotti di mafia – Cos’altro vogliamo far notare di grande importanza? La mentalità padronale e mafiosa che, a Rampingallo, come altrove, caratterizzerà l’arruolamento dei picciotti? In verità non si tratta affatto di insorti, come ci è stato detto e ripetuto, né di gente politicizzata, né infine di gente che ha intenzione di accettare un vero e proprio rapporto gerarchico di tipo militare, sia pure in modo semplice come si addice ai guerriglieri ed agli insorti, da che mondo è mondo. Ma si tratta soltanto di un rapporto personale di obbedienza verso questo o quell’altro pezzo grosso che, a sua volta, ha rapporti con Garibaldi o con i suoi collaboratori.

Peraltro se questa gente fosse stata veramente sul piede di guerra, non sarebbe stato necessario andarla a prelevare. Né tantomeno ci sarebbe stato bisogno della commissione o spedizione scritta (perdippiù firmata da Gari- baldi). Adempimento burocratico, questo, che vuole in qualche modo accreditare il Sant’Anna ed i suoi uomini nel caso specifico. In altra occasione accrediterà altri Sant’Anna ed altre persone di loro fiducia.

Per fare folla, tuttavia, e per fare intendere all’opinione pubblica internazionale che il Popolo Siciliano voglia veramente l’unità d’Italia e l’intervento liberatorio di Garibaldi, questi reclutamenti e la qualità delle persone che vi provvedono di volta in volta e gli stessi picciotti di mafia andranno a meraviglia. Crediamo, per la verità, che il Sant’Anna volesse quel foglio anche per avanzare diritti a futuri rimborsi di spesa. I cosiddetti picciotti, infatti, venivano pagati dai signori ai quali «ubbidivano devoti» già da tempo. Con l’impresa garibaldina molti di loro avranno anche una pensione ereditaria.

Al Baglio di Rampingallo giungono le voci che da Palermo è partito il Generale Landi con tremila uomini per sbarrare il passo all’Armata Gari- baldina. Altre voci parlano di truppe che sarebbero state mandate via mare contro i nostri eroi. Garibaldi se ne preoccupa alquanto.

Decide, senza indugi, di accelerare i tempi per andare a Salemi, «che – come ci spiega il Bandi – siede in vetta ad un poggio assai scosceso, e si tratta di giungervi per sentieri aspri e fuori mano».

Garibaldi (con Bixio e con i carabinieri genovesi) si avvia velocemente verso Salemi, mentre il grosso della compagnia «si raccoglieva e si metteva in ordine» per marciare a sua volta.

Foto tratta da it.bastingrews.com

(1) Vogliamo ricordare ai nostri lettori che in Italia si arrivò a definire Agiografia Risorgi- mentale la storia ufficiale del Risorgimento, appunto. L’etimologia della parola viene dal greco (αγιος, santo, e γραφω, scrivo) e, com’è noto, si riferisce ad alcuni testi sacri della Bibbia. Il riferimento al risorgimento è ovviamente ironico. Si è verificato però che, a distanza di anni, l’Agiografia Risorgimentale venisse accettata come storia vera dalla quale fare derivare anali- si, valutazioni, riferimenti ecc., e si sa, in questa situazione, non c’è ironia che basti.

(2) G. Bandi, op. cit., pag. 72.

(3) G. Bandi, op. cit., pag. 73.

(4) G. C. Abba, op. cit., pag. 59.

(5) G. Bandi, op. cit., pagg. 77 e 78.

(6) G. Bandi, op. cit., pag. 78.

(7) G. Bandi, op. cit., pagg. 78 e 79.

