Per questo e difficile sconfiggere i mafiosi. Perche dal 1860 si annidano dentro le istituzioni. Ai piu alti livelli. Era cosi gia ai tempi di garibaldi, di crispi e di giolitti. Ed e cosi ancora oggi. Da qui le enormi difficolta dei magistrati che oggi indagano sulle stragi del 1992. Perche vanno a toccare gli interessi di pezzi dello stato. Cioe di uomini ancora al vertice del nostro paese
PER QUESTO E DIFFICILE SCONFIGGERE I MAFIOSI. PERCHE DAL 1860 SI ANNIDANO DENTRO LE ISTITUZIONI. AI PIU ALTI LIVELLI. ERA COSI GIA AI TEMPI DI GARIBALDI, DI CRISPI E DI GIOLITTI. ED E COSI ANCORA OGGI. DA QUI LE ENORMI DIFFICOLTA DEI MAGISTRATI CHE OGGI INDAGANO SULLE STRAGI DEL 1992. PERCHE VANNO A TOCCARE GLI INTERESSI DI PEZZI DELLO STATO. CIOE DI UOMINI ANCORA AL VERTICE DEL NOSTRO PAESE
Quando oggi parliamo di trattativa Stato-mafia, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con lUnità dItalia o, peggio ancora, con la mala unità dItalia e sin dai tempi dellinvasione garibaldina che si servì per le sue discusse e dubbie vittorie del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli.
In Sicilia, in quel lontano maggio del 1860, accorsero con i loro famosi picciotti in soccorso di Garibaldi i più autorevoli capi-mafia dellepoca come Giuseppe Coppola di Erice i fratelli SantAnna di Alcamo, i Miceli di Monreale, il famigerato Santo Mele così bene descritto da Cesare Abba, Giovanni Corrao referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo nel quartiere del Borgo vecchio e che poi addirittura diverrà generale garibaldino e che verrà ucciso 3 anni dopo nellagosto del 1863 nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose.
Un apporto determinante degli uomini donore di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro Storia della mafia, che Garibaldi senza laiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come, del resto, lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto laiuto determinante dei camorristi che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dellordine pubblico con i loro capi bastone Tore de Crescenzo , Michele o chiazziere e tanti altri. Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o no a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e detrminante contributo allUnità dItalia. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato,per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale.
Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo, Giuseppe Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joe Bananas, che nel suo libro autobiografico Uomo donore, a cura di Sergio Lalli, a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione, così testualmente descrive lapporto dato dalla mafia allimpresa garibaldina. Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra tradizione (= mafia) si schierarono con le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi. Più esplicito di così, a proposito dellaiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere.
Con lUnità dItalia e con il determinante contributo dato allimpresa dei Mille la mafia esce dallanonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dellItalia pre-unitaria e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà di fatto una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese. E di questa metamorfosi della mafia, dallItalia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto Rocco Chinnici, lideatore del pool antimafia ed una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione in un sanguinoso attentato in via Pipitone Federico, a Palermo.
Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato in qualità di capo dellufficio istruzione del tribunale di Palermo ed ideatore come anzidetto del pool antimafia di cui allora fecero parte tra gli altri giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello, fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche.
Da studioso fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi promosso a Grottaferrata il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura così, a proposito dellevolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi: Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dallunificazione del Regno dItalia alla prima guerra mondiale e allavvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia.
La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia affermò Chinnici in quella occasione a conforto da quanto da noi sostenuto – non prima ma subito dopo lunificazione del Regno dItalia. Ed ancora in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con laiuto determinante dato a Garibaldi e successivamente con lUnità dItalia, Rocco Chinnici ebbe a dire: La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, unalleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere.
Ed è questo patto scellerato tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dallimpresa garibaldina e poi come sosteneva Rocco Chinnici dallUnità dItalia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che sin dagli albori dellunità dItalia hanno insanguinato la nostra terra per iniziare con la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti dei pugnalatori di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palazzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che della lotta alla mafia ne hanno fatto una ragione di vita e purtroppo anche di estremo sacrificio sino alla morte.
Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via DAmelio dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quello stesso Paolo Borsellino che da quanto, in questi ultimi tempi e alla luce di nuove risultanze processuali che hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi, ci è stato dato da apprendere si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra Stato e mafia e per questo ha pagato, per le connivenze tra mafia e servizi segreti deviati, con la vita il suo atto di coraggio.
Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti un mix di soggetti: Stato, mafia,banditismo (nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti, massoneria deviata e quantaltro che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare, da 153 anni a questa parte, la vita dei siciliani onesti. Quando ce ne potremo liberare? Con laria che tira sarà difficile.
Spaghetti, pizza e mafia. Sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti triti e ritriti, spesso impiegati per dipingere l’intera Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra gli Stati semi-falliti».
L’impresa dei mille,
nella marcia che va da Marsala a Salemi, comincia a prendere il ‘colore’ della
mafia. Ci sono i servizi segreti inglesi, rappresentati dal Barone Sant’Anna. E
cominciano ad arrivare i picciotti della mafia che ne combineranno di tutti i
colori. E poi si chiedono come mai lo Stato italiano tratta con la mafia,
quando la prima ‘Trattativa” con i mafiosi l’ha fatta Garibaldi con gli
inglesi…
di Giuseppe
Scianò
GARIBALDINI
IN MARCIA DA MARSALA A SALEMI – 12 maggio 1860: sulla strada per Salemi. «Dove sono gli
insorti?»
Torniamo alla cronaca dei fatti. Garibaldi ed i
suoi Mille, «conquistata» Marsala, si spostano verso Salemi. Questa, sì,
dovrebbe essere una città amica perché è sotto l’influenza del Barone Sant’Anna.
