Luglio S. Vito (Teramo), il 1, insorge contro il nuovo regime. Interviene il 30° reggimento fanteria. I militari rastrellano il paese, fucilano 153 civili e ne deportano 120 in Piemonte. Nei boschi di San Fele avviene uno scontro tra guerriglieri e un forte gruppo di carabinieri e guardie nazionali. 14 sono catturati e fucilati. Nel comune di Isola gli insorti di Chiavone assaltano il posto doganale dello Scaffo S. Domenico e s’impossessano d’armi e munizioni. In Irpinia, il 2, sono in rivolta Chiusano, Sorbo Serpico, Salza, Volturara, Malepassoe Monteforte. Nel beneventano un drappello di soldati è massacrato e i loro cadaveri sono appesi ad un chiodo davanti alle porte delle case che poco prima hanno saccheggiato.
In questa decima
puntata del libro di Giuseppe Scianò “… e nel mese di maggio del 1860 la
Sicilia diventò Colonia” l’autore, lasciando parlare i testimoni dell’epoca
(anche Giuseppe Cesare Abba, il cantore di Garibaldi, che da buon ligure non si
rende conto, in certi passi, di smentire se stesso), ci dà la misura del ruolo
centrale svolto dalla mafia durante la cosiddetta impresa dei mille
3.1. Garibaldi
a Salemi: di bene in meglio... – A Salemi il primo applauso, ma
non certamente spontaneo. Il Barone Sant’Anna ed i suoi amici avevano fatto un
buon lavoro. Una delegazione di cittadini di Salemi va infatti incontro
festosamente a Garibaldi e gli mostra il tricolore che sventola sul castello,
fatto costruire nel XIII secolo da Federico II, imperatore del Sacro Romano
Impero e Re di Sicilia. È la prima volta che il tricolore precede l’arrivo dei
Garibaldini. Soltanto di qualche ora, presumiamo.
Maggiori i festeggiamenti in città dove la gente grida: «Morte al barbone!» (e
non «al Borbone», come sottolinea il Bandi che non perdona ai Siciliani la
scarsa conoscenza e la pessima pronunzia della lingua italiana in quelle
pochissime occasioni in cui la usano). Mentre Garibaldi con i baroni Mistretta,
Torralta e soprattutto Sant’Anna fa alta politica (e di ciò parleremo
ampiamente).
Il Bandi intanto ci spiega ciò che fanno gli altri
Garibaldini:
«Tutto quel primo giorno di fermata a Salemi fu
speso nel fare apparecchi, si tolsero due cannoni dai vecchi ed inutili
affusti, per farne loro dei nuovi, ai quali si adattarono ruote da carrozze, si
dié mano a fabbricar delle lance; si requisirono i cavalli, e si aprirono gli
arruolamenti pei villani, che in buon numero erano accorsi in città».(8)
Dopo avere parlato della grande meraviglia dei
villani (ma non erano quelli gli insorti ed i guerriglieri che si battevano per
l’Unità d’Italia ancor prima dello sbarco dei Mille, come afferma la
storiografia risorgimentale?), il Bandi ci dice che i villani stessi si mostrano
veramente convinti che, con quei portentosi argomenti, i Garibaldini avrebbero
sconfitto in prima battuta i Barbone, i Napoletani e gli sguizzeri.
Insomma il Bandi non ci sta a fare passare per
insorti quei poveri villani, mandati lì magari dai galantuomini, dai quali
dipendono. E non sospetta però che quei villani possano, con ammirazione
ostentata, fare buon viso a cattiva sorte e farsi beffe di lui.
In qualche modo gli siamo grati tuttavia per il
fatto che non parli di folle inneggianti all’Unità d’Italia ed a Vittorio
Emanuele. Quello che invece non apprezziamo è il tono di superiorità che
mostrerà sempre nei confronti dei Siciliani e l’ironia, talvolta eccessivamente
cattiva, e persino razzista, con cui descrive, sempre o quasi, i suoi interlocutori
locali.
Ecco, ad esempio, il commento che l’aiutante di
campo di Garibaldi fa alla meraviglia di quei villani:
«Nel vedere quella gran curiosità de’ villani, io
rammentavo i racconti di que’ viaggiatori, che ci dipinsero i selvaggi (sic!)
stupiti e trasecolati dinanzi a’ coltelli e ai fucili e ai gingilli di vetro,
che loro si mostravano per allettarli, e ne facevo gran festa».(9)
Poco dopo definirà, ancora una volta, Siciliani
beduini i cosiddetti volontari. (10)
Necessaria, al riguardo, una riflessione. Il fatto
che i collaborazionisti non vengano quasi mai stimati dal nemico (con il quale,
appunto, collaborano) è notorio. Ma il Bandi, con il suo razzismo, ironico e
graffiante, ci dimostra ancora una volta che i fratelli d’Italia, che nel maggio
del 1860 avevano invaso la Sicilia, non erano affatto fratelli dei Siciliani. E
che egli stesso, ufficiale addetto alla persona del generalissimo Garibaldi, era
dopotutto prevalentemente un gran maleducato.
