Alta Terra di Lavoro

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Cassino, monumento all’orso Wojtek. Pistilli polemico: «Meglio ricordare le donne cassinati»

Posted by on Set 29, 2019

Cassino, monumento all’orso Wojtek. Pistilli polemico: «Meglio ricordare le donne cassinati»

CASSINO – Un buon risultato il restyling della fontana di piazza XV Febbraio: era diventata deposito di sedie e tavolini. Opportuno l’utilizzo abbondante di acqua (Acea permettendo), elemento fondante di Cassino. Bene ha fatto il sindaco D’Alessandro, con i suoi amministratori, ad inaugurarla in pompa magna. Senonché, con una certa amarezza, devo ricordare che per il complesso progettato dall’architetto Giancarlo Antonelli c’erano altri programmi che il sindaco pare abbia dimenticato.  Quando lanciai l’idea di innalzare un monumento alla donna protagonista della rinascita del Cassinate, fatta propria e sostenuta dal Centro Documentazione e Studi Cassinati-Onlus, e accolta con vivo interesse dai Cassinati, pensammo di utilizzare le nicchie della fontana lasciate vuote da Antonelli perché fossero impiegate per ricordare il martirio dei Cassinati. Ma ora non è più possibile. Eppure ad un’apposita riunione del CDSC parteciparono il sindaco e l’assessore alla cultura Nora Noury, ai quali fu illustrato il progetto. Netta fu l’adesione dell’amministrazione comunale, anche se fu escluso – ovviamente – un finanziamento per via dei vuoti delle casse comunali. Ora sorge il problema di individuare un altro sito per il monumento, cosa molto difficile ormai, vista la scarsa attenzione mostrata dal sindaco al progetto. 
A meno che non si pensi di farne uno spartitraffico in una rotatoria cittadina, come è avvenuto, ad esempio, per il monumento a S. Benedetto. A questo punto c’è la concreta possibilità di realizzarlo in uno dei comuni del circondario, visto che si tratta di celebrare l’eroismo delle donne del Cassinate, e non solo di Cassino, che condivisero lo stesso tragico destino della Città Martire. E pensare che si stava decidendo di affidare la presidenza del comitato istituzionale al sindaco pro tempore di Cassino. In occasione della cerimonia di inaugurazione della fontana, pochi giorni fa, il primo cittadino ha poi annunciato l’intento di installare, nella stessa piazza XV febbraio, un monumento al famoso orso Wojtek, divenuto celebre per la sua partecipazione alle battaglie della seconda guerra mondiale. Lo stesso orso a cui sono stati dedicati diversi monumenti in altre parti del mondo. Ben venga un’opera che ricordi l’orso, che costituirebbe certamente una suggestiva attrazione turistica ed accrescerebbe anche il prestigio della piazza e della sua nuova fontana. Non mi chiedo, come fanno altri, chi finanzierà l’opera, anzi, esprimo il mio apprezzamento per i promotori dell’iniziativa: ben venga chi, finalmente, a Cassino si adopera per l’arricchimento e la promozione della città.  Però l’idea che una simpatica bestia venga omaggiata per la sua cooperazione con i soldati, mi fa venire alla mente il contributo che diedero alle battaglie di Cassino altre bestie, più umili ma più determinanti: parlo dei poveri somari che furono costretti ad inerpicarsi fra le rocce di Monte Cairo carichi di munizioni e rifornimenti destinati ai combattenti alleati stremati e rintanati fra i costoni rocciosi del monte.  Perfino la coda di quegli asini servì ai soldati per superare gli impervi percorsi.  Ma accanto ai somari come non ricordare l’apporto dei muli che, in lunghe file, condotti da soldati italiani – questo forse molti lo ignorano – dalle retrovie, passando per la contrada San Michele, trasportavano anch’essi munizioni e rifornimenti per i combattenti in prima linea. Ma questo i solerti studiosi della Linea Gustav sapranno ben documentarlo; si veda comunque il bel libro di Umberto Cassottana, “Montelungo – Montecassino 1943-44” del 1994. Vogliamo fare monumenti anche a muli e asini? Per carità! Sta bene quello all’orso, che è portatore di un alone di internazionalità. Nulla a che vedere con i nostri umili quadrupedi che sono legati “soltanto” alle nostre tradizioni e alla nostra cultura. Nel frattempo il monumento alle nostre donne può attendere. Tuttavia per quanto mi riguarda il progetto va avanti: chi intende seguirlo si faccia avanti e dia una mano, che ve n’è bisogno.    