Uomo di primo piano, anzi pezzo da novanta, secondo Montanelli e secondo non
pochi autori. Certamente, il Barone è agganciato ai servizi segreti britannici
ed esponente egli stesso della Massoneria filoinglese. L’unica che conti
veramente in Europa e nel mondo.
Una sosta – a circa metà strada – è prevista,
intanto nel feudo Rampingallo, a dieci chilometri circa da Salemi. Si tratta di
una grande proprietà del Barone Mistretta. A Rampingallo prima e a Salemi dopo,
sono previsti gli incontri, oltre che con i galantuomini, anche con le squadre
di sedicenti insorti in armi. Vedremo di che cosa si tratterà.
Mentre la colonna si mette in cammino, proprio
alle porte di Marsala, si svolge un interessante, significativo dialogo fra
Garibaldi ed il suo ufficiale di Stato Maggiore, Giuseppe Bandi. Chi
è costui?
Giuseppe Bandi, aiutante e fedelissimo di
Garibaldi, giovane e brillante ufficiale, toscanaccio quasi quanto Indro
Montanelli (pur senza la finezza né la cultura dello stesso Montanelli), è a sua
volta, in maniera moderata, agiografo (1) ed apologeta della Spedizione dei
Mille. Qualche volta però perde le staffe e riesce ad essere molto sincero.
Cosa, questa, che avviene appunto alla partenza da Marsala per raggiungere il
feudo di Rampingallo. Il Bandi è infatti deluso, più di quanto non sembri o non
voglia ammettere, per l’accoglienza trovata a Marsala.
È deluso altresì perché non vede «…gli
innumerevoli insorti di cui era corsa fama che brulicassero le campagne
siciliane».(2)
Vale la pena di seguirlo per strappargli qualche
informazione preziosa, fra quelle annotate in successive pubblicazioni. Così ci
racconterà, dopo diversi anni, la storica conversazione con il suo Generale.
«Non volevo mostrarmi scoraggiato, né uomo di poca
fede ma mi premeva chiarire qual fosse l’impressione suscitata nell’animo di
Garibaldi dalle prime accoglienze, che ci avevano fatto i Siciliani. E, così,
avvicinatomi a lui, con non so qual pretesto, gli dissi:
“O dove sono, Generale, que’ magni insorti che
promettevano Roma e Toma? Mi pare che la gente guardi e passi, ed abbia una
voglia matta di starsene allegramente a vedere quel che accadrà”.
Il Generale rispose con la sua inalterabile
tranquillità: “Pazienza, pazienza; vedrete che tutto andrà bene. Perché la
gente si scuota e ci venga dietro, bisogna farle vedere che sappiamo picchiare.
Il mondo è amico dei coraggiosi e dei fortunati”.
Capii che diceva una cosa santa, e mi tacqui; ma
dopo poco, tornai a farmi vivo per domandargli:
“O dov’è Rosolino Pilo? Dov’è Corrao? Non ci dissero
a Genova che erano padroni di mezza l’isola (sic)?”.
“Ce lo dissero…, – soggiunse il Generale – ma che
volete? Avranno fatto quel che poterono fare, e adesso saranno per la
montagna”».(3)
Garibaldi non si preoccupa. È verosimile, infatti,
che lui non sappia dove diavolo siano gli insorti in quel momento, ma sa bene
dove sono gli Inglesi. Quelli, sì, che brulicavano in Sicilia. E la marcia
verso Salemi (e poi verso Calatafimi e verso Palermo e via di seguito) sarà solo
una marcia verso una vittoria prefabbricata. Nel conseguimento di tale
vittoria, tuttavia, non mancheranno sorprese ed incidenti di percorso.
Quelli veri intendiamo. Non programmati…
Tappa
di Rampingallo – La prima sosta nel loro spostamento da Marsala a Salemi, i
Garibaldini la fanno dunque nel feudo Rampingallo. Il centro aziendale è
costituito da una vetusta ma comoda struttura edilizia, caratteristica della
campagna siciliana: ’u bagghiu
(il baglio). Nel cui interno trovano posto le abitazioni del proprietario e dei
suoi più diretti collaboratori e talvolta la «cappella», nella quale si
celebrano anche importanti funzioni religiose. Al centro, di solito, esiste un grandissimo
spazio capace di varie attività di trasformazione e di conservazione dei
prodotti agricoli. Rifugio sicuro talvolta per intere greggi, soprattutto di
notte.
Così
è anche il baglio di Rampingallo. I Garibaldini pertanto, ed i loro capi, vi
troveranno comoda ospitalità. Qui, come ci spiega il Bandi, verranno raggiunti
da una prima squadra di picciotti,
guidata dal fratello del Barone Sant’Anna. Questi diventerà sempre più, deus
ex machina ed autorità a Salemi, come ad Alcamo ed in altre
località della provincia di Trapani.
G. C. Abba ci descrive questi presunti insorti in
maniera tale da farci capire che, sì, lui li chiama insorti, ma sono piuttosto
uomini vestiti di «pelli di pecora sopra gli altri panni, tutti paiono gente
risoluta» e sono «armati di doppiette da caccia e di picche bizzarre».(4)
Non garantisce insomma, che siano veri ribelli,
veri insorti.
Poco prima il Bandi aveva incontrato, appunto, il
fratello dello stesso Barone Sant’Anna con sette o otto signori, «tutti a
cavallo, con le papaline in testa e con gli schioppi attraverso alla sella come
tanti beduini». Questi, poco dopo, avvicinatisi al Bandi avrebbero gridato
«Viva Cicilia! Viva la Taglia (Viva Sicilia! Viva l’Italia)».(5)
Scrive testualmente il Bandi per evidenziare,
giustamente, che quei signori non conoscevano bene l’italiano, né cosa fosse
l’Italia, né che diavolo questa volesse da loro. Sulla pronunzia della parola
Sicilia in Cicilia, il Bandi tuttavia si sbaglia, perché nel Siciliano è la «C»
che spesso viene pronunziata come una «S» leggera. E non viceversa.