Un’ultima
esperienza del bravo Bandi a Salemi. Ad un certo punto, nella piazza
principale della città di Salemi, il Bandi vede campeggiare sul portone di un
palazzo un grosso stemma dei Borbone. E chiede alla piccola folla che lo
circonda:
«O Siciliani… che si tarda a buttar giù quella
vergognosa insegna. La folla – continua il toscanaccio – mi ascoltò in
silenzio; nessuno voleva essere il primo a fare atto di ribellione o a dir
bravo! a chi lo proponeva».
Insomma il tenente Bandi non nutre, neppure per un
attimo, il dubbio che l’impresa dei Mille possa non essere affatto condivisa da
quelle persone che, dopotutto, sono pur sempre capaci di intendere e di volere
più di quanto i Garibaldini non pensino. Racconta ancora:
«Ad un certo punto si fece dinanzi un uomo di
belle forme e dall’aria risolutissima, che seppi essere uno dei fratelli
Sant’Anna. Costui gridò: “Sì, sì, abbasso quell’arme!” e avventò contro l’arme
una grossa mazza che aveva in mano». (11)
Il raccontino si conclude con il coraggioso gesto
del Bandi che, salito su una scala, che intanto quei villani gli hanno portato,
stacca lo stemma (di legno o di gesso probabilmente), lo getta a terra e lo dà
in pasto alla folla che inizia a calpestarlo, a farlo a pezzi ed a bruciarlo,
su suggerimento del vecchio Giusmaroli, che aveva raccomandato al Bandi «briusel,
briu- sel», cioè brucialo.
Abbiamo riportato, pressoché integralmente, un
episodio secondario che erò ci dà tante conferme importanti.
Come
mai in una Salemi che festeggia, oltre ogni dire, l’ingresso
dell’Eroe, non esiste quel minimo di politicizzazione che faccia applicare la
regola rivoluzionaria di abbattere le insegne dell’odiata dinastia dei Borbone?
Che razza di insorti sono mai quelli di Salemi e che razza di rivoluzione hanno
fatto? Cosa pensano realmente i cittadini di Salemi?
C’è
di più, se stiamo bene attenti e riflettiamo su ciò che ha scritto il Bandi.
Nonostante le imprecazioni e le esortazioni del tenente garibaldino, la folla
infatti non si era mossa. Si muoverà quando – e soltanto quando – uno dei
fratelli del barone Sant’Anna darà l’imbeccata. Anzi darà un ordine ben
preciso, come si addice al fratello del Capo, «dall’aria resolutissima». Come
dire: «A Salemi non si muove foglia che il Barone Sant’Anna non voglia». Ma non
solo in quanto barone, ma piuttosto come grande mas- sone o probabile, sempre
più probabile, «pezzo da novanta» o comunque persona di rispetto, schierata
dalla parte giusta.
La gente è condotta da gentiluomini…
A Salemi, ovviamente, arriva anche Cesare Abba,
che, stanco per avere dovuto fare a piedi la salita scomunicata, ha il conforto
– stando a quanto scriverà – di assistere ad un vero e proprio tripudio per
Garibaldi.
«Quando giunse il Generale, fu proprio un delirio.
La banda si arrabbiava a suonare; non si vedevano che braccia alzate e armi
brandite; chi giurava; chi s’inginocchiava; chi benediceva: la piazza, le vie,
i vicoli erano stipati; ci volle del bello prima che gli facessero un po’ di
largo. Ed egli, paziente e lieto, salutava ed aspettava sorridendo».(12)
Dopo questa descrizione della gioia popolare, che esiste
soprattutto nella sua fantasia, lo scrittore garibaldino torna ai fatti più
terreni e così ci descrive la città di Salemi.
«L’hanno
piantata quassù che una casa si regge sull’altra, e tutte paiono incamminate
per discendere giù da oggi a domani. Avessero pur voglia di sbarcare i
Saraceni, Salemi era al sicuro. Vasta, popolosa, Sudicia, le sue vie somigliano
(a) colatoi. Si pensa a tenersi diritti; si cerca un’osteria e si trova una
tana. Ed aggiunge: ‘ Ma i frati, oh! I frati gli avevano belli i conventi’, e
questo dov’è la mia compagnia è anche netto. Essi se ne sono andati».(13)
I baroni, però, aggiungiamo questa volta noi, sono rimasti a Salemi per
ricevere ed aiutare Garibaldi. Strano. Ma è così…
Va anche detto che i conventi vengono, quando
servono, requisiti dai Garibaldini e che i frati, solitamente, ne vengono
cacciati. Anche con la forza ove occorra.
