Alta Terra di Lavoro

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NEAPOLITANATA CON M.S0 ENZO AMATO

Posted by on Giu 26, 2019

NEAPOLITANATA CON M.S0 ENZO AMATO

Sabato 29 giugno 2019 alle ore 20.30 terzo appuntamento della Stagione di Concerti dell’Associazione Domenico Scarlatti presso il Centro di Cultura Domus Ars sito in via Santa Chiara 10c Napoli.

 L’Associazione Domenico Scarlatti che quest’anno compie trentacinque anni di attività ininterrotta, ha scelto come luogo deputato allo svolgimento dei concerti il Centro di Cultura Domus Ars nel cuore del Centro Storico cittadino che si sta imponendo come una delle Sale più belle e funzionali per programmare musica Classica, Popolare e Jazz. Oltre agli spettacoli programmati da Carlo Faiello direttore artistico del Centro,  grazie all’instancabile lavoro di Rachele Cimmino, Domus Ars è stata scelta da Antonio Florio per la bellissima Rassegna di Musica Barocca Sicut Sagittae, dal direttore artistico dell’Associazione Alessandro Scarlatti Tommaso Rossi per programmare bellissime attività con la prestigiosa Associazione napoletana, dalla nostra Associazione con il Festival internazionale del ‘700 Musicale Napoletano e da altre realtà musicali presenti in Città. Saranno protagonisti del Concerto di Sabato, Gabriella Colecchia – una delle più interessanti voci italiane, vincitrice del prestigioso Luciano Pavarotti International Voice Competition di Philadelphia ed interprete di grandi opere in tutto il mondo esibendosi in prestigiosi teatri tra cui il Teatro Real di Madrid, il Teatro Coliseo di Buenos Aires e il Teatro San Carlo di Napoli – Il chitarrista Francesco Scelzo – che si sta imponendo con il suo ultimo lavoro discografico presentato il 7 giugno  in questa Stagione Concertistica in maniera eccelsa mostrano grande  musicalità e un virtuosismo fuori dal comune, interpretando brani in chiave Jazzistica del chitarrista Roland Dyens con una tale perfezione come se  il  compositore francese li avesse scritti appositamente per lui ed Enzo Amato chitarrista – compositore e direttore d’orchestra conosciuto per la sua immensa passione per il Settecento Musicale Napoletano. Il Concerto ha come titolo Neapolitanata: Arie fuori e dentro al Palazzo” e presenterà brani colti e popolari di Giovanni Paisiello, Niccolò Piccinni, Saverio Mercadante, Gaetano Donizetti, Gioacchino Rossini e Anonimi in voga nel Settecento al tempo dei Borbone.

Guarda il programma dell’intera Stagione su www.domenicoscarlatti.it

Ingresso €.10.00 ridotto €. 5.00

Per info:

Domus Ars

Via Santa Chiara, 10

Info e prenotazioni: 081.3425603 –infoeventi@domusars.it

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Abitare un fondaco al Cavone. Centro Studi per la Storia dell’Arte e dell’Architettura delle città portuali

Posted by on Mar 10, 2019

Abitare un fondaco al Cavone. Centro Studi per la Storia dell’Arte e dell’Architettura delle città portuali

Sylvain Bellenger, direttore della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte, ha organizzato, con la collaborazione del texano The Edith ‘O Donnell Institute of Art History, il “Centro Studi per la Storia dell’Arte e dell’Architettura delle città portuali”. Un centro internazionale che, nato nel settembre scorso, in un edificio borbonico nel Real Bosco, chiamato la Capraia, lunedì ha fatto la sua prima relazione pubblica. L’argomento: “Abitare un fondaco al Cavone. Dall’archivio alle fonti orali, tracce e memorie della cultura popolare”.

Due i relatori: la professoressa Brigitte Marin, che, docente di Storia Moderna all’ Aix-Marseille Université, è onusta di altri prestigiosi incarichi, e Marcello Anselmo, storico contemporaneista, ricercatore nella stessa università marsigliese e autore di réportages e di studi sociali sulle città dell’Europa Meridionale. 