Read More

La vera storia dell’impresa dei mille 8/ Anche Indro Montanelli ammette il ruolo della mafia. La misteriosa morte di Ippolito Nievo

Posted by on Mag 5, 2019

La vera storia dell’impresa dei mille 8/ Anche Indro Montanelli ammette il ruolo della mafia. La misteriosa morte di Ippolito Nievo

In questa ottava parte del volume “… e nel mese di maggio del 1860 la Sicilia diventò Colonia”, Giuseppe Scianò elenca le prese di posizione di alcuni storici e commentatori. Dalle dichiarazioni sincere – ma anche dalle bugie – emerge con chiarezza il ruolo degli Inglesi, che avevano preparato lo ‘sbarco dei mille’ con meticolosità. Ed viene fuori, soprattutto, il ruolo dei ‘picciotti’ di mafia  

di Giuseppe Scianò

Commenti e testimonianze sullo Sbarco dei garibaldini avvenuto a Marsala l’11 maggio 1860 – Sulle vicende di Marsala si è scritto parecchio e si è detto tutto ed il contrario di tutto. La verità che si sia trattato di un colpo di mano inglese, non occasionale, ma inserito in un piano ben preciso, tuttavia, emerge a poco a poco e in modo inoppugnabile dalle tante dichiarazioni sincere e, paradossalmente, anche dalle tante bugie. Si tratta di testimonianze tirate in ballo, le une e le altre, da coloro che, da diversi punti di vista e talvolta con interessi contrapposti, si sono occupati, volontariamente o involontariamente, delle vicende risorgimentali siciliane.

Non potendole citare tutte, abbiamo riportato le testimonianze più significative, citandone di volta in volta le fonti.

Indro Montanelli – Un unitario e risorgimentalista impenitente, Indro Montanelli, il quale già in altre occasioni aveva fatto qualche battuta a proposito dell’accoglienza che i Siciliani avevano riservato a Garibaldi ed ai suoi Mille a proposito dello sbarco così ebbe modo di esprimersi:

«Gli inizi non furono promettenti. L’unico che diede un caldo benvenuto ai volontari fu il Console inglese. La popolazione si chiude in casa. E lo stesso vuoto incontrò la colonna l’indomani, quando si mise in marcia. Solo a Salemi, Garibaldi fu accolto con entusiasmo, perché a lui si unì una banda di “picciuotti” comandata dal Barone Sant’Anna. Se un “pezzo di novanta” come lui si schierava con Garibaldi, voleva dire che su costui c’era da fare affidamento». (13)

Ci sentiamo in dovere di precisare che le virgolette sono nostre. Non ne potevamo fare a meno, soprattutto nel momento in cui appaiono i picciotti di mafia ed il loro pezzo da novanta, Barone Sant’Anna.

Non ci pare nemmeno corretto che il Console di S.M. Britannica sia lì, in piazza, a farsi in quattro per festeggiare l’inizio dell’invasione di quel Regno delle Due Sicilie, presso il quale egli stesso ha svolto e continua a svolgere compiti di rappresentanza diplomatica (si fa per dire, perché è fin troppo evidente il suo ruolo di agente del Governo di Londra incaricato di agevolare azioni destabilizzanti di ogni tipo). Analoga considerazione vale per il Console Sabaudo. Ma Montanelli non si preoccupa di evidenziare questo particolare.

Va tutto bene lo stesso? No, certamente. Ma è sufficiente constatare che il famoso Indro abbia ammesso che a Marsala la gente si chiuse in casa e vi restò chiusa anche durante la partenza di Garibaldi alla volta di Salemi. Ed il Montanelli parla chiaramente anche dell’apporto della mafia. E non è poco… per un unitario di ferro.

Giuseppe Cesare Abba – Persino l’Abba è costretto a parlare delle bandiere Inglesi. Si vede che erano veramente molte. Anzi: troppe! A sbarco già avvenuto, scrive nelle sue noterelle, proprio con la data dell’11 maggio 1860:

«Siedo sopra un sasso, dinanzi al fascio di armi della mia compagnia, in questa piazzetta squallida, solitaria, paurosa».

