Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Capodimonte accoglie gli scrittori. Un giorno a Napoli con san Gennaro di Maurizio Ponticello

Posted by on Nov 21, 2016

Capodimonte accoglie gli scrittori. Un giorno a Napoli con san Gennaro di Maurizio Ponticello

La sala è piuttosto piccola e ha un soffitto inteso come la volta di un cielo. Ma tutto nero e solcato da larghe strisce bianche che tra loro s’intrecciano in una una rete “strevza” (= strana, estranea, illogica), che ci ingabbia dall’alto. Certo, e mi viene in mente Duchamp, è un’opera d’arte perché si trova in un museo, è nella sala a piano terra del cortile centrale di quello di Capodimonte, e infatti è opera, non tra le migliori, di Solomone (Sol) LeWitt, considerato un grande artista e noto come brillante pittore di pareti.

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CELLOLE – ‘Lassate fa’ o’ guaglione’, incontro sul genio ingegneristico di Luigi Giura e sul ponte del Garigliano. LE INTERVISTE E IL VIDEO DELL’ARIELLA

Posted by on Lug 9, 2019

CELLOLE – ‘Lassate fa’ o’ guaglione’, incontro sul genio ingegneristico di Luigi Giura e sul ponte del Garigliano. LE INTERVISTE E IL VIDEO DELL’ARIELLA

CELLOLE (Matilde Crolla) – Luigi Giura ed il suo genio ingegneristico sono stati al centro di un interessante convegno organizzato dall’associazione ‘Ariella’ di Cellole, presieduta da Biagio Palladino ed Elena Sorgente, in collaborazione con l’associazione ‘Alta Terra di Lavoro’, presieduta da Claudio Saltarelli. L’evento, tenutosi presso l’auditorium della parrocchia di San Marco e San Vito, ha visto anche la presenza dell’assessore allo Sport, Cultura e Spettacoli, Giovanni Di Meo che ha portato i suoi saluti istituzionali. Interessante l’intervento dei relatori presenti come Emiliano Pimpinella, presidente del Comitato Luigi Giura, con cui Biagio Palladino ha instaurato un’interessante sinergia che li vedrà collaborare insieme anche in futuro; Fernando Riccardi che ha portato il suo contributo storico sull’importanza del ponte Real Ferdinando sul Garigliano per essere stato luogo di un’importante battaglia tenutasi nel 1860, ricordando le figure del generale Matteo Negri e del capitano Domenico Bozzelli; e la professoressa Raffaella Palumbo, docente di storia ed estetica musicale del Conservatorio di Avellino, che ha presentato degli autori che hanno arricchito il panorama musicale nella storia della nostra terra. L’associazione Emozioni Fotografiche, presieduta da Angelo Stanziale, ha per l’occasione allestito una mostra a tema e gli alunni della scuola media ‘Serao-Fermi’ hanno, invece, mostrato il lavoro di ricerca fatto proprio sul fiume Garigliano e il Ponte. Erano presenti, tra gli altri, anche alcuni architetti ed ingegneri del territorio, insieme ai rappresentanti dell’associazione Carabinieri in Congedo sezione di Cellole e la Pro Loco Città di Cellole con il presidente Angelo Di Lorenzo. “Lassate fa’ ‘o guaglione”, è stato il titolo dell’evento, proprio per riprendere la frase pronunciata dal re quando l’ingegnere Giura presentò il suo progetto di realizzazione del ponte. Molte all’epoca furono le perplessità avanzate, in particolare dalla stampa inglese e dai ministri, ma Giura riuscì a dimostrare la sua lungimiranza divenendo simbolo della nascita della ‘Scienze delle Costruzioni’. Ricordiamo che all’epoca il ponte del Garigliano rappresentò un punto di congiuntura tra l’Europa e l’Africa. Nell’occasione è stata ricordata anche la figura dell’europarlamentare Franco Compasso che fece arrivare finanziamenti dalla Comunità Europea per la ricostruzione del ponte dopo che i tedeschi lo fecero saltare in aria durante la Seconda Guerra Mondiale. Durante l’evento ci sono stati dei coinvolgenti momenti musicali proposti proprio dal gruppo dell’Ariella. LE INTERVISTE  E IL VIDEO DELLO SPETTACOLO DELL’ARIELLA

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Abitare un fondaco al Cavone. Centro Studi per la Storia dell’Arte e dell’Architettura delle città portuali

Posted by on Mar 10, 2019

Abitare un fondaco al Cavone. Centro Studi per la Storia dell’Arte e dell’Architettura delle città portuali

Sylvain Bellenger, direttore della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte, ha organizzato, con la collaborazione del texano The Edith ‘O Donnell Institute of Art History, il “Centro Studi per la Storia dell’Arte e dell’Architettura delle città portuali”. Un centro internazionale che, nato nel settembre scorso, in un edificio borbonico nel Real Bosco, chiamato la Capraia, lunedì ha fatto la sua prima relazione pubblica. L’argomento: “Abitare un fondaco al Cavone. Dall’archivio alle fonti orali, tracce e memorie della cultura popolare”.