La professoressa Marin ha  iniziato parlando del suo condiviso metodo di studio: definire un fenomeno urbano risalendo alle sue  origini storiche, attraverso la ricerca e l’attenta lettura di documenti di archivio. In più, la professoressa dimostra di tener conto anche degli scritti di altri studiosi sull’argomento, rifacendosi al compianto Giuseppe Galasso (1929/ 2018), storico accademico e importante politico che, come tale, aveva dovuto attenersi a una considerazione del passato napoletano soprattutto quale causa dei mali presenti, secondo la prassi solita di ogni governo.

La Marin, quindi, riferisce di Galasso l’affermazione che i problemi della città vengono dal passato e che la difficile situazione abitativa in cui versa il popolo è “la continuità di un problema irrisolto”. In realtà, durante il governo spagnolo, quando Napoli era capitale di una delle Spagne, qui ci fu uno straordinario aumento del numero degli abitanti che, dai 40.000 esistenti durante il precedente governo aragonese, passarono a centinaia di migliaia.

Nel frattempo, furono costruite nuove mura, mentre veniva emanato il divieto di costruire fuori dalla loro cinta. Di conseguenza, i palazzi si innalzarono tanto che ai visitatori dell’epoca Napoli apparve come una città di grattacieli. E piacque. Ma esistevano ancora, al suo interno, i giardini delle case nobiliari e dei monasteri e c’era la vista amena delle verdi colline.

L’aumento demografico continuò anche dopo la terribile peste del 1656, per la quale morì – si dice- metà della popolazione, tra cui anche artisti famosi come Massimo Stanzione Battistello Caracciolo.

Dal Seicento la professoressa riporta l’uso fatto da uno scrittore francese in visita a Napoli, della parola “fondachiera”, per indicare la povera gente abitante dei fondaci napoletani, detta, poi, “plebe” e “gentaglia”. Nello stesso periodo (è forse interessante notarlo), un napoletano di genio come Gianlorenzo Bernini, che era stato chiamato da Luigi XIV per costruire il “Palazzo del Re”, veniva continuamente criticato dalla Corte e dal Colbert, Controllore Generale delle Finanze del Regno, e poi era ignominiosamente rimandato a casa. Così il “Palazzo del Re”, il Louvre, oggi ha le forme classiche della colonnade di Claude Perrault.

Delle incomprensioni e dei contrasti tra il razionalismo dei francesi e il naturalismo libero e ardito del Bernini riferì, nel suo diario, Paul Fréart de Chantelou, Mastro di Casa del Re, rivelandosi amico dell’artista italiano. Il che dimostra che ancora perdurava in Francia, nella seconda metà del ‘600, l’ammirazione per la creatività nostrana, ma stava per nascere, da un estremo razionalismo cartesiano, quell’illuminismo che si esprimerà, più di un secolo dopo, nel neoclassicismo giacobino.

Del suo lavoro di ricerca sul fondaco del Cavone, la professoressa Marin non nasconde le difficoltà. E ricorda come un colpo di fortuna, ma fu premio al suo impegno, l’essersi imbattuta nei documenti relativi ai monasteri scomparsi. Tra questi c’è il monastero femminile di santa Monica, nato come tale nel 1646 da un conservatorio del 1628.

Nell’insula, intorno al monastero, le monache costruirono un complesso di abitazioni modeste, il Fondaco del Cavone appunto, che dettero in fitto a basso prezzo a gente che aveva scarsi mezzi economici. Fu speculazione o beneficenza? L’uno e l’altro probabilmente, secondo i casi – suggerisce la professoressa. Che, citando i documenti, riferisce di numerosi interventi di manutenzione e decoro fatti, per queste abitazioni, nel Seicento e nel Settecento, che poi, nella seconda metà dell”800, vennero a mancare, determinandone il degrado.