L’Abba continua regalandoci qualche piccola
ammissione:
«Gli abitanti non sono scortesi, sembrano
impacciati se facciamo loro qualche domanda. Non sanno nulla, si stringono
nelle spalle, o rispondono a cenni, a smorfie, chi capisce è bravo».(14)
Solita domanda, senza astio: se è vero che questi
abitanti non sanno nulla (sarebbe stato più corretto dire: «fanno finta di non
sapere nulla») o se rispondono a cenni e se… «Chi ci capisce è bravo», come si
fa a dire che erano insorti e che volevano ad ogni costo l’Unità d’Italia e
Vittorio Emanuele? E come avrebbe fatto di lì a poco Garibaldi a dire che lo
volevano Dittatore?
L’Abba, sia pure con qualche puzza sotto il naso,
deve riconoscere tuttavia il grande senso di ospitalità dei Siciliani e ci
racconta:
«Entrai stanco in una taverna, profonda quattro o
cinque scalini dalla via. V’era una brigata di amici, che mangiavano
allegramente i maccheroni in certe ciotole di legno che… (forse: facevano
schifo, n.d.A.). Eppure ne mangiai anch’io. E bevemmo e chiacchierammo, e
c’eravamo quasi dimenticati d’essere qui a questi passi, quando…».(15)
Insomma proprio quando il buon ligure comincia a
gustare il vino ed i maccheroni Siciliani, sarebbe stato avvertito che un
«grosso corpo di Napo- letani» era stato avvistato a poche miglia da
Salemi. Si torna quindi – nel diario dell’Abba – a parlare e a scrivere
ufficialmente. Ed è così che si tirano fuori altri trionfi ed ovazioni di folla
per Garibaldi, a piedi o a cavallo che appaia.
Ma un altro sprazzo di sincerità sfugge al nostro
scrittore che, dopo avere parlato di squadre di insorti che arrivano da ogni
parte, ci rende partecipi dell’impressione che gli hanno fatto questi
volontari. Egli scrive:
«Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con
certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistola. Tutta questa
gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota».(16)
A parte la descrizione della conformazione fisica
dei nuovi arrivati, che non sembrano certamente delle persone affidabili, è
importante il fatto che l’Abba ci confermi quello che già abbiamo compreso
dalle altre testimonianze. I picciotti, cioè, non hanno né avranno alcuna
disciplina militare, perché obbediscono devoti soltanto ai gentiluomini dai
quali sono condotti.
Per la mafia, che sta per fare il salto di qualità,
si aprono grandi prospettive.(17) Mala tempora in vista, invece, per il Popolo
Siciliano, per la Nazione Siciliana.
Garibaldi
è ben visto dalla mamma – Secondo Giancarlo Fusco il merito principale delle accoglienze, con
i baroni Mistretta, Torralta e soprattutto Sant’Anna fa alta politica (e di ciò
parleremo ampiamente).
Il Bandi intanto ci spiega ciò che fanno gli altri
Garibaldini:
«Tutto quel primo giorno di fermata a Salemi fu
speso nel fare apparecchi, si tolsero due cannoni dai vecchi ed inutili
affusti, per farne loro dei nuovi, ai quali si adattarono ruote da carrozze, si
dié mano a fabbricar delle lance; si requisirono i cavalli, e si aprirono gli
arruolamenti pei villani, che in buon numero erano accorsi in città».(8)
Dopo avere parlato della grande meraviglia dei
villani (ma non erano quelli gli insorti ed i guerriglieri che si battevano per
l’Unità d’Italia ancor prima dello sbarco dei Mille, come afferma la
storiografia risorgimentale?), il Bandi ci dice che i villani stessi si mostrano
veramente convinti che, con quei portentosi argomenti, i Garibaldini avrebbero
sconfitto in prima battuta i Barbone, i Napoletani e gli sguizzeri.
Insomma il Bandi non ci sta a fare passare per
insorti quei poveri villani, mandati lì magari dai galantuomini, dai quali
dipendono. E non sospetta però che quei villani possano, con ammirazione
ostentata, fare buon viso a cattiva sorte e farsi beffe di lui.
In qualche modo gli siamo grati tuttavia per il
fatto che non parli di folle inneggianti all’Unità d’Italia ed a Vittorio
Emanuele. Quello che invece non apprezziamo è il tono di superiorità che
mostrerà sempre nei confronti dei Siciliani e l’ironia, talvolta eccessivamente
cattiva, e persino razzista, con cui descrive, sempre o quasi, i suoi
interlocutori locali.