Due i relatori: la professoressa Brigitte Marin, che, docente di Storia Moderna all’ Aix-Marseille Université, è onusta di altri prestigiosi incarichi, e Marcello Anselmo, storico contemporaneista, ricercatore nella stessa università marsigliese e autore di réportages e di studi sociali sulle città dell’Europa Meridionale. 

La professoressa Marin ha  iniziato parlando del suo condiviso metodo di studio: definire un fenomeno urbano risalendo alle sue  origini storiche, attraverso la ricerca e l’attenta lettura di documenti di archivio. In più, la professoressa dimostra di tener conto anche degli scritti di altri studiosi sull’argomento, rifacendosi al compianto Giuseppe Galasso (1929/ 2018), storico accademico e importante politico che, come tale, aveva dovuto attenersi a una considerazione del passato napoletano soprattutto quale causa dei mali presenti, secondo la prassi solita di ogni governo.

La Marin, quindi, riferisce di Galasso l’affermazione che i problemi della città vengono dal passato e che la difficile situazione abitativa in cui versa il popolo è “la continuità di un problema irrisolto”. In realtà, durante il governo spagnolo, quando Napoli era capitale di una delle Spagne, qui ci fu uno straordinario aumento del numero degli abitanti che, dai 40.000 esistenti durante il precedente governo aragonese, passarono a centinaia di migliaia.

Nel frattempo, furono costruite nuove mura, mentre veniva emanato il divieto di costruire fuori dalla loro cinta. Di conseguenza, i palazzi si innalzarono tanto che ai visitatori dell’epoca Napoli apparve come una città di grattacieli. E piacque. Ma esistevano ancora, al suo interno, i giardini delle case nobiliari e dei monasteri e c’era la vista amena delle verdi colline.

L’aumento demografico continuò anche dopo la terribile peste del 1656, per la quale morì – si dice- metà della popolazione, tra cui anche artisti famosi come Massimo Stanzione Battistello Caracciolo.

Dal Seicento la professoressa riporta l’uso fatto da uno scrittore francese in visita a Napoli, della parola “fondachiera”, per indicare la povera gente abitante dei fondaci napoletani, detta, poi, “plebe” e “gentaglia”. Nello stesso periodo (è forse interessante notarlo), un napoletano di genio come Gianlorenzo Bernini, che era stato chiamato da Luigi XIV per costruire il “Palazzo del Re”, veniva continuamente criticato dalla Corte e dal Colbert, Controllore Generale delle Finanze del Regno, e poi era ignominiosamente rimandato a casa. Così il “Palazzo del Re”, il Louvre, oggi ha le forme classiche della colonnade di Claude Perrault.

Delle incomprensioni e dei contrasti tra il razionalismo dei francesi e il naturalismo libero e ardito del Bernini riferì, nel suo diario, Paul Fréart de Chantelou, Mastro di Casa del Re, rivelandosi amico dell’artista italiano. Il che dimostra che ancora perdurava in Francia, nella seconda metà del ‘600, l’ammirazione per la creatività nostrana, ma stava per nascere, da un estremo razionalismo cartesiano, quell’illuminismo che si esprimerà, più di un secolo dopo, nel neoclassicismo giacobino.

Del suo lavoro di ricerca sul fondaco del Cavone, la professoressa Marin non nasconde le difficoltà. E ricorda come un colpo di fortuna, ma fu premio al suo impegno, l’essersi imbattuta nei documenti relativi ai monasteri scomparsi. Tra questi c’è il monastero femminile di santa Monica, nato come tale nel 1646 da un conservatorio del 1628.

Nell’insula, intorno al monastero, le monache costruirono un complesso di abitazioni modeste, il Fondaco del Cavone appunto, che dettero in fitto a basso prezzo a gente che aveva scarsi mezzi economici. Fu speculazione o beneficenza? L’uno e l’altro probabilmente, secondo i casi – suggerisce la professoressa. Che, citando i documenti, riferisce di numerosi interventi di manutenzione e decoro fatti, per queste abitazioni, nel Seicento e nel Settecento, che poi, nella seconda metà dell”800, vennero a mancare, determinandone il degrado.

Ma la situazione di degrado esistente in questo periodo storico riguardò tutta la città, e fu quello che Matilde Serao descrisse ne “Il ventre di Napoli”. Che non fu soltanto delle sue strutture materiali. Precedentemente, nel Settecento, invece, la maggior parte dei visitatori, notoriamente Goethe ma non solo,  avevano considerato il popolo napoletano, compresi i poveri, libero e felice.