Parlando
della tappa di Rampingallo, è necessario ricordare un altro
episodio narrato dal Bandi. Un episodio che per la verità il toscano cita per
un suo motivo specifico, ma che noi riprendiamo per un’altra ragione.
Mentre Garibaldi, con l’aiuto del Bandi e di un altro garibaldino, si stava
spogliando per andare a letto (non dimentichiamo che l’Eroe è afflitto da dolori
reumatici e da vari acciacchi), il Barone Sant’Anna in persona chiede di essere
ricevuto ed entra nella stanza, dicendo che ha bisogno di un’autorizzazione, di
una lettera cioè scritta (il Bandi parla di spedizione) che lui, a sua volta
avrebbe consegnato «a due de’ suoi uomini» e con la quale Garibaldi
«dichiarasse che dava loro facoltà di levare gente per conto suo in certi
villaggi non lontani, promettendo che i due uomini sarebb ro tornati quanto
prima, recandoci qualche buon aiuto».
Garibaldi, racconta sempre il Bandi, gli dice:
«Scrivete subito in mio nome una “spedizione” per
i due uomini di Sant’Anna, acciò si sappia che la gente che arruoleranno sarà
arruolata per me; e quando l’avrete scritta, firmerò».(6)
Il Bandi cita questo episodio anche per
evidenziare la formula che lui avrebbe adottato per indicare l’autorità dalla
quale viene emessa l’autorizzazione a svolgere quella specie di incarico (la
formula del Bandi per la cronaca così recita: «Giuseppe Garibaldi, Generale del
Popolo italiano, disceso in Sicilia per rendere alla nobile isola l’antica
gloria e libertà, dà commissione ecc.»).
In quel momento Garibaldi mostra di gradire la proposta del
Bandi e l’adotta. Tale formula sarebbe stata, tuttavia, per i casi successivi,
«messa all’indice e surrogata con una diversa formula». Ci pare ovvio. Non
l’antica gloria, ma una nuova (7) terribile schiavitù Garibaldi sta rendendo
alla Sicilia. Meglio quindi non mettere il dito sulla piaga. E poi si dimostra
ancora una volta che in Sicilia non esiste alcuna rivoluzione. E che non
esistono affatto i volontari dei quali tanto parla la storiografia ufficiale.
I picciotti di mafia – Cos’altro vogliamo
far notare di grande importanza? La mentalità padronale e mafiosa che, a
Rampingallo, come altrove, caratterizzerà l’arruolamento dei picciotti?
In verità non si tratta affatto di insorti, come ci è stato detto e ripetuto,
né di gente politicizzata, né infine di gente che ha intenzione di accettare un
vero e proprio rapporto gerarchico di tipo militare, sia pure in modo semplice
come si addice ai guerriglieri ed agli insorti, da che mondo è mondo. Ma si
tratta soltanto di un rapporto personale di obbedienza verso questo o
quell’altro pezzo grosso che, a sua volta, ha rapporti con Garibaldi o con i
suoi collaboratori.
Peraltro se questa gente fosse stata veramente sul
piede di guerra, non sarebbe stato necessario andarla a prelevare. Né tantomeno
ci sarebbe stato bisogno della commissione o spedizione scritta (perdippiù
firmata da Gari- baldi). Adempimento burocratico, questo, che vuole in qualche
modo accreditare il Sant’Anna ed i suoi uomini nel caso specifico. In altra
occasione accrediterà altri Sant’Anna ed altre persone di loro fiducia.
Per
fare folla, tuttavia, e per fare intendere all’opinione pubblica internazionale
che il Popolo Siciliano voglia veramente l’unità d’Italia e l’intervento
liberatorio di Garibaldi, questi reclutamenti e la qualità delle persone che vi
provvedono di volta in volta e gli stessi picciotti
di mafia andranno a meraviglia. Crediamo, per la verità, che il Sant’Anna
volesse quel foglio anche per avanzare diritti a futuri rimborsi di spesa. I
cosiddetti picciotti,
infatti, venivano pagati dai signori ai quali «ubbidivano devoti» già da tempo.
Con l’impresa garibaldina molti di loro avranno anche una pensione ereditaria.
Al Baglio di Rampingallo giungono le voci che da
Palermo è partito il Generale Landi con tremila uomini per sbarrare il passo
all’Armata Gari- baldina. Altre voci parlano di truppe che sarebbero state
mandate via mare contro i nostri eroi. Garibaldi se ne preoccupa alquanto.
Decide, senza indugi, di accelerare i tempi per
andare a Salemi, «che – come ci spiega il Bandi – siede in vetta ad un poggio
assai scosceso, e si tratta di giungervi per sentieri aspri e fuori mano».
Garibaldi (con Bixio e con i carabinieri genovesi)
si avvia velocemente verso Salemi, mentre il grosso della compagnia «si
raccoglieva e si metteva in ordine» per marciare a sua volta.
Foto tratta da it.bastingrews.com
(1) Vogliamo ricordare ai nostri lettori che in
Italia si arrivò a definire Agiografia Risorgi- mentale la storia ufficiale del
Risorgimento, appunto. L’etimologia della parola viene dal greco (αγιος, santo,
e γραφω, scrivo) e, com’è noto, si riferisce ad alcuni testi sacri della
Bibbia. Il riferimento al risorgimento è ovviamente ironico. Si è verificato
però che, a distanza di anni, l’Agiografia Risorgimentale venisse accettata come
storia vera dalla quale fare derivare anali- si, valutazioni, riferimenti ecc.,
e si sa, in questa situazione, non c’è ironia che basti.