Ecco, ad esempio, il commento che l’aiutante di
campo di Garibaldi fa alla meraviglia di quei villani:
«Nel vedere quella gran curiosità de’ villani, io
rammentavo i racconti di que’ viaggiatori, che ci dipinsero i selvaggi (sic!)
stupiti e trasecolati dinanzi a’ coltelli e ai fucili e ai gingilli di vetro,
che loro si mostravano per allettarli, e ne facevo gran festa».(9)
Poco dopo definirà, ancora una volta, Siciliani
beduini i cosiddetti volontari. (10)
Necessaria, al riguardo, una riflessione. Il fatto
che i collaborazionisti non vengano quasi mai stimati dal nemico (con il quale,
appunto, collaborano) è notorio. Ma il Bandi, con il suo razzismo, ironico e
graffiante, ci dimostra ancora una volta che i fratelli d’Italia, che nel maggio
del 1860 avevano invaso la Sicilia, non erano affatto fratelli dei Siciliani. E
che egli stesso, ufficiale addetto alla persona del generalissimo Garibaldi, era
dopotutto prevalentemente un gran maleducato.
Un’ultima
esperienza del bravo Bandi a Salemi. Ad un certo punto, nella piazza
principale della città di Salemi, il Bandi vede campeggiare sul portone di un
palazzo un grosso stemma dei Borbone. E chiede alla piccola folla che lo
circonda:
«O Siciliani… che si tarda a buttar giù quella
vergognosa insegna. La folla – continua il toscanaccio – mi ascoltò in
silenzio; nessuno voleva essere il primo a fare atto di ribellione o a dir
bravo! a chi lo proponeva».
Insomma il tenente Bandi non nutre, neppure per un attimo, il
dubbio che l’impresa dei Mille possa non essere affatto condivisa da quelle
persone che, dopotutto, sono pur sempre capaci di intendere e di volere più di
quanto i Garibaldini non pensino. Racconta ancora:
«Ad un certo punto si fece dinanzi un uomo di
belle forme e dall’aria risolutissima, che seppi essere uno dei fratelli
Sant’Anna. Costui gridò: “Sì, sì, abbasso quell’arme!” e avventò contro l’arme
una grossa mazza che aveva in mano». (11)
Il raccontino si conclude con il coraggioso gesto
del Bandi che, salito su una scala, che intanto quei villani gli hanno portato,
stacca lo stemma (di legno o di gesso probabilmente), lo getta a terra e lo dà
in pasto alla folla che inizia a calpestarlo, a farlo a pezzi ed a bruciarlo,
su suggerimento del vecchio Giusmaroli, che aveva raccomandato al Bandi
«briusel, briu- sel», cioè brucialo.
Abbiamo riportato, pressoché integralmente, un
episodio secondario che erò ci dà tante conferme importanti.
Come
mai in una Salemi che festeggia, oltre ogni dire, l’ingresso
dell’Eroe, non esiste quel minimo di politicizzazione che faccia applicare la
regola rivoluzionaria di abbattere le insegne dell’odiata dinastia dei Borbone?
Che razza di insorti sono mai quelli di Salemi e che razza di rivoluzione hanno
fatto? Cosa pensano realmente i cittadini di Salemi?
C’è
di più, se stiamo bene attenti e riflettiamo su ciò che ha scritto il Bandi.
Nonostante le imprecazioni e le esortazioni del tenente garibaldino, la folla
infatti non si era mossa. Si muoverà quando – e soltanto quando – uno dei
fratelli del barone Sant’Anna darà l’imbeccata. Anzi darà un ordine ben
preciso, come si addice al fratello del Capo, «dall’aria resolutissima». Come
dire: «A Salemi non si muove foglia che il Barone Sant’Anna non voglia». Ma non
solo in quanto barone, ma piuttosto come grande mas- sone o probabile, sempre
più probabile, «pezzo da novanta» o comunque persona di rispetto, schierata
dalla parte giusta.
La gente è condotta da gentiluomini…
A Salemi, ovviamente, arriva anche Cesare Abba,
che, stanco per avere dovuto fare a piedi la salita scomunicata, ha il conforto
– stando a quanto scriverà – di assistere ad un vero e proprio tripudio per
Garibaldi.
«Quando giunse il Generale, fu proprio un delirio.
La banda si arrabbiava a suonare; non si vedevano che braccia alzate e armi
brandite; chi giurava; chi s’inginocchiava; chi benediceva: la piazza, le vie,
i vicoli erano stipati; ci volle del bello prima che gli facessero un po’ di
largo. Ed egli, paziente e lieto, salutava ed aspettava sorridendo».(12)
Dopo questa descrizione della gioia popolare, che
esiste soprattutto nella sua fantasia, lo scrittore garibaldino torna ai fatti
più terreni e così ci descrive la città di Salemi.