Era ammirato il suo essere “picturesque”, termine inglese che allora sorse per connotare ciò che è veracemente originale ed è amabile per la sua diversità. Ma poi, appunto nella seconda metà dell”800, la povertà diventò miseria. Mentre, come dice la Marin, spesso il sorriso divertito dei turisti diventava una sorta di sprezzante ironia. Siamo negli anni successivi all’unità d’Italia. Il degrado delle abitazioni e dei relativi servizi portò all’emergenza sanitaria. A Napoli scoppiò il colera. E, di conseguenza, si giudicò necessario procedere alla bonifica del suo centro e del suo sistema fognario attraverso quello che fu detto il Risanamento oppure “lo sventramento”. Che diventò “la più estesa trasformazione urbanistica che la città storica abbia conosciuto”- ricorda, intervenendo nel colloquio instauratosi tra i relatori e il pubblico, un architetto, esperto urbanista.

È il professore Italo Ferraro, già docente alla Federico II e autore di un atlante in 12 volumi (edizioni Oikos), che racconta la storia di Napoli nella sua concreta realtà edilizia. Da cui si evince, non come semplice ipotesi ma come indubitabile testimonianza, l’eccezionale continuità storica dell’antica città partenopea.

Una continuità che ha fatto si che Napoli, che non è “una città con un porto” costruito successivamente (come Atene), ma una città-porto fondata da greci marinai, abbia potuto mantenere l’impronta delle sue origini marine, nell’organizzazione sociale, nella filosofia e nell’arte.

Infatti le antiche lcittà costiere greche, come Neapolis, Palepolis, o Elea, la patria di Parmenide, modellarono la loro organizzazione sociale tenendo conto dell’esperienza che ne avevano fatto sulla nave prima di stanziarsi sulla costa. Sulle antiche navi, non si eleggevano quali capi i politici-oratori. Ma era capo il nostromo (cubernetes in greco, gubernator in latino), il governatore, che otteneva la sua legittimità dando prova delle sue reali capacità. E ognuno dei marinai aveva le mansioni relative alle proprie possibilità, il che non comportava la sanzione di una superiorità degli uni sugli altri, perché era evidente il fatto che si era tutti sulla stessa barca: una paritaria società di disuguali.

Così, alla caduta dell’impero romano, Napoli fu, per molti secoli, guidata da un dux con le funzioni di governatore, e fu un ducato. Finché, dopo l’esperienza normanna, la città non conobbe gli Angioini, che la resero capitale di un Regno. E fu il centro conservatore di una cultura anomala, invisa agli accademici e temuta dalle Autorità. Una corrente filosofica diversa da quella classica improntata al razionalismo socratico-aristotelico. Fu l’empirismo contro il razionalismo, l’esperienza contro lo scientismo, la libertà di vivere contro l’eccessiva regolamentazione, contro la cosiddetta normalità.

Un fil rouge lega il filosofo marinaio Parmenide, di cui si era impadronito Aristotele travisandolo, al filosofo naturalista Bernardino Telesio, a Giovanbattista della Porta e alla sua associazione dei Secreti, accusata di occultismo, fu chiusa per ordine papale, a Tommaso Campanella, torturato e imprigionato, a Giordano Bruno, bruciato vivo in Campo dei Fiori, agli Investiganti seicenteschi, al principe di Sansevero, mago lo dissero e non  scienziato quale fu, a misconosciuti uomini geniali, come Giacinto De Cristofaro, chiuso in prigione per molti anni, e a tanti altri ancora.

Tra i quali, presumibilmente, quelli di cui è stata completamente cancellata la memoria. Questo fil rouge ci conduce a Gian Battista Vico. Negli scritti di questo grande filosofo napoletano si legge una concezione del tempo e dello spazio che ci riporta al marinaio Parmenide.

Il tempo, per Vico, non è un’entità unidirezionale e la realtà non è statica ma è ritmo che si muove ritornando su se stesso, come il mare. Come la musica napoletana che nutrì il mondo dai tempi di Nerone a quelli di Paisiello. E lo spazio, per Vico, non è quello definito dalla geometria cartesiana ed euclidea. Ma è quello che si apprende “con una mescolanza di corporeità e di pensiero”. 

Certamente anche la gente di mare nella mente non poteva avere lo spazio euclideo ma quell’ampio spazio marino che si conforma alla curva linea dell’orizzonte e alla volta del cielo. È un’immagine espressa anche nell’arte figurativa napoletana.  E che è ben diversa da quella dello spazio-scatola a tre dimensioni che Euclide teorizzò, pubblicandolo nel 300 a. C., e che viene realizzato dal 1400 in poi, per mezzo della classica prospettiva toscana. Che è la prospettiva per antonomasia, l’unica accettata accademicamente e considerata reale, sebbene, precocemente, L. B. Alberti la avesse definita artificialis, cioè meramente astratta. Eppure quella pittura napoletana che non si attiene alle sue regole è stata spesso considerata arretrata o errata. 