Emilio Pistilli

fonte http://www.linchiestaquotidiano.it/news/2017/06/20/cassino-monumento-all-orso-wojtek.-pistilli-polemico-megl/17274

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Gli eroi dimenticati di Cassino

Posted by on Giu 29, 2019

Gli eroi dimenticati di Cassino

Le tracce della linea Gustav ci sono ancora, sulle montagne, lì dove finisce la tua valle. C’è sempre il fiume Rapido, che d’estate è un rivolo e d’inverno si gonfia e si arruffa, nervoso, ostile, cattivo, come un dio che spazza le ambizioni degli umani.

Fu lui a frenare le truppe alleate del generale Clark, mentre le mitragliatrici tedesche facevano mattanza. Sono passati settantacinque anni dalla battaglia di Montecassino, le cicatrici (…)

(…) segnano la città, come un corpo dilaniato e ricostruito da un chirurgo maldestro. Qui ci fu il fronte italiano della Seconda guerra mondiale, eppure Cassino è sempre un po’ ai margini della mappa sacra della repubblica. Non è il Carso, non è il Piave, non è via Rasella o Piazzale Loreto, pochi raccontano il sangue di questi monti. Si ricorda con un certo fastidio anche quello che accadde dopo, nonostante Moravia e De Sica e il volto di Sophia Loren, gli stupri dei vincitori, le «marocchinate». Forse perché fu una guerra straniera sul suolo italiano e senza Resistenza, senza partigiani, senza rossi e neri. Cassino è il cimitero degli altri.

Eccone uno. Lo vedi lungo la strada, dopo una curva, in un quartiere di Cassino non molto lontano dal casello dell’autostrada. Si chiama Folcara e ancora porta i segni di quella che un tempo era campagna. Poco più in là c’è l’università. Il cimitero del Commonwealth è qui e per trovarlo non basta un navigatore satellitare, devi chiedere e molti risponderanno: «Mai sentito». Oppure: «È qui da qualche parte». Quelli che lo conoscono non vivono qui. Vengono magari dalla periferia del Tamigi, dalla contea di Surrey, a sud di Londra o da Porirua, la città delle due maree, a venti chilometri da Wellington o da qualche sobborgo di Nuova Delhi.

Le lapidi sono una fila bianca, come una brigata, divisa in quattro battaglioni. I morti sono 4.266, 284 non hanno più un nome, militi e ignoti: britannici, canadesi, australiani, neozelandesi, indiani, sudafricani, pachistani, nepalesi e un soldato dell’Armata Rossa. Tutti sono sepolti all’ombra lontana, lassù, dell’abbazia, sventrata, stuprata, dissacrata e poi ricostruita, come se la storia si potesse rammendare, perché quel monte racchiude qualcosa di più delle pietre e del marmo. È lì che Benedetto ha scritto la sua regola, il suo «ora et labora», segnando l’inizio del monachesimo, la fuga e il ritorno nel mondo, la rete globale che illumina la civiltà occidentale nell’incertezza dell’età di mezzo. Tutto questo però non consola i morti e forse non interessa neppure più di tanto ai vivi.