«L’hanno
piantata quassù che una casa si regge sull’altra, e tutte paiono incamminate
per discendere giù da oggi a domani. Avessero pur voglia di sbarcare i
Saraceni, Salemi era al sicuro. Vasta, popolosa, Sudicia, le sue vie somigliano
(a) colatoi. Si pensa a tenersi diritti; si cerca un’osteria e si trova una
tana. Ed aggiunge: ‘ Ma i frati, oh! I frati gli avevano belli i conventi’, e
questo dov’è la mia compagnia è anche netto. Essi se ne sono andati».(13)
I baroni, però, aggiungiamo questa volta noi, sono rimasti a Salemi per
ricevere ed aiutare Garibaldi. Strano. Ma è così…
Va anche detto che i conventi vengono, quando
servono, requisiti dai Garibaldini e che i frati, solitamente, ne vengono
cacciati. Anche con la forza ove occorra.
L’Abba continua regalandoci qualche piccola
ammissione:
«Gli abitanti non sono scortesi, sembrano
impacciati se facciamo loro qualche domanda. Non sanno nulla, si stringono
nelle spalle, o rispondono a cenni, a smorfie, chi capisce è bravo».(14)
Solita domanda, senza astio: se è vero che questi
abitanti non sanno nulla (sarebbe stato più corretto dire: «fanno finta di non
sapere nulla») o se rispondono a cenni e se… «Chi ci capisce è bravo», come si
fa a dire che erano insorti e che volevano ad ogni costo l’Unità d’Italia e
Vittorio Emanuele? E come avrebbe fatto di lì a poco Garibaldi a dire che lo
volevano Dittatore?
L’Abba, sia pure con qualche puzza sotto il naso,
deve riconoscere tuttavia il grande senso di ospitalità dei Siciliani e ci
racconta:
«Entrai stanco in una taverna, profonda quattro o
cinque scalini dalla via. V’era una brigata di amici, che mangiavano
allegramente i maccheroni in certe ciotole di legno che… (forse: facevano
schifo, n.d.A.). Eppure ne mangiai anch’io. E bevemmo e chiacchierammo, e
c’eravamo quasi dimenticati d’essere qui a questi passi, quando…».(15)
Insomma proprio quando il buon ligure comincia a
gustare il vino ed i maccheroni Siciliani, sarebbe stato avvertito che un
«grosso corpo di Napo- letani» era stato avvistato a poche miglia da
Salemi. Si torna quindi – nel diario dell’Abba – a parlare e a scrivere
ufficialmente. Ed è così che si tirano fuori altri trionfi ed ovazioni di folla
per Garibaldi, a piedi o a cavallo che appaia.
Ma un altro sprazzo di sincerità sfugge al nostro
scrittore che, dopo avere parlato di squadre di insorti che arrivano da ogni
parte, ci rende partecipi dell’impressione che gli hanno fatto questi
volontari. Egli scrive:
«Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con
certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistola. Tutta questa
gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota».(16)
A parte la descrizione della conformazione fisica
dei nuovi arrivati, che non sembrano certamente delle persone affidabili, è
importante il fatto che l’Abba ci confermi quello che già abbiamo compreso
dalle altre testimonianze. I picciotti, cioè, non hanno né avranno alcuna disciplina
militare, perché obbediscono devoti soltanto ai gentiluomini dai quali sono
condotti.
Per la mafia, che sta per fare il salto di qualità,
si aprono grandi prospettive.(17) Mala tempora in vista, invece, per il Popolo
Siciliano, per la Nazione Siciliana.
Garibaldi
è ben visto dalla mamma – Secondo Giancarlo Fusco il merito principale delle accoglienze, quando
– e soltanto quando – uno dei fratelli del barone Sant’Anna darà l’imbeccata.
Anzi darà un ordine ben preciso, come si addice al fratello del Capo,
«dall’aria resolutissima». Come dire: «A Salemi non si muove foglia che il
Barone Sant’Anna non voglia». Ma non solo in quanto barone, ma piuttosto come
grande mas- sone o probabile, sempre più probabile, «pezzo da novanta» o
comunque persona di rispetto, schierata dalla parte giusta.
La gente è condotta da gentiluomini…
A Salemi, ovviamente, arriva anche Cesare Abba,
che, stanco per avere dovuto fare a piedi la salita scomunicata, ha il conforto
– stando a quanto scriverà – di assistere ad un vero e proprio tripudio per
Garibaldi.
«Quando giunse il Generale, fu proprio un delirio.
La banda si arrabbiava a suonare; non si vedevano che braccia alzate e armi
brandite; chi giurava; chi s’inginocchiava; chi benediceva: la piazza, le vie,
i vicoli erano stipati; ci volle del bello prima che gli facessero un po’ di
largo. Ed egli, paziente e lieto, salutava ed aspettava sorridendo».(12)
Dopo questa descrizione della gioia popolare, che
esiste soprattutto nella sua fantasia, lo scrittore garibaldino torna ai fatti
più terreni e così ci descrive la città di Salemi.