Erwin Panofsky, nel suo famoso libro “La prospettiva come forma simbolica”, riferisce della realizzazione dello spazio sulla curva superficie dei vasi magnogreci del IV secolo a C. e di una prospettiva simile a quella canonica (ma erroneamente realizzata) in alcuni affreschi pompeiani. Di errori di prospettiva hanno parlato ancora i dotti riferendosi alle vedute napoletane del Settecento. Non si tratta di errori ma di una prospettiva diversa che nel Settecento ha raggiunto la sua piena espressione, tanto da poter essere oggi tradotta in computer grafica.

È la prospettiva di quello spazio che la gente di mare aveva nel cuore e nella mente:  la prospettiva  napoletana. (cfr. “Lo spazio a 4 dimensioni nell’arte napoletana. La scoperta di una prospettiva spazio-tempo” ed T. Pironti). Uno spazio attualissimo, coerente a quest’epoca di imprese spaziali, mentre la prospettiva toscana del ristretto spazio-scatola è contestata da tempo. Nei dipinti napoletani considerati sbagliati, c’è la visione di uno spazio in movimento, che è visto da più punti di vista e ha quattro dimensioni. Napoli ha intuito da sempre quello che la scienza ha teorizzato soltanto nei primi anni del Novecento, con Albert Einstein, che d’altronde ha scritto: “Le origini del nostro pensiero sono nella Magna Graecia”. La prospettiva non è soltanto un fatto pittorico: essa rispecchia la mentalità, ovvero la struttura del pensiero, del pittore-autore, ma anche del suo ambiente. E la prospettiva napoletana.si basa sui plurali punti di vista di una società coesa, che danno concretezza a uno spazio iperbolico.

La persistenza nell’arte figurativa degli stessi caratteri si apparenta alla persistenza delle stesse famiglie nei quartieri popolari napoletani, come il Fondaco del Cavone. Famiglie che costituiscono una società coesa, con gli stessi modi di pensare, di sentire e di atteggiarsi. Di questa società racconta l’accurata indagine fatta sul posto dall’attento studioso Marcello Anselmo, che ha intervistato persone e ha filmato interviste e luoghi, indagando su importanti fenomeni ma anche su particolari, apparenti minuterie del modo di vivere del popolo povero, e così ricostruendone la vita.

Tutto questo è reso noto ora al pubblico nella vivace relazione dello studioso. Che chiarisce come la densità demografica del Fondaco del Cavone si sia andata via via accentuando. Già era accaduto dopo “lo sventramento” operato dal Risanamento del centro storico della città, un luogo densamente popolato, i cui abitanti, quindi, dovettero trasferirsi altrove. Di questi, mentre i più ricchi occuparono i nuovi appartamenti e quelli di media fascia andarono ad abitare al Vomero, i poveri andarono ad addensarsi nei luoghi già sovraffollati come i fondaci. Le condizioni degli abitanti peggiorarono.

Tuttora la densità demografica tende ad aumentare, perché, a volte, pur potendosi trasferire altrove, i giovani sono rimasti qui, accanto ai genitori, ai nonni, agli zii e agli amici di sempre. E anche coloro che si erano allontanati, andando ad abitare le case nuove della periferia, ritornano qui, nella vecchia Napoli,tra i parenti e gli amici, tra gente conosciuta, in quella società che gli è propria, a quel modo di vivere che è la loro vita. Così gli ambienti abitativi, per dar loro posto, si sono solidarmente divisi. Ma sono tenuti ordinati e lindi, e sono forniti di bagni e di moderne tecnologie casalinghe. I piani del fondaco si sono innalzati e vengono preferiti quelli più alti.

Certo ora, come nei vecchi vicoli napoletani, sta sorgendo, ed è una novità, un senso di insicurezza. Testimoniato anche dalla chiusura delle porte dei “bassi”, le case a pian terreno, con la “finestra zoppa” e, come nota acutamente Anselmo, dalla presenza dei cani – non i randagi a cui si dà il cibo, un calcio e una carezza – ma cani da difesa e robusti cani da guardia. Ora vi sono, anche nel Fondaco del Cavone, molti abitanti che vengono dall’estero, soprattutto africani e cingalesi, gente sconosciuta. Alcuni rimangono più a lungo, altri fanno un turn-over.

Ma sono sempre di più  e l’atteggiamento di accoglienza proprio delle civiltà di mare… da Nausica in poi… si chiude in un atteggiamento di faticosa sopportazione. E ogni tanto si protesta per piccole cose, che fanno emergere in superficie la diversità tra le etnie. Pure lo spazio, qui, al Cavone, scarseggia e rende più aspri gli attriti tra persone che sono profondamente diverse. Mentre l’armonia di una società è fatta dalla omogeneità dei suoi componenti.