In questa ottava parte del volume “…
e nel mese di maggio del 1860 la Sicilia diventò Colonia”, Giuseppe
Scianò
elenca le prese di posizione di alcuni storici e commentatori. Dalle
dichiarazioni sincere – ma anche dalle bugie – emerge con chiarezza il ruolo
degli Inglesi, che avevano preparato lo ‘sbarco dei mille’ con meticolosità. Ed
viene fuori, soprattutto, il ruolo dei ‘picciotti’ di mafia
di Giuseppe Scianò
Commenti e
testimonianze sullo Sbarco dei garibaldini avvenuto a Marsala l’11 maggio 1860 – Sulle vicende di Marsala si
è scritto parecchio e si è detto tutto ed il contrario di tutto. La verità che
si sia trattato di un colpo di mano inglese, non occasionale, ma inserito in un
piano ben preciso, tuttavia, emerge a poco a poco e in modo inoppugnabile dalle
tante dichiarazioni sincere e, paradossalmente, anche dalle tante bugie. Si
tratta di testimonianze tirate in ballo, le une e le altre, da coloro che, da
diversi punti di vista e talvolta con interessi contrapposti, si sono occupati,
volontariamente o involontariamente, delle vicende risorgimentali siciliane.
Non
potendole citare tutte, abbiamo riportato le testimonianze più significative,
citandone di volta in volta le fonti.
Indro Montanelli – Un unitario e risorgimentalista
impenitente, Indro Montanelli, il quale già in altre occasioni aveva fatto
qualche battuta a proposito dell’accoglienza che i Siciliani avevano riservato
a Garibaldi ed ai suoi Mille a proposito dello sbarco così ebbe modo di
esprimersi:
«Gli
inizi non furono promettenti. L’unico che diede un caldo benvenuto ai volontari
fu il Console inglese. La popolazione si chiude in casa. E lo stesso vuoto
incontrò la colonna l’indomani, quando si mise in marcia. Solo a Salemi,
Garibaldi fu accolto con entusiasmo, perché a lui si unì una banda di
“picciuotti” comandata dal Barone Sant’Anna. Se un “pezzo di novanta” come lui
si schierava con Garibaldi, voleva dire che su costui c’era da fare
affidamento». (13)
Ci
sentiamo in dovere di precisare che le virgolette sono nostre. Non ne potevamo
fare a meno, soprattutto nel momento in cui appaiono i picciotti di mafia ed il
loro pezzo da novanta, Barone Sant’Anna.
Non
ci pare nemmeno corretto che il Console di S.M. Britannica sia lì, in piazza, a
farsi in quattro per festeggiare l’inizio dell’invasione di quel Regno delle
Due Sicilie, presso il quale egli stesso ha svolto e continua a svolgere compiti
di rappresentanza diplomatica (si fa per dire, perché è fin troppo evidente il
suo ruolo di agente del Governo di Londra incaricato di agevolare azioni
destabilizzanti di ogni tipo). Analoga considerazione vale per il Console
Sabaudo. Ma Montanelli non si preoccupa di evidenziare questo particolare.
Va
tutto bene lo stesso? No, certamente. Ma è sufficiente constatare che il famoso
Indro abbia ammesso che a Marsala la gente si chiuse in casa e vi restò chiusa
anche durante la partenza di Garibaldi alla volta di Salemi. Ed
il Montanelli parla chiaramente anche dell’apporto della mafia.
E non è poco… per un unitario di ferro.
Giuseppe
Cesare Abba
– Persino l’Abba è costretto a parlare delle bandiere Inglesi. Si vede che
erano veramente molte. Anzi: troppe! A sbarco già avvenuto, scrive nelle sue
noterelle, proprio con la data dell’11 maggio 1860:
«Siedo
sopra un sasso, dinanzi al fascio di armi della mia compagnia, in questa
piazzetta squallida, solitaria, paurosa».
Dopo
qualche osservazione sul Capitano Alessandro Ciaccio, che piange di gioia e
dopo aver fatto qualche altro piccolo riferimento di cronaca, il nostro Autore
aggiunge:
«Su
molte case sventolano bandiere di altre nazioni. Le più sono Inglesi. Che vuol
dire questo?». (14)
Si
è detto che l’Abba pone un quesito al quale crediamo di avere risposto
abbondantemente. Ma riteniamo che gli avessero già risposto esaurientemente
quasi subito altri autori. E riteniamo altresì che l’Abba si sia risposto da
sé, nel momento in cui è costretto ad ammettere che sventola una grande
quantità di bandiere Inglesi.
Un
fatto strano, comunque. Per un cantore, per un apologeta dell’impresa
garibaldina, per un operatore di disinformazione storica e politica del
Risorgimento, è senza dubbio un sacrificio dare spazio a questo scorcio di
verità. Ma non può farne a meno: il fenomeno è dilagante e si ripeterà a
Palermo, a Catania, a Messina. Ovunque in Sicilia.
Va
da sé un’altra considerazione. L’Abba non afferma di aver visto
bandiere italiane. Ci fa quindi dedurre che non ve ne siano. Neppure una.
Non si tratta di un fatto secondario. Se infatti un agiografo come l’Abba
avesse visto a Marsala un solo fazzoletto tricolore, lo avrebbe moltiplicato
per cento… Saranno poi i pittori, i pennaioli ed i poeti (incaricati dal
Governo di Vittorio Emanuele o mossi dalla voglia di far carriera o dalla
necessità di sopravvivere) che faranno miracoli, descrivendo folle osannanti,
talvolta in ginocchio, che accolgono il Duce dei Mille fin dal molo del porto,
in un tripudio di gigantesche bandiere tricolori.