Dopo qualche osservazione sul Capitano Alessandro Ciaccio, che piange di gioia e dopo aver fatto qualche altro piccolo riferimento di cronaca, il nostro Autore aggiunge:

«Su molte case sventolano bandiere di altre nazioni. Le più sono Inglesi. Che vuol dire questo?». (14)

Si è detto che l’Abba pone un quesito al quale crediamo di avere risposto abbondantemente. Ma riteniamo che gli avessero già risposto esaurientemente quasi subito altri autori. E riteniamo altresì che l’Abba si sia risposto da sé, nel momento in cui è costretto ad ammettere che sventola una grande quantità di bandiere Inglesi.

Un fatto strano, comunque. Per un cantore, per un apologeta dell’impresa garibaldina, per un operatore di disinformazione storica e politica del Risorgimento, è senza dubbio un sacrificio dare spazio a questo scorcio di verità. Ma non può farne a meno: il fenomeno è dilagante e si ripeterà a Palermo, a Catania, a Messina. Ovunque in Sicilia.

Va da sé un’altra considerazione. L’Abba non afferma di aver visto bandiere italiane. Ci fa quindi dedurre che non ve ne siano. Neppure una. Non si tratta di un fatto secondario. Se infatti un agiografo come l’Abba avesse visto a Marsala un solo fazzoletto tricolore, lo avrebbe moltiplicato per cento… Saranno poi i pittori, i pennaioli ed i poeti (incaricati dal Governo di Vittorio Emanuele o mossi dalla voglia di far carriera o dalla necessità di sopravvivere) che faranno miracoli, descrivendo folle osannanti, talvolta in ginocchio, che accolgono il Duce dei Mille fin dal molo del porto, in un tripudio di gigantesche bandiere tricolori.

Dobbiamo tuttavia ricordare che uno dei più famosi commentatori del libro di Abba, in una nota, cerca di mettere una pezza alla testimonianza in questione. Ed infatti scrive:

«(La bandiera inglese significa) che molti Inglesi vi si trovavano per l’industria vinicola. La bandiera metteva al riparo dal bombardamento». (15)

È appena il caso di fare rilevare che il bombardamento vero e proprio, per la verità, non vi era mai stato. E che si trattava di pochissime cannonate a vuoto e puramente simboliche che peraltro erano già terminate. Mentre – come abbiamo già puntualizzato – le bandiere Inglesi e le tabelle con la scritta domicilio inglese si sarebbero viste (e mantenute a lungo) anche in altre città della Sicilia, dove non vi erano industrie vinicole degli Inglesi… e neppure gli Inglesi stessi.

Bandiere e tabelle sarebbero servite in verità a moltissime famiglie siciliane per mettersi al sicuro (o meglio, per tentare di mettersi al sicuro) dai saccheggi, dalle violenze e dagli stupri, che non sarebbero certamente mancati. E che, anzi, in non poche occasioni, avrebbero caratterizzato il comportamento dei liberatori, nonché dei banditi e dei malfattori locali loro alleati.

Abbiamo già ricordato che l’11 maggio 1860, a Piazza della Loggia, a Marsala, durante la parata garibaldina si era rimediata a stento la sola bandiera italiana che Giorgio Manin aveva tirato fuori da un apposito astuccio. Questo fatto la dice lunga, troppo lunga… E conferma che le bandiere italiane non esistevano nel maggio 1860. Né a Marsala, né in tante città della Sicilia. Fatte salve ovviamente quelle poche eccezioni che confermano la regola.

Faremmo un torto a G. C. Abba se non dicessimo che egli stesso si incarica di fare qualche affermazione atta a compensare, probabilmente, gli
effetti negativi di alcune considerazioni, in apparenza ingenue, o di qualche
lapsus freudiano. Come quando, ad esempio, ha fatto cenno alla «piazzetta,
squallida, solitaria, paurosa». La compensazione avviene allorché, per
restare in tema, fa appunto una poco credibile descrizione dei festeggiamenti (probabilmente inventati ed idealizzati nel lungo periodo di tempo trascorso fra la sua partecipazione all’impresa ed il momento in cui avrebbe curato l’ultima stesura della sua opera) dei quali nemmeno Garibaldi in persona ed il suo fedele ufficiale Bandi fanno cenno, come vedremo.