Dalla relazione degli studiosi molte cose sono state chiarite. Ma una domanda rimane senza risposta. Se i fondaci sono una sorta di antichi magazzini portuali, di origine medievale, che si trovavano un tempo lungo i moli, a Napoli come a Venezia e a Genova, il fondaco del Cavone, come quello, anch’esso napoletano, di San Gregorio Armeno, che non sono costruiti nel porto, perché si chiamano fondaci?

Adriana Dragoni

fonte http://www.agenziaradicale.com/index.php/rubriche/arte-e-dintorni/5739-abitare-un-fondaco-al-cavone-centro-studi-per-la-storia-dell-arte-e-dell-architettura-delle-citt

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Vita della Duse di Alfredo Saccoccio

Posted by on Gen 1, 2019

Vita della Duse di Alfredo Saccoccio

La famiglia Duse, che si era stabilita, da secoli, in Chioggia, non si sarebbe mai mossa, se, nella prima metà dell’Ottocento, un Luigi Duse, marinaio come tutti i suoi, non avesse desiderato darsi al teatro. Si fece attore, fu celebre, ebbe la migliore Compagnia dialettale : subito i fratelli, i nipoti ed altri parenti vari, lo seguirono sulle scene. Attori anche i figlioli, anche Alessandro, che avrebbe voluto essere pittore e non poté ; romantico e delicato Alessandro, sposato ad un a ragazza romantica e delicata, Angelica Cappelletto, dolcemente malata di elisia, destinata a vagabondare da un palcoscenico all’altro, senza gloria, senza denaro e senza pace. Sono questi i genitori du Eleonora, che nacque a Vigevano, il 3 ottobre 1859. La portarono al battesimo in un piccolo cofano di cristallo, così che parve una reliquia ed i dragoni le presentarono le armi : certo  aveva già gli occhi larghi, bruni e dolenti.

Padre, madre e bambina girano per il Veneto; fra le braccia della madre, Eleonora compare in scena. Cresce, ha cinque anni e rappresenta Cosetta. Piange così bene che gli spettatori ne sono rapiti.

A 32 anni, Eleonora perde la madre, la soave Angelica, malatissima e coraggiosissima, che se ne va senza rumore, lasciando marito e figliola in un dolore vasto e muto : proprio in quei giorni, ereditano un poco di danaro, cinque casette chioggiotte  e le rifiutano, poiché la cara morta non potrà più goderle : il loro solo conforto vien proprio di lì, dal gesto di fierezza fantasiosa, e poi riprendono la vita dura ed inquieta.

Le rose di Giulietta

A 14 anni, Eleonora è a Verona. Ha letto Shakespeare, rappresenterà Giulietta : una felice estasi la coglie. Spende i suoi pochi risparmi per comprarsi delle rose scarlatte. In una domenica di maggio, l’immensa Arena, il cielo aperto, una moltitudine di popolani l’aspettano ed Eleonora appare, carica di rose, avvolta, fasciata, torturata di rose. E’ Giulietta: ogni sua parola suona inevitabile e giusta, ogni accento è fatalmente predestinato. Lascia cadere la prima rosa ai piedi di Romeo, sfoglia la seconda dal balcone. Una felicità limpidissima e terribile la conduce alla morte come su chiare onde. La notte scende, mentre il dramma ancora dura e gli scroscianti applausi, la sua atterrita gioia, il buio, danno ad Eleonora l’illusione di aver raggiunto una vetta.

Poi Eleonora lavora in compagnie meschine, che già senta indegne. Finalmente il balzo in avanti nella compagnia Emanuel, che per prima donna ha l’opulentissima signora Giacinta Pezzana. Accanto a lei, come dovette sembrare magra, magra, sparutella, la signorina Duse ventenne, malvestita e triste ! Il pubblico napoletano non l’amò gran che, si capisce, abituato ai ricchi fascini dei busti colmi e delle “tournures” rigogliose. Ma Napoli era piena di risorse : c’era una giovane giornalista, la signora Matilde Serao, che subito fu amica di Eleonora, e c’era Martino Cafiero, civettone, conquistatore, astutissimo Don Giovanni. Subito Eleonora ne è rapita e ne riceve fiori, libri, vezzi ; impara a conoscere Posillipo e le cene galanti, le gite in barca e il chiaro di luna.

Eleonora è molto felice. Trova, per rappresentare la nuora di “Teresa Raquin”, accenti così nuovi ed umani da ottenere il trionfo e la seconda grande scrittura, nella compagnia di Cesare Rossi, a Torino. Scrittura che non le dà gioia, ma dolore, perché significa il distacco dall’amato, una nuova solitudine Più grande solitudine quando, a Torino, Eleonora si accorge di essere madre. Chiede aiuto a Cafiero, senza ottenerlo. Singolare uomo questo Cafiero. Nessuno meglio di lui simboleggia la “fin di secolo”, il cinismo senza malvagità, il dilettantismo senza mediocrità.