Dobbiamo
tuttavia ricordare che uno dei più famosi commentatori del libro di Abba, in
una nota, cerca di mettere una pezza alla testimonianza in questione. Ed
infatti scrive:
«(La
bandiera inglese significa) che molti Inglesi vi si trovavano per l’industria
vinicola. La bandiera metteva al riparo dal bombardamento». (15)
È
appena il caso di fare rilevare che il bombardamento vero e proprio, per la
verità, non vi era mai stato. E che si trattava di pochissime cannonate a vuoto
e puramente simboliche che peraltro erano già terminate. Mentre – come abbiamo
già puntualizzato – le bandiere Inglesi e le tabelle con la scritta domicilio
inglese si sarebbero viste (e mantenute a lungo) anche in altre città della
Sicilia, dove non vi erano industrie vinicole degli Inglesi… e neppure gli
Inglesi stessi.
Bandiere
e tabelle sarebbero servite in verità a moltissime famiglie siciliane per
mettersi al sicuro (o meglio, per tentare di mettersi al sicuro) dai saccheggi,
dalle violenze e dagli stupri, che non sarebbero certamente mancati. E che,
anzi, in non poche occasioni, avrebbero caratterizzato il comportamento dei
liberatori, nonché dei banditi e dei malfattori locali loro alleati.
Abbiamo
già ricordato che l’11 maggio 1860, a Piazza della Loggia, a Marsala, durante
la parata garibaldina si era rimediata a stento la sola bandiera italiana che
Giorgio Manin aveva tirato fuori da un apposito astuccio. Questo fatto la dice
lunga, troppo lunga… E conferma che le bandiere italiane non esistevano
nel maggio 1860. Né a Marsala, né in tante città della Sicilia. Fatte salve
ovviamente quelle poche eccezioni che confermano la regola.
Faremmo un torto a
G. C. Abba se non dicessimo che egli stesso si incarica di fare qualche
affermazione atta a compensare, probabilmente, gli
effetti negativi di alcune considerazioni, in apparenza ingenue, o di qualche
lapsus freudiano. Come quando, ad esempio, ha fatto cenno alla «piazzetta,
squallida, solitaria, paurosa». La compensazione avviene allorché, per
restare in tema, fa appunto una poco credibile descrizione dei festeggiamenti
(probabilmente inventati ed idealizzati nel lungo periodo di tempo trascorso
fra la sua partecipazione all’impresa ed il momento in cui avrebbe curato
l’ultima stesura della sua opera) dei quali nemmeno Garibaldi in persona ed il
suo fedele ufficiale Bandi fanno cenno, come vedremo.
Così
scrive Cesare Abba:
«Ora la
città è nostra. Dal porto alle mura corremmo bersagliati di fianco. Nessun male.
Il popolo applaudiva per le vie; frati di ogni colore (sic!) si squarciavano la
gola gridando; donne e fanciulli dai balconi ammiravano. “Beddi! Beddi!” si
sentiva da tutte le parti».
Eppure
poco prima aveva scritto:
«La
città non aveva ancora capito nulla; ma la ragazzaglia era già lì, venuta giù a
turba».(16)
Ci
insospettisce, altresì, ma non più di tanto, il fatto che l’Abba non abbia
detto «alcuni ragazzi» bensì abbia usato il termine, piuttosto dispregiativo,
di «ragazzaglia». Ci dovrebbe far riflettere anche la precedente frase:
«La
città non aveva ancora capito nulla…». (17)
Come
mai la città avrebbe festeggiato se non aveva «capito nulla»? E come mai pur
non avendo capito nulla aveva atteso l’evento liberatore? E come mai, senza
avere ancora capito nulla, secondo quanto attestano le fonti ufficiali,
sarebbero stati proprio i cittadini di Marsala quelli che volevano ad ogni
costo Garibaldi alla testa della loro rivoluzione?
L’agiografia
risorgimentale dell’Abba diventa, insomma, un boomerang per l’eccessivo
entusiasmo patriottico dell’Autore del testo «sacro» Da
Quarto al Volturno.
Non
sottilizziamo ed andiamo ad uno di quegli episodi secondari che però, a tempo e
luogo opportuni, possono assumere ruolo e funzione di testimonianza. L’Abba ci
aveva, sempre nella noterella del giorno undici, parlato di un incontro
interessante:
«Alcuni
frati bianchi ci salutavano coi loro grandi cappelli: ci spalancavano le loro
enormi tabacchiere: e stringendoci le mani, ci domandavano:
“Siete
reduci, emigrati, svizzeri?”».
Francamente
ci sembra strano che i frati, i quali dovevano necessariamente possedere un
bagaglio di cultura e di informazioni politiche (…oltre che di tabacco)
superiore alla media, facessero una domanda del genere e dimostrassero quindi
di non essere coinvolti nell’entusiasmo popolare, del quale lo stesso Abba
parlerà di lì a poco (di cui abbiamo fatto riferimento).
Una cosa, seppur
inquietante, i frati l’avevano comunque confessata. Per loro i Garibaldini
potevano anche essere stranieri. Meglio se svizzeri…
Non li avrebbero comunque conosciuti, né riconosciuti.
Bolton
King. Inglesi a Marsala? Bolton non lo sa… – Nel 1903, Benedetto Croce,
mostro sacro della filosofia e della storiografia italiana, unitario di ferro
(ancorquando meridionale), nel corso della presentazione di una nuova opera di
Bolton King, volle fare cenno a quella che era l’opera più conosciuta in Italia
e sulla quale avrebbero studiato diverse generazioni di docenti, di allievi e
di studiosi: La storia dell’unità
d’Italia, in quattro volumi. La prima edizione della quale era
stata pubblicata in lingua inglese nel 1899.