Così scrive Cesare Abba:

«Ora la città è nostra. Dal porto alle mura corremmo bersagliati di fianco. Nessun male. Il popolo applaudiva per le vie; frati di ogni colore (sic!) si squarciavano la gola gridando; donne e fanciulli dai balconi ammiravano. “Beddi! Beddi!” si sentiva da tutte le parti».

Eppure poco prima aveva scritto:

«La città non aveva ancora capito nulla; ma la ragazzaglia era già lì, venuta giù a turba».(16)

Ci insospettisce, altresì, ma non più di tanto, il fatto che l’Abba non abbia detto «alcuni ragazzi» bensì abbia usato il termine, piuttosto dispregiativo, di «ragazzaglia». Ci dovrebbe far riflettere anche la precedente frase:

«La città non aveva ancora capito nulla…». (17)

Come mai la città avrebbe festeggiato se non aveva «capito nulla»? E come mai pur non avendo capito nulla aveva atteso l’evento liberatore? E come mai, senza avere ancora capito nulla, secondo quanto attestano le fonti ufficiali, sarebbero stati proprio i cittadini di Marsala quelli che volevano ad ogni costo Garibaldi alla testa della loro rivoluzione?

L’agiografia risorgimentale dell’Abba diventa, insomma, un boomerang per l’eccessivo entusiasmo patriottico dell’Autore del testo «sacro» Da Quarto al Volturno.

Non sottilizziamo ed andiamo ad uno di quegli episodi secondari che però, a tempo e luogo opportuni, possono assumere ruolo e funzione di testimonianza. L’Abba ci aveva, sempre nella noterella del giorno undici, parlato di un incontro interessante:

«Alcuni frati bianchi ci salutavano coi loro grandi cappelli: ci spalancavano le loro enormi tabacchiere: e stringendoci le mani, ci domandavano:

“Siete reduci, emigrati, svizzeri?”».

Francamente ci sembra strano che i frati, i quali dovevano necessariamente possedere un bagaglio di cultura e di informazioni politiche (…oltre che di tabacco) superiore alla media, facessero una domanda del genere e dimostrassero quindi di non essere coinvolti nell’entusiasmo popolare, del quale lo stesso Abba parlerà di lì a poco (di cui abbiamo fatto riferimento).

Una cosa, seppur inquietante, i frati l’avevano comunque confessata. Per loro i Garibaldini potevano anche essere stranieri. Meglio se svizzeri…
Non li avrebbero comunque conosciuti, né riconosciuti.

Bolton King. Inglesi a Marsala? Bolton non lo sa… – Nel 1903, Benedetto Croce, mostro sacro della filosofia e della storiografia italiana, unitario di ferro (ancorquando meridionale), nel corso della presentazione di una nuova opera di Bolton King, volle fare cenno a quella che era l’opera più conosciuta in Italia e sulla quale avrebbero studiato diverse generazioni di docenti, di allievi e di studiosi: La storia dell’unità d’Italia, in quattro volumi. La prima edizione della quale era stata pubblicata in lingua inglese nel 1899.

Ebbene, il Croce in proposito affermò:

«La “Storia dell’Unità d’Italia” benché elaborata con conoscenza completa del vasto materiale erudito di quel periodo, pur non tanto mi era parsa notevole per l’erudizione quanto per la finezza ed equilibrio del giudizio, che mette sotto giusta luce uomini ed avvenimenti controversi, e desta quasi di continuo quella persuasione, quell’intimo assenso, che si esprime con un “così è”». (18)

Ipse dixit, insomma… L’opera dell’illustre inglese è senza dubbio ponderosa ed interessante. Parte, però, da alcuni dati che ritiene scontati e certi, ma che invece a nostro giudizio sono discutibili. Talvolta mai avvenuti.