Fierissima, Eleonora si rifugia a Marina di Pisa, in una casa di contadini, dove il suo bimbo nasce e subito muore. Eleonora stessa ne porta al cimitero la bara, leggerissima. Poi torna a Torino. Qui le succedono moltissime cose, inattese : diventa prima donna, perché la Pezzana se ne va; Cesare Rossi si innamora di lei, perché è suo uso innamorarsi della prima donna ; Tebaldo Cecchi, un bravo e buon compagno d’arte, le chiede di sposarlo, perché vuol difenderla dalle insidie di Rossi. E così, come per gioco, Eleonora si trova sposata, prima donna ed assillata dalle premure del vecchio capocomico.

Il teatro va male, il pubblico seguita a non amare Eleonora, giudicandola magra, stravagante e impossibile;  gli incassi diminuiscono. Intanto arriva in Italia, sfolgorando, con scimmie, cani, pappagalli, e vesti inaudite, la gloria universale, un’icona prepotente, Sarah Bernhardt, massima attrice di teatro dell’Ottocento, musa di Proust e D’Annunzio, amica di Henry James, definita “mostro sacro” da Jean Cocteau. Nessuno riconoscerebbe il grigio teatro torinese, quando Sarah vi debutta ed i fiori diventano montagne, gli applausi boati, l’entusiasmo follìa.. Eleonora naturalmente l’ammira, ma appena Sarah è partita, chiede e ottiene di mettere in scena proprio il lavoro che a Sarah, a Parigi, valse un fiasco colossale : “La Principessa di Bagdad”. E trionfa. Gli spettatori torinesi, esterrefatti, si vedono costretti ad applaudire la prima donna, senza che sia aumentata nemmeno di un etto, senza che sia imbellita nemmeno di una veste  parigina.  Eleonora è lanciata : va a Roma, recita “La Moglie di Claudio” e il pubblico le stacca i cavalli dalla vettura ; poi tutte le città italiane l’acclamano.

   Ora la signora Duse-Cecchi, celebrata, di giorno in giorno acquista sempre più gli estri, le originalità e le bizze proprie delle donne del suo tempo. Era il tempo delle crisi di nervi e dei sali inglesi,  delle fialettte d’ambra, degli svenimenti, della ipersensibilità e delle incomprensioni, dei fazzolettini lacerati con i denti, delle bertuccine custodite nel manicotto, dei suicidi in ginocchio, dei messaggi d’amore scritti con inchiostro d’argento su carta nera, dei teschi tenuti sul tavolino. Queste signore leggevano Nietzsche, “adoravano Wagner”, baffuti uomini le idolatravano tremando, mentre le pallide borghesucce ne gemevano d’invidia. Perché vorreste che Eleonora Duse non diventasse cos, e per  prima cosa non si mutasse il nome, firmando con predilezione Leonora ?

   Nasce Enrichetta, quella che sarà la bambina tranquilla, la giovanetta saggia, la sposa-modello : i genitori l’affidano a certi contadini, per riprendere il loro lavoro. Nuovi successi ; “Tournée” in America, trionfale.

   “Oh, grande amatrice ! ”

   Primo attore giovane, di bell’aspetto, di soavi modi, figura prestante e rigogliosi mustacchi, è Flavio Andò : ama Eleonora, che lo ama. Tebaldo, il buon marito, capisce che la separazione è necessaria e sparisce. Egli si terrà, fino alla morte, lontano, devoto e fedelissimo ; Flavio Andò ed Eleonora viaggiano insieme  per l’Europa:  nel 1886 nasce la loro Compagnia. La Russia li acclama ; il 1892 li trova a Vienna ; l’anno dopo, nell’America del Nord ; i fiaccherai e le mogli dei miliardari li acclamano.

   Eleonora stancamente ringrazia lasciando cadere all’indietro il suo famoso mantello, non si dipinge mai, cade in crisi spirituali, ama castamente Arrigo Boito, si pettina con un nodo sulla nuca, non porta il busto, piange spesso, scrive lettere sforacchiate di lineette come i segnali Morse e racconta le sue eleganti sofferenze . Ha trent’anni, si sente sola, poiché la passione per Andò si è mutata in amicizia, poiché il marito è scomparso, poiché Enrichetta è in collegio. Aspetta qualcosa dalla vita e che cosa non sa, ma, una sera, al Valle di Roma, uscendo di scena,dopo il terzo atto de “La signora delle Camelie”, un uomo le si para davanti : “Oh grande amatrice ! “ le grida e si allontana.