L’ULTIMO REPORTAGE Quello che resta è un cognome su una tomba, la terza a sinistra, in prima fila. C’è scritto C. Bewley e non è un soldato. C sta per Cirillo. È un giornalista, corrispondente sul fronte di Cassino per il Kemsley Newspapers, quotidiano che nel 1959 viene assorbito dal Times. È morto il 18 maggio del 1944. Era l’ultimo giorno della lunga battaglia. Aveva 39 anni. Poche ore dopo i superstiti delle divisioni polacche Karpatia e Kresova fissano la bandiera bianca e rossa a strisce orizzontali sui ruderi dei Montecassino. È toccato a loro pagare con il sangue il prezzo della guerra, la libertà della Polonia, lì dove tutto era cominciato nel settembre del ’39, con i cingolati di Hitler a schiacciare Varsavia. Il cimitero polacco è proprio sotto l’abbazia. Su una lapide ci sono queste parole: «Abbiamo dato le nostre anime a Dio, i nostri corpi all’Italia e i nostri cuori alla Polonia». È la sintesi di quei giorni di maggio. Il 15 febbraio la casa madre benedettina era stata rasa al suolo. Quando i polacchi il 16 maggio vanno all’assalto del monte per tre volte vengono respinti. A mezzogiorno hanno già perso il 20 per cento delle truppe. Di fronte hanno i paracadutisti tedeschi, duri, resistenti, si battono con fede cieca, spazzano il terreno con le mitragliatrici e i mortai. Vivono sottoterra ed emergono a gruppi per respingere gli attaccanti o morire. I loro cecchini colpiscono i polacchi come uccelli appollaiati sui rami. Il 17 gli uomini del Wadysaw Anders, che dopo la guerra si rifiuterà di tornare nella Polonia comunista e morirà esule a Londra, ripartono all’attacco della montagna. Aggrediscono la Cresta del fante, scalano la Testa del serpente. Si fanno scudo con i cadaveri dei compagni, sparano contro qualsiasi forma che assomigli anche vagamente all’elmetto di un parà. Quota 593 cade all’alba del 18. Il primo a mettere piede sulle macerie è un plotone di ulani del Primo Lancieri Podolski. Trovano un gruppo di tedeschi morenti abbandonati dai compagni. Il terreno è tappezzato di papaveri e di cadaveri. Sulle rovine di Montecassino scende il silenzio. Nel cielo di mezzogiorno i lancieri issano al vento la bandiera. Dopo sei mesi la battaglia di Cassino è finita, la strada per Roma è aperta.

È LA MORTE, È LA VITA Sta in piedi, fermo, in mezzo a un silenzio lieve, con le braccia lungo i fianchi e i pugni chiusi. Sulla pelle ha tatuaggi che raccontano la storia di famiglia. Il suo nome è Thomas Tekanapu Rawakata, nel mondo lo conoscono con l’acronimo di TJ. Perenara. È il mediano di mischia degli All Black, la nazionale neozelandese di rugby, ed è lui adesso il leader dell’Haka. Non è solo una danza di guerra. È il corpo che parla e ti dice chi sei. È mani, piedi, gambe, corpo, voce, lingua, occhi. TJ la sente battere dentro, ma questa volta la tiene a bada. Suo zio è sepolto qui. È il 17 febbraio del 1944. Sono le nove e mezza della sera e ovunque si sente il canto del ventottesimo battaglione Maori. «Ka mate, ka ora» (è la morte, è la vita). È il debutto dell’Haka sul suolo italiano. Poi verrà la marcia, contro le mitragliatrici tedesche, con la missione di arrivare oltre la linea, laggiù dove c’è la stazione ferroviaria. Chi non viene falciato si aggrappa alla vita con un corpo a corpo contro il nemico, in una notte senza luna dove non si riconoscono i vivi e i morti. Su 200 ne resteranno in piedi meno di settanta. Qui, nel cimitero del Commonwealth, c’è un pezzo di patria, il sangue della Nuova Zelanda. È nella battaglia di Montecassino che si sono riconosciuti come nazione, sacrificando la loro gioventù. Chiunque abbia qui, un nonno, un padre, un marito, un fratello, uno zio viene di tanto in tanto ad incontrarlo, perché tutti i neozelandesi, e soprattutto per i maori, il rapporto con i loro morti non è puro spirito. È carnale. È un abbraccio. Ai morti si fa visita, sempre, anche se sono dall’altra parte del mondo.