Ebbene,
il Croce in proposito affermò:
«La
“Storia dell’Unità d’Italia” benché elaborata con conoscenza completa del vasto
materiale erudito di quel periodo, pur non tanto mi era parsa notevole per
l’erudizione quanto per la finezza ed equilibrio del giudizio, che mette sotto
giusta luce uomini ed avvenimenti controversi, e desta quasi di continuo quella
persuasione, quell’intimo assenso, che si esprime con un “così è”». (18)
Ipse
dixit, insomma… L’opera dell’illustre inglese è senza dubbio ponderosa ed
interessante. Parte, però, da alcuni dati che ritiene scontati e certi, ma che
invece a nostro giudizio sono discutibili. Talvolta mai avvenuti.
Il
buon Bolton King, del resto, se in buona fede, non avrebbe mai potuto
immaginare che il materiale erudito da cui avrebbe attinto la conoscenza della
storia d’Italia, in realtà gli avesse fornito una serie di notizie rielaborate
e/o falsificate ab origine. Non sappiamo se, venendo in Italia, visitando i
luoghi del delitto, interrogando i testimoni oculari, lo scrittore inglese
avrebbe smentito se stesso.
Fatto
sta che il King non aveva mai messo piede in Sicilia fino al mese di maggio del
1860 (né lo avrebbe fatto dopo), né in Sicilia, né tantomeno in Italia. A
questo punto abbiamo il sospetto che Bolton King non fosse stato in buona fede
e che anche lui facesse parte della grande congiura della disinformazione per
giustificare e legittimare la grande operazione di conquista del Regno delle Due
Sicilie.
Ecco,
ad esempio, come ci descrive lo Sbarco dei Mille:
«Intanto
con i suoi piroscafi Garibaldi giunse a Marsala l’11 maggio. Era riuscito a
sfuggire ai vascelli Napoletani in alto mare, ma mentre si stava avvicinando a
terra fu avvistato da due incrociatori, che lo inseguirono accanitamente fino
nel porto. Una delle sue navi si incagliò e, se il fuoco aperto dai Napoletani
non fosse stato troppo largo e sparso, una metà dei suoi uomini non sarebbe
certo riuscita a giungere sana e salva sulla terraferma. A Marsala non esisteva
la guarnigione, ma la spedizione corse egualmente il rischio di rimanere
inchiodata in quel lembo dell’isola, per cui Garibaldi decise di marciare
immediatamente su Palermo: salutato con indicibile entusiasmo dalla
popolazione, si proclamò Dittatore dell’isola in nome di Vittorio Emanuele e si
affrettò quindi ad avanzare su Palermo, mentre La Masa incitava gli abitanti
dei villaggi a prendere le armi e mentre le squadre sopravvissute all’impresa
della Gancia si univano alle sue forze».(19)
Così
fu? Non ci pare. Manca peraltro ogni riferimento proprio all’intervento
inglese. Ed invece spunta un entusiasmo che, soprattutto a Marsala, nella
realtà, non era mai esistito. E questa descrizione dei fatti non ci pare
ammissibile per un Autore così importante. Eppure egli aveva scritto:
«La
politica del Governo Palmerston verso l’Italia si proponeva tre obiettivi
fondamentali: soddisfare le aspirazioni italiane cacciando dal Paese gli
austriaci; far cessare l’influenza francese in Italia; indebolire o distruggere
il potere temporale (del Papa)». (20)
Ammetteva
quindi che l’Inghilterra aveva scelto fra i due sovrani (peraltro imparentati
fra loro, Vittorio Emanuele II e Francesco II, legati da vincoli di sangue e di
parentela agli Asburgo), quale dei due buttare giù dalla torre e quale invece
salvare adottandolo ed aiutandolo a crescere. Se non addirittura
costruendolo a suo uso e consumo.
Come
poteva l’Inghilterra rischiare, ormai, che a Marsala il proprio progetto
colasse a picco? Qualcosa doveva fare e doveva già aver pur fatto!… O no? Ma
Bolton King finge di non vedere, di non sapere. Anzi si inventa una sua verità a
totale supporto della propaganda filo-unitaria.
Garibaldi: una
frase che rafforza i sospetti
– Scrive il Rosada:
«Dodici
anni dopo, il Duce dei Mille riconosce lealmente il suo debito scrivendo nelle
sue memorie:
“La
presenza dei due legni da guerra Inglesi influì alquanto sulla determinazione
dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò
diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera di Albione contribuì,
anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed, io,
beniamino di cotesti signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro
Protetto”».
Questa
frase di Garibaldi, anziché dissipare insinuazioni e sospetti, li avrebbe rafforzati.
Ne condividiamo il contenuto, perché l’influenza e gli interventi
dell’Inghilterra furono veramente decisivi nei fatti del 1860 e degli anni
immediatamente successivi. Ma la macchina dell’agiografia risorgimentale non
sarebbe stata neppure sfiorata da questo momento di sincerità dell’Eroe dei
Mille.
Se
quest’ultimo avesse capito, fin dall’inizio, dove sarebbe arrivato il suo mito,
probabilmente non si sarebbe lasciato andare ad una confessione così
significativa e compromettente.
(20)
Bolton King, op. cit., vol. III,
pag. 140.
Denis
Mack Smith e Ippolito Nievo
– Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo,
Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia
che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un
vero best-seller, è La storia della
Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo
stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i
Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane
però immutata.
Ci
confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il
caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur
senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito
Nievo:
«La rivoluzione era
sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche
banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano
ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e
qualche paura dei proprietari».
(21)
Un giudizio,
questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto al
guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in
guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da
settentrionale». Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in
particolare per il Nievo. Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere
dalla considerazione che la diversità etnica non ha niente a che vedere con i
fatti) ciò non significa che il grande scrittore non avesse capito meglio di
tanti Meridionali e di tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri
Settentrionali e di tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza
degli eroi Garibaldini e dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)
Cosa,
questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi
alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono
il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in
piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel
rispetto della… ragion di Stato.