   Era un uomo piccoletto, con monocolo, il più mondano, il più pazzo, il più byroniano ; Carducci leggeva i suoi versi, una duchessa lo aveva sposato e Parigi lo adorava : era Gabriele d’Annunzio.

   Quel primo incontro non ebbe seguito e solo dopo un lungo intervallo poeta ed attrice si ritrovarono a Venezia;  Eleonora non poteva dormire, la notte, e girava in gondola per i canali. Gabriele pure ed un mattino, per caso, sbarcarono insieme. Si riconobbero e non si lasciarono più.

   Per la prima volta in vita sua, Eleonora mette su casa, a Venezia. Bisogna degnamente accogliere le visite dell’amato ! Drappi rossi, scialli ricamati, vetri di Murano, marmi infranti, icone bizantine, libri consunti, erbe secche, quel tanto di caos e di squisitezza che poteva incantare il cuore del Poeta.

   Da questo suo amore, Eleonora riceve una “luce straziante” : ama, soffre, si rifugia nell’ombra, docilmente aspetta l’opera che egli le ha promrssa e organizza una “tournée” in America unicamente per procurarsi i fondi necessari ai decori teatrali del suo Decoratore.

   “Gioconda”, “ Città Morta”, “Francesca sa Rimini” sono accolte dal pubblico con ostilità, anche se nulla è stato risparmiato per la maggiore nobiltà del lavoro :  le fibbie delle comparse sono di vere gemme, Micene rivive, la Duse cela le sue belle mani offrendo la sua bella voce. Il pubblico, però, fischia. Che le importa il successo, ormai, o i danari ? Ha Gabriele, barbetta caprina, sfolgoranti parole, certezza, incertezza, meravigliose bugie, “Laudi”, Capponcina, debiti, cavalcate sulla sabbia di  Marina di Pisa, cani gloriosi, donne adoranti, crudeltà, tenerezza, Gabriele, Gabriele ! Le pare che nulla sia sufficiente a pagare l’inaudita fortuna di stargli vicina e dà la sua sofferenza, il suo lavoro, la sua gloria, senza chiedergli nulla.

                                                       “Il Fuoco”

   Ad Atene, durante una “tournée”, d’Annunzio, che accompagna i suoi interpreti, consegna all’impresario ed amico di Eleonora il manoscritto di un libro nuovo, chiedendogli se la pubblicazione gli pare possibile. Questo libro è “Il Fuoco”.

   Tuoni e fulmini ! L’impresario fa un salto per aria, interrompe la lettura a metà, si precipita da Eleonora : questo libro non può uscire, questo libro non deve uscire, è uno scandalo, una calunnia, un’infamia ! Lei tace. dapprima, davanti alla collera del fedele amico, poi ritrova un poco di coraggio, per dichiarare di conoscere “Il Fuoco”, di approvarlo, di permetterlo. “Non si ha il diritto” dice, di soffocare un capolavoro !”.

   Però, in verità, ella non ha il diritto di opporsi al volere del suo amore. Quando la figlia Enrichetta, ormai fanciulla, la supplica di evitare che questa rovina si compia, Eleonora risponde che rinunciare a Gabriele le sarebbe  impossibile come tagliarsi una mano.Quando Cécile Sorel la compiange, ribatte che il sacrificio le è dolce. Ed “Il Fuoco” viene pubblicato.

   Cieca, immemore, non si difende neppure, anche se una vergogna atroce la stringe, anche se vorrebbe fuggire e nascondersi. Si aggrappa a questa estrema giovinezza che la lascia e ripete : “Ho quarant’anni e lo amo”.

   E Gabriele l’abbandona. Eleonora gli regala una bussola antica ed il suo perdono. E’ stanca, tutto le duole, tutto la fa soffrire : innumerevoli miserie fisiche, dominate finora dalla sua volontà, la tormentano : i polmoni, il cuore, gli occhi, i nervi, tutto cede. Per anni continuerà il suo lavoro. Sarà Vasillissa, sarà Rebecca, sarà Ellida. Andrà in scena soffocando per la tosse, per l’asma, per la paura irragionevole che improvvisamente la coglie.Dall’America del Sud a Vienna, dalla Russia a Parigi, ripeterà Magda e Margherita Gautier, senza più scopo. Il senso della solitudine la tortura ed una sera, a Berlino, pronunciando quel “sola ! “ che chiude “La Donna del Mare”, Eleonora capisce di non poter resistere più e nel 1909 lascia il teatro.

   Si rifugia a Firenze, per curarsi gli occhi minacciati di cecità, che lentamente guariscono. Enrichetta le chiede di venire a stabilirsi in Inghilterra, a Cambridge, dove ella vive con il marito, il professore Edward Bulloughs, ma Eleonora rifiuta. Il padre, quell’Alessandro Duse che aveva sempre desiderato dipingere ed ora, a Venezia, finalmente dipinge, la prega di raggiungerlo, ma Eleonora rifiuta. Devastata,, vive solitaria, mentre il mondo, con rapidità, la dimentica. Pellegrinaggi, fughe, partenze notturne, soggiorni segreti in città straniere, che la ricevono senza riconoscerla. Preghiere umili, di chi ancora non crede, ma vuol credere.