Ma la situazione di degrado esistente in questo periodo storico riguardò tutta la città, e fu quello che Matilde Serao descrisse ne “Il ventre di Napoli”. Che non fu soltanto delle sue strutture materiali. Precedentemente, nel Settecento, invece, la maggior parte dei visitatori, notoriamente Goethe ma non solo,  avevano considerato il popolo napoletano, compresi i poveri, libero e felice.

Era ammirato il suo essere “picturesque”, termine inglese che allora sorse per connotare ciò che è veracemente originale ed è amabile per la sua diversità. Ma poi, appunto nella seconda metà dell”800, la povertà diventò miseria. Mentre, come dice la Marin, spesso il sorriso divertito dei turisti diventava una sorta di sprezzante ironia. Siamo negli anni successivi all’unità d’Italia. Il degrado delle abitazioni e dei relativi servizi portò all’emergenza sanitaria. A Napoli scoppiò il colera. E, di conseguenza, si giudicò necessario procedere alla bonifica del suo centro e del suo sistema fognario attraverso quello che fu detto il Risanamento oppure “lo sventramento”. Che diventò “la più estesa trasformazione urbanistica che la città storica abbia conosciuto”- ricorda, intervenendo nel colloquio instauratosi tra i relatori e il pubblico, un architetto, esperto urbanista.

È il professore Italo Ferraro, già docente alla Federico II e autore di un atlante in 12 volumi (edizioni Oikos), che racconta la storia di Napoli nella sua concreta realtà edilizia. Da cui si evince, non come semplice ipotesi ma come indubitabile testimonianza, l’eccezionale continuità storica dell’antica città partenopea.

Una continuità che ha fatto si che Napoli, che non è “una città con un porto” costruito successivamente (come Atene), ma una città-porto fondata da greci marinai, abbia potuto mantenere l’impronta delle sue origini marine, nell’organizzazione sociale, nella filosofia e nell’arte.

Infatti le antiche lcittà costiere greche, come Neapolis, Palepolis, o Elea, la patria di Parmenide, modellarono la loro organizzazione sociale tenendo conto dell’esperienza che ne avevano fatto sulla nave prima di stanziarsi sulla costa. Sulle antiche navi, non si eleggevano quali capi i politici-oratori. Ma era capo il nostromo (cubernetes in greco, gubernator in latino), il governatore, che otteneva la sua legittimità dando prova delle sue reali capacità. E ognuno dei marinai aveva le mansioni relative alle proprie possibilità, il che non comportava la sanzione di una superiorità degli uni sugli altri, perché era evidente il fatto che si era tutti sulla stessa barca: una paritaria società di disuguali.

Così, alla caduta dell’impero romano, Napoli fu, per molti secoli, guidata da un dux con le funzioni di governatore, e fu un ducato. Finché, dopo l’esperienza normanna, la città non conobbe gli Angioini, che la resero capitale di un Regno. E fu il centro conservatore di una cultura anomala, invisa agli accademici e temuta dalle Autorità. Una corrente filosofica diversa da quella classica improntata al razionalismo socratico-aristotelico. Fu l’empirismo contro il razionalismo, l’esperienza contro lo scientismo, la libertà di vivere contro l’eccessiva regolamentazione, contro la cosiddetta normalità.

Un fil rouge lega il filosofo marinaio Parmenide, di cui si era impadronito Aristotele travisandolo, al filosofo naturalista Bernardino Telesio, a Giovanbattista della Porta e alla sua associazione dei Secreti, accusata di occultismo, fu chiusa per ordine papale, a Tommaso Campanella, torturato e imprigionato, a Giordano Bruno, bruciato vivo in Campo dei Fiori, agli Investiganti seicenteschi, al principe di Sansevero, mago lo dissero e non  scienziato quale fu, a misconosciuti uomini geniali, come Giacinto De Cristofaro, chiuso in prigione per molti anni, e a tanti altri ancora.