«L’hanno
piantata quassù che una casa si regge sull’altra, e tutte paiono incamminate
per discendere giù da oggi a domani. Avessero pur voglia di sbarcare i
Saraceni, Salemi era al sicuro. Vasta, popolosa, Sudicia, le sue vie somigliano
(a) colatoi. Si pensa a tenersi diritti; si cerca un’osteria e si trova una
tana. Ed aggiunge: ‘ Ma i frati, oh! I frati gli avevano belli i conventi’, e
questo dov’è la mia compagnia è anche netto. Essi se ne sono andati».(13)
I baroni, però, aggiungiamo questa volta noi, sono rimasti a Salemi per
ricevere ed aiutare Garibaldi. Strano. Ma è così…
Va anche detto che i conventi vengono, quando
servono, requisiti dai Garibaldini e che i frati, solitamente, ne vengono
cacciati. Anche con la forza ove occorra.
L’Abba continua regalandoci qualche piccola
ammissione:
«Gli abitanti non sono scortesi, sembrano
impacciati se facciamo loro qualche domanda. Non sanno nulla, si stringono
nelle spalle, o rispondono a cenni, a smorfie, chi capisce è bravo».(14)
Solita domanda, senza astio: se è vero che questi
abitanti non sanno nulla (sarebbe stato più corretto dire: «fanno finta di non
sapere nulla») o se rispondono a cenni e se… «Chi ci capisce è bravo», come si
fa a dire che erano insorti e che volevano ad ogni costo l’Unità d’Italia e
Vittorio Emanuele? E come avrebbe fatto di lì a poco Garibaldi a dire che lo
volevano Dittatore?
L’Abba, sia pure con qualche puzza sotto il naso,
deve riconoscere tuttavia il grande senso di ospitalità dei Siciliani e ci
racconta:
«Entrai stanco in una taverna, profonda quattro o
cinque scalini dalla via. V’era una brigata di amici, che mangiavano
allegramente i maccheroni in certe ciotole di legno che… (forse: facevano
schifo, n.d.A.). Eppure ne mangiai anch’io. E bevemmo e chiacchierammo, e
c’eravamo quasi dimenticati d’essere qui a questi passi, quando…».(15)
Insomma proprio quando il buon ligure comincia a
gustare il vino ed i maccheroni Siciliani, sarebbe stato avvertito che un
«grosso corpo di Napo- letani» era stato avvistato a poche miglia da
Salemi. Si torna quindi – nel diario dell’Abba – a parlare e a scrivere
ufficialmente. Ed è così che si tirano fuori altri trionfi ed ovazioni di folla
per Garibaldi, a piedi o a cavallo che appaia.
Ma un altro sprazzo di sincerità sfugge al nostro
scrittore che, dopo avere parlato di squadre di insorti che arrivano da ogni
parte, ci rende partecipi dell’impressione che gli hanno fatto questi
volontari. Egli scrive:
«Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con
certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistola. Tutta questa
gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota».(16)
A parte la descrizione della conformazione fisica
dei nuovi arrivati, che non sembrano certamente delle persone affidabili, è
importante il fatto che l’Abba ci confermi quello che già abbiamo compreso dalle
altre testimonianze. I picciotti, cioè, non hanno né avranno alcuna disciplina
militare, perché obbediscono devoti soltanto ai gentiluomini dai quali sono
condotti.
Per la mafia, che sta per fare il salto di qualità,
si aprono grandi prospettive.(17) Mala tempora in vista, invece, per il Popolo
Siciliano, per la Nazione Siciliana.
Garibaldi
è ben visto dalla mamma – Secondo Giancarlo Fusco il merito principale delle accoglienze, c’eravamo
quasi dimenticati d’essere qui a questi passi, quando…».(15)
Insomma proprio quando il buon ligure comincia a
gustare il vino ed i maccheroni Siciliani, sarebbe stato avvertito che un
«grosso corpo di Napo- letani» era stato avvistato a poche miglia da
Salemi. Si torna quindi – nel diario dell’Abba – a parlare e a scrivere
ufficialmente. Ed è così che si tirano fuori altri trionfi ed ovazioni di folla
per Garibaldi, a piedi o a cavallo che appaia.
Ma un altro sprazzo di sincerità sfugge al nostro
scrittore che, dopo avere parlato di squadre di insorti che arrivano da ogni parte,
ci rende partecipi dell’impressione che gli hanno fatto questi volontari. Egli
scrive:
«Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con
certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistola. Tutta questa
gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota».(16)
A parte la descrizione della conformazione fisica
dei nuovi arrivati, che non sembrano certamente delle persone affidabili, è
importante il fatto che l’Abba ci confermi quello che già abbiamo compreso
dalle altre testimonianze. I picciotti, cioè, non hanno né avranno alcuna
disciplina militare, perché obbediscono devoti soltanto ai gentiluomini dai
quali sono condotti.