THE WALL Il muro per Roger Waters è il silenzio che ha inghiottito il padre. C’è una fotografia del 18 febbraio 1944. Il tenente dei fucilieri Reali Erich Fletcher Waters sorride accanto alla moglie e tiene in braccio il figlio di cinque mesi. È Roger. È l’unica fotografia che ha con il padre. Per anni e anni lo ha cercato, per capire dove è caduto, dove è sepolto. Qui a Cassino c’è il suo corpo, anche se è morto ad Aprilia, dopo lo sbarco di Anzio. Nel cimitero del Commonwealth la leggenda dei Pink Floyd torna ogni tanto a parlare con il padre che non ha conosciuto: «Voglio essere nella trincea della vita. Io non voglio essere al quartier generale, io non voglio essere seduto in un albergo da qualche parte a guardare il mondo che cambia, voglio cambiarlo io. Voglio essere impegnato. Probabilmente, in un modo che mio padre forse approverebbe».

Vittorio Macioce

fontehttps://www.pontelandolfonews.com/storia/70-della-seconda-guerra-mondiale-2/32632-2/

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Il nazista che salvò i tesori dell’abbazia di Montecassino

Posted by on Mag 16, 2019

Il nazista che salvò i tesori dell’abbazia di Montecassino

Nel 1944 le forze alleate bombardarono e distrussero l’abbazia di Montecassino, ma pochi sanno che nel frattempo una gran quantità di preziosi manoscritti, documenti, reliquie e dipinti erano stati messi in salvo dai nazisti. L’iniziativa era stata presa dal tenente colonnello Julius Schlegel, storico dell’arte e di religione cattolica, che riuscì a convincere l’abate Gregorio Diamare a fidarsi di lui.

Nel 75° anniversario della battaglia di Montecassino, val la pena raccontare una storia che non molti conoscono.

Tutti sanno che l’abbazia fondata da san Benedetto nel 529 d.C. fu completamente distrutta dai bombardieri americani nel 1944, con un clamoroso errore tattico, oltre che compiendo un vero e proprio crimine contro l’arte e la storia (i soldati tedeschi, infatti, che non avevano mai occupato il monastero integro, si arroccarono invece perfettamente tra le rovine, massacrando le fanterie alleate e tenendole bloccate sulla Linea Gustav per interi mesi).

Pochi sanno però che fine fecero i tesori artistici conservati nell’abbazia: 70.000 volumi della biblioteca, 1.200 manoscritti preziosissimi (incluse le opere di Cicerone, Orazio, Virgilio, Ovidio e Seneca), 80.000 documenti, oggetti di culto in metallo prezioso, il Tesoro di san Gennaro, le reliquie di san Benedetto da Norcia, di santa Scolastica, del S. Legno e preziosi dipinti, già provenienti dal Museo di Capodimonte che erano stati portati a Montecassino per motivi di sicurezza. Tra questi, opere di Leonardo da Vinci, Tintoretto, Domenico Ghirlandaio, Pieter Bruegel il Vecchio, Tiziano e Raffaello. 

Ebbene, questi tesori (incredibile dictu) furono salvati dai nazisti per iniziativa del tenente colonnello (Oberstleutnant) Julius Schlegel, in servizio presso la divisione “Hermann Göring” della Luftwaffe.

Il “monument’s man” con la svastica sul petto era nato a Vienna nel 1895 ed era uno storico dell’arte. Arruolatosi nel 1939 come ufficiale d’aeronautica, partecipò alla campagna di Francia, mentre dal 1941 al 1943 venne assegnato negli impianti di riparazione della Luftwaffe durante la guerra tedesco-sovietica, nella campagna del Nordafrica e nella campagna di Sicilia. Nel maggio 1943, fu trasferito alla Fallschirm-Panzer-Division 1 “Hermann Göring”. Comandante del reparto riparazioni, mentre si evolveva la situazione bellica lungo la linea Gustav, Schlegel comprese che cresceva la minaccia per l’abbazia di Montecassino.