Il buon Bolton King, del resto, se in buona fede, non avrebbe mai potuto immaginare che il materiale erudito da cui avrebbe attinto la conoscenza della storia d’Italia, in realtà gli avesse fornito una serie di notizie rielaborate e/o falsificate ab origine. Non sappiamo se, venendo in Italia, visitando i luoghi del delitto, interrogando i testimoni oculari, lo scrittore inglese avrebbe smentito se stesso.

Fatto sta che il King non aveva mai messo piede in Sicilia fino al mese di maggio del 1860 (né lo avrebbe fatto dopo), né in Sicilia, né tantomeno in Italia. A questo punto abbiamo il sospetto che Bolton King non fosse stato in buona fede e che anche lui facesse parte della grande congiura della disinformazione per giustificare e legittimare la grande operazione di conquista del Regno delle Due Sicilie.

Ecco, ad esempio, come ci descrive lo Sbarco dei Mille:

«Intanto con i suoi piroscafi Garibaldi giunse a Marsala l’11 maggio. Era riuscito a sfuggire ai vascelli Napoletani in alto mare, ma mentre si stava avvicinando a terra fu avvistato da due incrociatori, che lo inseguirono accanitamente fino nel porto. Una delle sue navi si incagliò e, se il fuoco aperto dai Napoletani non fosse stato troppo largo e sparso, una metà dei suoi uomini non sarebbe certo riuscita a giungere sana e salva sulla terraferma. A Marsala non esisteva la guarnigione, ma la spedizione corse egualmente il rischio di rimanere inchiodata in quel lembo dell’isola, per cui Garibaldi decise di marciare immediatamente su Palermo: salutato con indicibile entusiasmo dalla popolazione, si proclamò Dittatore dell’isola in nome di Vittorio Emanuele e si affrettò quindi ad avanzare su Palermo, mentre La Masa incitava gli abitanti dei villaggi a prendere le armi e mentre le squadre sopravvissute all’impresa della Gancia si univano alle sue forze».(19)

Così fu? Non ci pare. Manca peraltro ogni riferimento proprio all’intervento inglese. Ed invece spunta un entusiasmo che, soprattutto a Marsala, nella realtà, non era mai esistito. E questa descrizione dei fatti non ci pare ammissibile per un Autore così importante. Eppure egli aveva scritto:

«La politica del Governo Palmerston verso l’Italia si proponeva tre obiettivi fondamentali: soddisfare le aspirazioni italiane cacciando dal Paese gli austriaci; far cessare l’influenza francese in Italia; indebolire o distruggere il potere temporale (del Papa)». (20)

Ammetteva quindi che l’Inghilterra aveva scelto fra i due sovrani (peraltro imparentati fra loro, Vittorio Emanuele II e Francesco II, legati da vincoli di sangue e di parentela agli Asburgo), quale dei due buttare giù dalla torre e quale invece salvare adottandolo ed aiutandolo a crescere. Se non addirittura costruendolo a suo uso e consumo.

Come poteva l’Inghilterra rischiare, ormai, che a Marsala il proprio progetto colasse a picco? Qualcosa doveva fare e doveva già aver pur fatto!… O no? Ma Bolton King finge di non vedere, di non sapere. Anzi si inventa una sua verità a totale supporto della propaganda filo-unitaria.

Garibaldi: una frase che rafforza i sospetti – Scrive il Rosada:

«Dodici anni dopo, il Duce dei Mille riconosce lealmente il suo debito scrivendo nelle sue memorie:

“La presenza dei due legni da guerra Inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera di Albione contribuì, anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed, io, beniamino di cotesti signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro Protetto”».