Per la mafia, che sta per fare il salto di qualità,
si aprono grandi prospettive.(17) Mala tempora in vista, invece, per il Popolo
Siciliano, per la Nazione Siciliana.
Garibaldi
è ben visto dalla mamma – Secondo Giancarlo Fusco il merito principale delle accoglienze,
riservate dalla cittadinanza di Salemi a Garibaldi ed ai
suoi Mille, va attribuito a Giuseppe La Masa. In parte è vero.
Ma il La Masa operava in un terreno già predisposto in tal senso dai fratelli
Sant’Anna.
Riportiamo, tuttavia un passo della narrazione del
Fusco perché, pur non dicendoci niente di nuovo, ci dà bene l’idea del clima e
dell’ambiente che si erano creati a Salemi.
«La Masa ha lavorato bene!, mormora Garibaldi,
piegato sulla sella, rivolgendosi a Sirtori. Il “fierissimo” Giuseppe La Masa,
palermitano, spadaccino formidabile e oratore travolgente, ha preceduto la
colonna di quasi 24 ore, per illustrare ai maggiorenti di Salemi le intenzioni
di Garibaldi, convincerli a dargli man forte e prepararli all’entrata dei
volontari. Il sindaco e i consiglieri comunali, i cosiddetti “decurioni”, per
quanto meno restii di quelli di Marsala, lo avevano accolto con palese
diffidenza. Ma alla fine, i suoi ragionamenti, favoriti dal dialetto, avevano
fatto breccia.
E ora mentre la cavalla bianca del Generale si
avvicina alla piazza principale, sospesa come un’ala bruna sugli ultimi
uliveti, ecco che quel diavolo di La Masa esce dal palazzo comunale tirandosi
dietro tutti i “pezzi grossi” locali: il barone Mistretta in elegante completo
di velluto marrone, il sindaco Tommaso Terranova, gli esponenti più autorevoli
del “Comitato di Liberazione”, costituitosi, ufficialmente, appena mezz’ora
prima; il dottor Ignazio Lampiasi, l’avvocato Luigi Corleo, il notaio Luigi
Torres… Tutti hanno in petto vistose coccarde tricolori. Tutti agitano i
cappelli verso il cielo di smalto azzurro».(18)
Dopo avere descritto qualche altro episodio della giornata dei
Mille a Salemi, compreso l’incontro con fra’ Pantaleo, francescano sui generis,
il Fusco ci dà un elenco degli approvvigionamenti che il La Masa procura ai
Garibaldini. Si tratta di generi acquistati con i soldi del Municipio e non
certamente di offerte spontanee della cittadinanza.
«Garibaldi ha la dimostrazione tangibile di quanto
sia stato efficiente La Masa nel preparare il terreno. Infatti, il sindaco
Terranova consegna all’intendente Bovi una considerevole quantità di vettovaglie:
2000 razioni di carne, 4000 di pasta e di riso, 4000 di vino, 30 chili di
caffè, 80 chili di zucchero, 200 chili d’olio, 40 di sale e un quintale di
candelotti. Per mettere insieme 4000 pagnotte il sindaco, non essendo
sufficienti i forni del paese, ha mobilitato, durante la notte del 13 anche i
panettieri di Santa Ninfa. Paga il Comune. Ma Sirtori, per regolarità
amministrativa, rilascia una ricevuta. Volendo, potrebbe anche provvedere a un
immediato rimborso, giacché nella cassetta di ferro affidata a Bovi vi sono lire
92 mila e centesimi 75. Ma è meglio tenersi stretto quel danaro, finché è
possibile. Visto che i Mille hanno bisogno di tutto: scarpe, vestiario,
medicinali, armi, muli, cavalli…».(19)
Il Fusco, prescindendo dal tono ironico e dal fatto
che analisi di carattere generale non ne vuole affrontare molte, ci fornisce
uno spaccato, breve ma efficace, delle componenti sociali che in concreto
forniscono il loro aiuto a Garibaldi.
Le
masse contadine, delle quali parla la storiografia ufficiale, non si vedono. Si
vede invece il «trasformismo» della classe politica, si vede la mafia, si vedono
i baroni e le forze più retrive della società siciliana dell’epoca.