Le strade a grande percorrenza che dal Sud Italia portavano a Roma erano l’Adriatica e l’Appia. Entrambe, tuttavia, non erano utilizzabili dai grandi corazzati. L’unica arteria davvero pericolosa per la Capitale era la Casilina che, nel Lazio, doveva passare proprio attorno a Montecassino. Volendo creare un dispositivo difensivo, era normale che l’abbazia avrebbe fatto parte della Gustav, la linea fortificata e munita dai genieri del Reich, comandati dal generale Hans Bessel.

Il 14 ottobre 1943 il tenente colonnello Schlegel, cattolico, insieme al capitano medico Maximilian Becker, protestante, accompagnati da un interprete si presentarono all’abate di Montecassino, monsignor Gregorio Diamare: “Io vengo in nome della pace”, disse l’ufficiale e comunicò al religioso, con riservatezza, che il monastero si sarebbe venuto a trovare proprio sulla linea del fuoco. Lo invitava così a mettere in salvo tutto il patrimonio culturale e artistico della Badia: offriva i mezzi per lo sgombero di tali tesori e invitava anche i monaci a evacuare. Si congedò dicendo che sarebbe tornato il giorno dopo per apprendere la risposta del padre abate. Nel pomeriggio, Diamare ebbe un’agitatissima riunione con i confratelli: nessuno voleva convincersi della gravità della situazione e, in genere, si diffidava dei tedeschi.

Alla fine l’abate decise di consegnare l’Archivio e la Biblioteca Monumentale ai militari germanici dividendo il materiale in due categorie: la prima relativa agli oggetti appartenenti allo Stato italiano (di cui l’abate era il conservatore) e la seconda comprendente i beni privati del monastero. Quando due giorni dopo tornarono i tedeschi, proposero di portar via anche il coro, gli armadi della sacrestia, i quadri della basilica e i mobili più preziosi. Subito cominciarono ad arrivare soldati, camion e materiale per costruire casse di legno. Il 17 ottobre partirono i primi camion diretti a Spoleto, sede del comando divisionale della Hermann Göring. Quando l’alto comando tedesco venne a sapere dell’iniziativa del tenente colonnello Schlegel, ci fu un attimo di nervosismo e indecisione: perché quell’ufficiale sottraeva uomini e mezzi per una simile operazione? Quando però il feldmaresciallo Albert Kesselring fu relazionato da Schlegel, colse il valore culturale dell’operazione e ne intravide anche un buon “ritorno mediatico”. Il trasporto dei beni dell’abbazia, avvenuto con 43 camion, si concluse il 3 novembre. Secondo la testimonianza dei monaci Grossetti e Matronola “i militari germanici furono disciplinatissimi” e prima delle operazioni il colonnello Schlegel aveva dato ordini molto severi e aveva fatto loro un discorso appellandosi all’onore del soldato tedesco.

L’8 dicembre 1943″, spiega lo storico e studioso della divisione Hermann Göring, Massimo Lucioli, “le casse contenenti parte dei beni giunsero a Roma Castel S. Angelo, mentre il 4 gennaio arrivarono le altre presso Palazzo Venezia. La riconsegna dei tesori all’Italia avvenne con una cerimonia pubblica che chiuse definitivamente la bocca alla propaganda alleata la quale spargeva da mesi la voce che i tedeschi stessero trafugando le opere d’arte di Montecassino. E’ pur vero che qualche cosa rimase appiccicata alle dita di Hermann Göring, grande appassionato d’arte, ma fu ritrovata alla fine della guerra presso la sua villa di Karinhalle e comunque restituita all’Italia”.

L’ufficiale tedesco ricevette dall’abate Diamare una pergamena miniata con parole di ringraziamento all’”illustri ac dilecto viro tribuno militum Julio Schlegel”.

fonte http://lanuovabq.it/it/il-nazista-che-salvo-i-tesori-dellabbazia-di-montecassino

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