Ma
per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato
spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo
Bianchi:
«Ippolito
Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un
ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei
Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla
‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario)
come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza
Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per
fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno
politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel
marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che
fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque. Perì in lui il poeta che avrebbe
cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto lui, venne
poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».
Il
Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero,
attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato
molto la verità.
Ancora
oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si
ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far
fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua
qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione
«unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.
Infatti,
dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili
(riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel
periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia
diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.
Si
può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che,
del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere
cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non
sopravvisse nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena
trent’anni.
Sulla
tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé
un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso
aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a
man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo;
l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono
stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la
certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un
naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…
(13)
Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento,
Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli,
scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo.
In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente
«picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante»,
apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…
Fine ottava
puntata/ continua
Foto
tratta da questionegiustizia.it
(14)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50.
(15)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.
(16)
G. C. Abba, op. cit., pag. 51.
(17)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50.
(18)
Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag.
11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.
Denis Mack Smith e
Ippolito Nievo
– Sulla scia di Bolton King, uno storico inglese nostro contemporaneo,
Denis Mack Smith, ha avuto un enorme successo in Sicilia con libri di storia
che riguardano appunto la Sicilia. Uno dei più celebri, che è stato anche un
vero best-seller, è La storia della
Sicilia medievale e moderna, edita da Laterza (Bari, 1970). Lo
stile ovviamente è più scorrevole di quello del King, la benevolentia per i
Padri della Patria – da Vittorio Emanuele a Cavour, a Garibaldi, ecc., – rimane
però immutata.
Ci
confronteremo con le opinioni dello Smith nel corso del nostro lavoro. Non è il
caso di farlo adesso. Gli diamo però atto, per il momento, di aver citato, pur
senza condividerne troppo il contenuto, un’acutissima osservazione di Ippolito
Nievo:
«La rivoluzione era
sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea (sic!) esistito: solo qualche
banda di semi-briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano
ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del Governo e
qualche paura dei proprietari».
(21)
Un
giudizio, questo, sferzante, quanto mai veritiero ed in controtendenza rispetto
al guazzabuglio di versioni ufficiali e non. Lo stesso Smith ci mette, però, in
guardia dicendo – lui inglese – che il Nievo «vedeva le cose da settentrionale».
Non ci pare un’espressione felice in generale. Ed in particolare per il Nievo.
Costui era, sì, un settentrionale, ma (a prescindere dalla considerazione che
la diversità etnica non ha niente a che vedere con i fatti) ciò non significa
che il grande scrittore non avesse capito
meglio di tanti Meridionali e di
tanti Siciliani e – ci sia consentito – di tanti altri Settentrionali e di
tanti Inglesi, di che pasta fosse fatta la maggioranza degli eroi Garibaldini e
dei picciotti di mafia che a questi si aggregavano.
Insomma Nievo parla. (22)
Cosa,
questa, che non potevano fare quanti erano stati complici dei delitti connessi
alla conquista del Sud e della Sicilia, né lo possono fare oggi quanti compiono
il lavoro di omologazione culturale o quanti hanno la necessità di tenere in
piedi il mito garibaldino, scisso dalla verità. Magari in buona fede oppure nel
rispetto della… ragion di Stato.
Ma
per meglio comprendere il valore della testimonianza alla quale abbiamo dato
spazio, dobbiamo ricordare chi era Ippolito Nievo. Di lui così scrive Lorenzo
Bianchi:
«Ippolito
Nievo, padovano (1831-1861), poeta e geniale autore delle ‘Confessioni d’un
ottuagenario’, ammirato dall’Abba (vedi qui, pagg. 88, 149, 279, Storia dei
Mille, pagg.115-116). Era stato delle ‘Guide del 59′, partecipò alla
‘spedizione dei Mille’ (di cui lasciò lettere vivaci e uno scheletrico diario)
come a un sicuro olocausto. Per la sua scrupolosità fu assegnato all’Intendenza
Militare con Giovanni Acerbi (diceva di non possedere che un solo requisito per
fare il cassiere, quello ‘di non saper rubare’). Per l’alto ingegno e il senno
politico appariva destinato a un grande avvenire. Ma ‘spariva dal mondo nel
marzo 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore [l’Ercole] che
fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque.
Perì in
lui il poeta che avrebbe cantato davvero l’epopea garibaldina; e un cadavere
che fu creduto lui, venne poi trovato sulla riva d’Ischia, l’isola dei poeti».
Il
Nievo è quindi un testimone di grande prestigio e soprattutto molto sincero,
attendibile. Ancorquando unitario ad ogni costo. Ed è un uomo che ha amato
molto la verità.
Ancora
oggi in Sicilia si sospetta che la sua morte non sia stata accidentale; si
ritiene che «qualcuno», potente e compromesso, avesse avuto interesse a far
fuori il Nievo per impedirgli di denunziare brogli ed ammanchi che, nella sua
qualità di intendente e di ispettore, avrebbe scoperto nell’Amministrazione
«unitaria ed italiana», non più Duosiciliana, quindi, in Sicilia.
Infatti,
dopo aver eseguito diligentemente l’ordine di raccogliere i documenti contabili
(riteniamo scottanti) sui quali aveva indagato, per portarli a Torino (in quel
periodo capitale del Regno d’Italia), il grande scrittore lasciò la Sicilia
diretto a Napoli sul vecchio Ercole il 4 marzo 1861.
Si
può affermare soltanto che il piroscafo non arrivò mai a destinazione e che,
del Nievo, non si ebbe più notizia. Né si conobbero mai con esattezza le vere
cause del naufragio del vapore di Napoli (come veniva chiamato). Non sopravvisse
nessuno. Ippolito Nievo, al momento della morte, aveva appena trent’anni.