A proposito dell’apporto mafioso, sul quale
torneremo continuamente, dobbiamo dire che per la verità questo si era già
intravisto, ma molto di sfuggita in alcuni autori. Ci riferiamo all’Abba, al
Nievo, allo stesso Bandi. Con Giancarlo Fusco – così come avviene per Denis
Mack Smith – il riferimento alla mafia è abbastanza esplicito. Gli ridiamo la parola:
«Il sindaco Terranova, in cuor suo, è di tendenze
piuttosto borboniche. Anche cinque o sei dei suoi consiglieri nell’intimo, sono
devoti a Franceschiello. Ma, così come stanno le cose, è meglio mettersi sul
petto grosse coccarde tricolori. A parte l’aria decisa di Garibaldi e dei suoi
seguaci, anche i patrioti locali sono tipi notoriamente risoluti. Nei fuciloni
dei “picciotti” vi sono, ben pressati, pallettoni grossi come ceci, impazienti
di avventarsi contro i “signuri”. E poi, ieri sera, il barone Alberto Maria
Mistretta, al cui passaggio tutti gli uomini si cavano rapidamente la
“coppola”, mormorando il sacramentale “voscienza benedica”, ha parlato chiaro:
“Garibaldi è ben visto dalla mamma. Quindi, bisogna dargli una manuzza!”. Tutti
sanno di che “mamma” si tratta. È una “mamma” che ha migliaia di “figghiuzzi”,
sparsi in tutta la Sicilia occidentale, pronti ad obbedirle ciecamente, senza
discutere. Giacché anche la più piccola disobbedienza può costare una scarica
di “lupara”. “E un sasso in bocca”».(20)
Ringraziamo il Fusco per questa testimonianza. Ma
c’è ben poco da scherzare, soprattutto per i Siciliani. Anche perché la mafia
era ed è estesa a tutta quanta la Sicilia.
E non solo…
Foto tratta da Radio Spada
Fine decima puntata / Continua
(8) G. Bandi, op. cit., pagg. 82 e 83.
(9) G. Bandi, op. cit., pag. 83.
(10) G. Bandi, op. cit., pag. 86.
(11) G. Bandi, ibidem.
(12) G. C. Abba, op. cit., pag. 60.
(13) G. C. Abba, op. cit., pag. 61.
(14) G. C. Abba, ibidem.
(15) G. C. Abba, op. cit., pagg. 61 e 62.
(16) G. C. Abba, op. cit., pag. 63.
(17) La mafia, come abbiamo avuto modo di chiarire
in altra sede, di fatto nel 1860 in Sicilia esiste già. Ma è molto diversa da
quella che si sarebbe affermata fra la fine del secolo diciannovesimo e di tutto
il secolo ventesimo. È più che una grande organizzazione a sé stante, una
specie di sottoproletario della camorra. La parola mafia è un neologismo ed è
poco usata. Non è ancora entrata ufficialmente nelle cronache giudiziarie e
letterarie. Lo farà dopo appena un biennio, con una commedia di grande successo
popolare (I mafiosi della vicaria). Va
ricordato che mafia, camorra e ’ndrangheta nelle rispettive realtà (Sicilia,
Campania e Calabria) ed altre aggregazioni malavitose esistenti in tutto il Sud
Italia avrebbero fatto uno storico salto di qualità proprio collaborando con
Piemontesi, Inglesi e Garibaldini nella conquista del Regno delle Due Sicilie e
nella successiva opera di sottomissione delle popolazioni ribelli.
La famiglia Frezza o Freccia è una delle più antiche e nobili della città di Ravello; le prime notizie risalgono al 1100 con Orso Freccia. Si diramò in Nola, Tropea, Barletta, Trani e Napoli, ove fu ascritta al Patriziato Napoletano del Seggio di Nido. Nel 1217 Giovanni fu arcivescovo di Manfredonia. Nel 1275 Niccolò Freccia, Nicola Confalone, Tommaso Coppola, Alessandro d’Afflitto, Andrea Bonito, Matteo Rufolo, Nicola Acconciaioco, Ganizzo di Palma e Angelo Pironti, prestarono al re Carlo I d’Angiò l’ingente somma di mille once d’oro, ricevendo come pegno la corona reale tempestata di pietre preziose. In seguito Niccolò divenne consigliere di re Carlo II d’Angiò e Luogotenente del Gran Protonotario del Regno.
Dalle coste del verde colle, sul quale sorgono, ombreggiate dagli ampi oliveti, le pittoresche mura dell’antico castello, che nel 1229 resistette all’impeto dell’esercito papale[2], – sull’erte pendici, tagliate da strade, da viottoli e da abitazioni, che furono il quarterio sancti Iohannis, feudo di un milite nei tempi normanni[3] e giù, fin nella pianura, irrigata dal serpeggiante Torano, si aggruppano e si distendono i molteplici e svariati edifici di Piedimonte d’Alife, la terra più popolata, più florida, più animata, della valle alifana del Volturno.
Nel 1780 fu istituito a Napoli, per la prima volta nel Mondo, l’ Albo degli Avvocati elaborato dal legislatore del Regno di Napoli; tra gli iscritti figurano numerosi avvocati appartenenti a famiglie nobili: il marchese Giacomo Amore, il marchese Ottavio Arena, il barone Nicola Maria Belli, il marchese Pasquale delli Monti, il marchese Andrea Castagnola, il barone Giuseppe Personè, il marchese Mario Visconti, il marchese Francesco de Luca, ed altri.