                                                       La Signora

   Casa di Roma, in via Nomentana, che pazientemente trasforma in quella Casa delle Attrici, da lei ideata con infinito amore. Poiché il riposo, il silenzio, le hanno dato nuove forze, Eleonora sente la necessità  di spenderle : festa di inaugurazione, patrona la Regina. Una folla fdi donne, con gonne ad “entrave”e corsetti lavorati alla turchesca, si stringe intorno alla “Signora”.

   La chiamano così, ormai, la Signopra : perfetto nome per quella che, non bella durante la giovinezza, in vecchiaia è diventata bellissima. Sta la Signora fra le sue protette e sorride.

   Le pare di aver trovato uno scopo. Dolce il maggio, su Roma, ma è il maggio 1914.

   Addio Casa delle Attrici, riposo, silenzio. Con ali nere vola la guerra sul mondo.Altri scopi troverà la Signora. Teatro del Fronte,visite ai soldati, ospedali. Finisce  la guerra, lo squallore la sostituisce. Eleonora Duse  si rifugia in Asolo, dove sarà la sua ultima casa. Vorrebbe darsi ancora, non sa a chi, a che cosa. Tenta il cinematografo, invece, su scenario di Grazia Deledda con “Cenere”.

   Eleonora ha fefde nel suo lavoro, ma non nel suo volto consumato. Si inizia così la sua lotta con gli operatori, con i registi, poiché supplichevolmente ella chiede sempre ombre, “flous”, veli, che nascondano la sua decadenza, e “Cenere” può presentare solo una Duse incenerita, spentissima.

   Ancora il Teatro. La guerra ha rovinato finanziariamente la Duse. Ricca non fu mai, noncurante e generosissima, ma padrona di un patrimonio modesto, che faceva amministrare, a Berlino, da Roberto von Mendelssohn, fedele amico, saggio consigliere. Ma l’inflazione inghiottisce ogni sostanza della Duse, che si ritrova poverissima. E ne è contenta.

   “Sola !”

   Ora ha un pretesto, la spinta, per tornare alle scene. Il 5 maggio 1921, davanti ad un pubblico ansioso, riappare Ellida, il volto nudo, capelli bianchi, voce palpitante e ferita. E’ un successo ? Qualcosa di meno e qualcosa di più, un gigantesco stupore davanti a tanta altezza raggiunta con mezzi tanto semplici. Eleonora ritrova il delirio, riprende il cammino trionfale, attraverso l’Italia, la Svizzera, l’Inghilterra. Intanto l’asma le toglie il respiro, i polmoni si struggono, gli occhi lacrimano, i nervi dolorano.  Intanto le finanze della Compagnia vanno malissimo  : dopo il primo anno, ha centomila lire di  debito; dopo il secondo, duecentomila. La Signora non sa come tener testa ai suoi impegni. Spessissimo la sua salute le impedisce di recitare e le penali sono rovinose ed ella ne perde ogni pace.

   Quello che fu il suo prodigioso amore ed ora orbo, eroe, Comandante di Fiume, rivolge una lettera ai giornali, ricordando l’opera da lei compiuta. Tuttavia non l’aiuta a realizzare il suo sogno: un teatro per lei, un teatro piccolissimo, modestissimo, “una cantina”, dice, o “una catacomba”, dove le sia permesso, circondata da giovani, creare una nuova arte.

   Meravigliosa fede della Signora !  Vecchia, stanca, potrebbe lasciarsi cadere. Invece lotta, presenta le opere che le sembrano degne, quali il “Così sia” di Gallarati Scotti e le difende anche davanti all’insuccesso. Finalmente, per liberarsi dai debiti, dagli impresari avidi, riparte per l’America del Nord. Ha 65 anni ed i suoi polmoni sono finiti.

   Pittsburg è metallica e grigia, mostri di cemento e di ferro si profilano sul cielo, piogge taglienti colpiscono la Signora, mentre, davanti al teatro, aspetta che le si apra l’ingresso degli artisti.

   Ma la rappresentazione della “Donna del Mare” è trionfale : alla fine soltanto, quando Eleonora pronuncia quel “sola !” che dà la misura del suo distacco, chi la conosce comprende che non solo il dramma finisce, ma la vita.

   Era il lunedì di Pasqua, il 23 aprile 1924. Per tutta la notte la Signora aveva chiesto, delirando, di ripartire, di riprendere il lavori. L’alba la trovò bianca, pacificata, nobilmente composta nella morte.

Alfredo Saccoccio   

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