Sulla
tragedia si hanno solo due certezze: la prima è che il Nievo aveva con sé
un’enorme quantità di documenti che provavano gli imbrogli che egli stesso
aveva scoperto, ad iniziare dai prelievi che i Garibaldini avevano effettuato a
man bassa alla Tesoreria dello Stato delle Due Sicilie a Palermo;
l’altra è costituita dal fatto che del piroscafo Ercole fino ad oggi non sono
stati mai rinvenuti relitti, neppure parziali. In pratica non si è mai avuta la
certezza che la causa della scomparsa della nave fosse da attribui- re ad un
naufragio, ad un incendio accidentale oppure ad un attentato…
(13)
Indro Montanelli, L’Italia unita. Da Napoleone alla svolta del Novecento,
Rizzoli, II vol., 2015, pag. 613. Facciamo rilevare che il Montanelli,
scrivendo «picciuotti» adotta la pronunzia di alcuni antichi rioni di Palermo.
In realtà la pronunzia più diffusa in Siciliano è «picciotti». Letteralmente
«picciotto» significa «giovane». In senso lato significa anche «aiutante»,
apprendista, esecutore di ordini, lavoratore manuale, ecc…
Fine ottava
puntata/ continua
(14) G.
C. Abba, op. cit., pag. 50.
(15)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50, nota 1.
(16)
G. C. Abba, op. cit., pag. 51.
(17)
G. C. Abba, op. cit., pag. 50.
(18)
Bolton King, Storia dell’Unità d’Italia, Editori Riuniti, 1960, vol. I, pag.
11, introduzione a cura di Ernesto Ragionieri.
Da sempre impegnato nella
ricostruzione storico-antropologica dei fenomeni malavitosi del mezzogiorno
d’Italia e non solo, Enzo Ciconte con La grande mattanza-storia della guerra al
brigantaggio, edito da Laterza(2018) intraprende una
trattazione storica che, in via definitiva, ha di mira un chiarimento
necessario per quanti intendano prendere sul serio la storia risorgimentale e
post-risorgimentale. Con penna agile e sempre guidata dalla chiarezza
concettuale del comunicatore esperto (Ciconte è ormai da anni docente di Storia
della malavita organizzata di Roma tre e di Storia delle mafie italiane a
Pavia), l’autore guida il lettore dentro i meandri della tormentata storia
dell’unità d’Italia, delle contraddizioni, nonché delle forzature sul piano
delle soluzioni a problemi che avrebbero dovuto ricevere una risposta matura e soprattutto
civile da parte del Regno d’Italia, nato all’indomani del 1861. Un saggio
segnato da grande onestà intellettuale, se si pensa che oltre a denunciare la
presa di posizione dei piemontesi in relazione al fenomeno del brigantaggio, ci
si scrolla di dosso qualsiasi rischio di agiografia ultrameridionalista.
Ciconte, infatti, denuncia la corruzione della rampante borghesia meridionale
che approfittando del nuovo ordine politico post-borbonico ha di fatto tradito
la causa politico-sociale del mezzogiorno, appiattendosi agli interessi della
monarchia savoiarda. Un esempio su tutti è proprio il parlamentare abruzzese
Pica, autore della famigerata legge militare che nel 1863 ha costituito l’unica
risposta concreta e crudele al fenomeno del brigantaggio post-unitario: un
neoparlamentare meridionale che risponde in quel modo ai problemi delle sue
stesse zone di provenienza. Ma queste pagine storiche meritano una menzione
particolare, soprattutto perché puntano ad un obiettivo fondamentale: chiarire
una volta per tutte che i briganti non sono stati i “padri nobili”, gli
“antenati illustri” dei mafiosi. Ciò è dimostrato dalla distribuzione
geografica dei due fenomeni che, stando alle analisi dello storico calabrese,
non conoscono una sovrapposizione per cui lì dove ci sono briganti non ci sono
mafiosi e viceversa.
D’altronde, come potevano i briganti postunitari essere coinvolti con la mafia, se avevano dichiarato guerra al nuovo regno d’Italia? La mafia, infatti, fu ufficialmente scoperta nel 1875 con l’inchiesta parlamentare di Franchetti e Sonnino, parlamentari che inquadrarono il fenomeno mafioso come qualcosa di molto addentro alle strutture istituzionali, nella pubblica amministrazione: insomma un fenomeno che interpellava già allora i ceti dirigenti. Un’opera snella ma dai toni stringenti quella di Ciconte, che tenta di diradare la coltre di pregiudizi granitici di quanti ancora oggi preferiscono optare per la criminalizzazione del mezzogiorno d’Italia, a prescindere da qualsiasi dinamica storica, sociale ed economica, al di là di qualsiasi rivisitazione storiografica robustamente dimostrata. Un contributo storiografico che soprattutto smonta la mitologia artificiosa spesso accettata e promossa dai mafiosi stessi di vantare “origini brigantesche”, usata come abluzione laica per legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica, giocando con la suggestione popolare, alla Robin Hood, del “rubare ai ricchi per dare ai poveri”; ma anche tollerata da quanti sbrigativamente hanno sempre voluto fare “di tutta un’erba un fascio”. Se qualcuno, poi, intende sollevare perplessità sull’attendibilità delle fonti utilizzate da Ciconte, è sufficiente ricordare che egli si è avvalso, in aggiunta ad altri riferimenti bibliografici: dell’Archivio centrale dello Stato, dell’Archivio di Stato di Catanzaro, dell’Archivio di Stato di Torino, dell’Archivio del museo del Risorgimento di Torino, dell’Archivio storico della Camera dei deputati, dell’Archivio Ufficio storico Stato maggiore dell’esercito conservato a Roma, nonché dell’Archivio della Biblioteca di storia moderna e contemporanea di Roma.