Questa frase di Garibaldi, anziché dissipare insinuazioni e sospetti, li avrebbe rafforzati. Ne condividiamo il contenuto, perché l’influenza e gli interventi dell’Inghilterra furono veramente decisivi nei fatti del 1860 e degli anni immediatamente successivi. Ma la macchina dell’agiografia risorgimentale non sarebbe stata neppure sfiorata da questo momento di sincerità dell’Eroe dei Mille.

Se quest’ultimo avesse capito, fin dall’inizio, dove sarebbe arrivato il suo mito, probabilmente non si sarebbe lasciato andare ad una confessione così significativa e compromettente.

(20) Bolton King, op. cit., vol. III, pag. 140.

Denis Mack Smith e Ippolito Nievo – Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo, Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un vero best-seller, è La storia della Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane però immutata.

Ci confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito Nievo:

«La rivoluzione era sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e qualche paura dei proprietari». (21)

Un giudizio, questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto al guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da settentrionale». Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in particolare per il Nievo. Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere dalla considerazione che la diversità etnica non ha niente a che vedere con i fatti) ciò non significa che il grande scrittore non avesse capito meglio di tanti Meridionali e di tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri Settentrionali e di tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza degli eroi Garibaldini e dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)

Cosa, questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel rispetto della… ragion di Stato.

Ma per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo Bianchi:

«Ippolito Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla ‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario) come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque. Perì in lui il poeta che avrebbe cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto lui, venne poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».

Il Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero, attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato molto la verità.

Ancora oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione «unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.

Infatti, dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili (riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.

Si può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che, del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non sopravvisse nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena trent’anni.

Sulla tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo; l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…

(13) Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento, Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli, scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo. In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente «picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante», apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…

Fine ottava puntata/ continua

Foto tratta da questionegiustizia.it

(14) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(15) G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.

(16) G. C. Abba, op. cit., pag. 51.

(17) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(18) Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag. 11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.

Denis Mack Smith e Ippolito Nievo – Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo, Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un vero best-seller, è La storia della Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane però immutata.

Ci confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito Nievo:

«La rivoluzione era sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e qualche paura dei proprietari». (21)

Un giudizio, questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto al guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da settentrionale». Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in particolare per il Nievo. Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere dalla considerazione che la diversità etnica non ha niente a che vedere con i fatti) ciò non significa che il grande scrittore non avesse capito

meglio di tanti Meridionali e di tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri Settentrionali e di tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza degli eroi Garibaldini e dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)

Cosa, questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel rispetto della… ragion di Stato.

Ma per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo Bianchi:

«Ippolito Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla ‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario) come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque.

Perì in lui il poeta che avrebbe cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto lui, venne poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».

Il Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero, attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato molto la verità.

Ancora oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione «unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.

Infatti, dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili (riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.

Si può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che, del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non sopravvisse nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena trent’anni.

Sulla tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo; l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…

(13) Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento, Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli, scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo. In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente «picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante», apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…

Fine ottava puntata/ continua

(14) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(15) G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.

(16) G. C. Abba, op. cit., pag. 51.

(17) G. C. Abba, op. cit., pag. 50.

(18) Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag. 11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.

(19) Bolton King, op. cit., vol. III, pag. 179.

Fonte

Read More

La menzogna delle nobili origini della mafia: Enzo Ciconte svela un grande equivoco

Posted by on Feb 6, 2019

La menzogna delle nobili origini della mafia: Enzo Ciconte svela un grande equivoco

Da sempre impegnato nella ricostruzione storico-antropologica dei fenomeni malavitosi del mezzogiorno d’Italia e non solo, Enzo Ciconte con La grande mattanza-storia della guerra al brigantaggio, edito da Laterza(2018) intraprende una trattazione storica che, in via definitiva, ha di mira un chiarimento necessario per quanti intendano prendere sul serio la storia risorgimentale e post-risorgimentale. Con penna agile e sempre guidata dalla chiarezza concettuale del comunicatore esperto (Ciconte è ormai da anni docente di Storia della malavita organizzata di Roma tre e di Storia delle mafie italiane a Pavia), l’autore guida il lettore dentro i meandri della tormentata storia dell’unità d’Italia, delle contraddizioni, nonché delle forzature sul piano delle soluzioni a problemi che avrebbero dovuto ricevere una risposta matura e soprattutto civile da parte del Regno d’Italia, nato all’indomani del 1861. Un saggio segnato da grande onestà intellettuale, se si pensa che oltre a denunciare la presa di posizione dei piemontesi in relazione al fenomeno del brigantaggio, ci si scrolla di dosso qualsiasi rischio di agiografia ultrameridionalista. Ciconte, infatti, denuncia la corruzione della rampante borghesia meridionale che approfittando del nuovo ordine politico post-borbonico ha di fatto tradito la causa politico-sociale del mezzogiorno, appiattendosi agli interessi della monarchia savoiarda. Un esempio su tutti è proprio il parlamentare abruzzese Pica, autore della famigerata legge militare che nel 1863 ha costituito l’unica risposta concreta e crudele al fenomeno del brigantaggio post-unitario: un neoparlamentare meridionale che risponde in quel modo ai problemi delle sue stesse zone di provenienza. Ma queste pagine storiche meritano una menzione particolare, soprattutto perché puntano ad un obiettivo fondamentale: chiarire una volta per tutte che i briganti non sono stati i “padri nobili”, gli “antenati illustri” dei mafiosi. Ciò è dimostrato dalla distribuzione geografica dei due fenomeni che, stando alle analisi dello storico calabrese, non conoscono una sovrapposizione per cui lì dove ci sono briganti non ci sono mafiosi e viceversa.

D’altronde, come potevano i briganti postunitari essere coinvolti con la mafia, se avevano dichiarato guerra al nuovo regno d’Italia? La mafia, infatti, fu ufficialmente scoperta nel 1875 con l’inchiesta parlamentare di Franchetti e Sonnino, parlamentari che inquadrarono il fenomeno mafioso come qualcosa di molto addentro alle strutture istituzionali, nella pubblica amministrazione: insomma un fenomeno che interpellava già allora i ceti dirigenti. Un’opera snella ma dai toni stringenti quella di Ciconte, che tenta di diradare la coltre di pregiudizi granitici di quanti ancora oggi preferiscono optare per la criminalizzazione del mezzogiorno d’Italia, a prescindere da qualsiasi dinamica storica, sociale ed economica, al di là di qualsiasi rivisitazione   storiografica robustamente dimostrata. Un contributo storiografico che soprattutto smonta la mitologia artificiosa spesso accettata e promossa dai mafiosi stessi di vantare “origini brigantesche”, usata come abluzione laica per legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica, giocando con la suggestione popolare, alla Robin Hood, del “rubare ai ricchi per dare ai poveri”; ma anche tollerata da quanti sbrigativamente hanno sempre voluto fare “di tutta un’erba un fascio”. Se qualcuno, poi, intende sollevare perplessità sull’attendibilità delle fonti utilizzate da Ciconte, è sufficiente ricordare che egli si è avvalso, in aggiunta ad altri riferimenti bibliografici: dell’Archivio centrale dello Stato, dell’Archivio di Stato di Catanzaro, dell’Archivio di Stato di Torino, dell’Archivio del museo del Risorgimento di Torino, dell’Archivio storico della Camera dei deputati, dell’Archivio Ufficio storico Stato maggiore  dell’esercito conservato a Roma, nonché dell’Archivio della Biblioteca di storia moderna e contemporanea di Roma.

fonte read:https://etuttaunaltrastoria.com/index.php/2019/01/29/la-menzogna-delle-nobili-origini-della-mafia-enzo-ciconte-svela-un-grande-equivoco/?fbclid=IwAR2j4_vir0tXJvKYf9lYwfgfJ7GZcw0AwmlsjUnrbYhMi64H5iQ-Xu6OuiQ

Read More