Tra i quali, presumibilmente, quelli di cui è stata completamente cancellata la memoria. Questo fil rouge ci conduce a Gian Battista Vico. Negli scritti di questo grande filosofo napoletano si legge una concezione del tempo e dello spazio che ci riporta al marinaio Parmenide.

Il tempo, per Vico, non è un’entità unidirezionale e la realtà non è statica ma è ritmo che si muove ritornando su se stesso, come il mare. Come la musica napoletana che nutrì il mondo dai tempi di Nerone a quelli di Paisiello. E lo spazio, per Vico, non è quello definito dalla geometria cartesiana ed euclidea. Ma è quello che si apprende “con una mescolanza di corporeità e di pensiero”. 

Certamente anche la gente di mare nella mente non poteva avere lo spazio euclideo ma quell’ampio spazio marino che si conforma alla curva linea dell’orizzonte e alla volta del cielo. È un’immagine espressa anche nell’arte figurativa napoletana.  E che è ben diversa da quella dello spazio-scatola a tre dimensioni che Euclide teorizzò, pubblicandolo nel 300 a. C., e che viene realizzato dal 1400 in poi, per mezzo della classica prospettiva toscana. Che è la prospettiva per antonomasia, l’unica accettata accademicamente e considerata reale, sebbene, precocemente, L. B. Alberti la avesse definita artificialis, cioè meramente astratta. Eppure quella pittura napoletana che non si attiene alle sue regole è stata spesso considerata arretrata o errata. 

Erwin Panofsky, nel suo famoso libro “La prospettiva come forma simbolica”, riferisce della realizzazione dello spazio sulla curva superficie dei vasi magnogreci del IV secolo a C. e di una prospettiva simile a quella canonica (ma erroneamente realizzata) in alcuni affreschi pompeiani. Di errori di prospettiva hanno parlato ancora i dotti riferendosi alle vedute napoletane del Settecento. Non si tratta di errori ma di una prospettiva diversa che nel Settecento ha raggiunto la sua piena espressione, tanto da poter essere oggi tradotta in computer grafica.

È la prospettiva di quello spazio che la gente di mare aveva nel cuore e nella mente:  la prospettiva  napoletana. (cfr. “Lo spazio a 4 dimensioni nell’arte napoletana. La scoperta di una prospettiva spazio-tempo” ed T. Pironti). Uno spazio attualissimo, coerente a quest’epoca di imprese spaziali, mentre la prospettiva toscana del ristretto spazio-scatola è contestata da tempo. Nei dipinti napoletani considerati sbagliati, c’è la visione di uno spazio in movimento, che è visto da più punti di vista e ha quattro dimensioni. Napoli ha intuito da sempre quello che la scienza ha teorizzato soltanto nei primi anni del Novecento, con Albert Einstein, che d’altronde ha scritto: “Le origini del nostro pensiero sono nella Magna Graecia”. La prospettiva non è soltanto un fatto pittorico: essa rispecchia la mentalità, ovvero la struttura del pensiero, del pittore-autore, ma anche del suo ambiente. E la prospettiva napoletana.si basa sui plurali punti di vista di una società coesa, che danno concretezza a uno spazio iperbolico.

La persistenza nell’arte figurativa degli stessi caratteri si apparenta alla persistenza delle stesse famiglie nei quartieri popolari napoletani, come il Fondaco del Cavone. Famiglie che costituiscono una società coesa, con gli stessi modi di pensare, di sentire e di atteggiarsi. Di questa società racconta l’accurata indagine fatta sul posto dall’attento studioso Marcello Anselmo, che ha intervistato persone e ha filmato interviste e luoghi, indagando su importanti fenomeni ma anche su particolari, apparenti minuterie del modo di vivere del popolo povero, e così ricostruendone la vita.

Tutto questo è reso noto ora al pubblico nella vivace relazione dello studioso. Che chiarisce come la densità demografica del Fondaco del Cavone si sia andata via via accentuando. Già era accaduto dopo “lo sventramento” operato dal Risanamento del centro storico della città, un luogo densamente popolato, i cui abitanti, quindi, dovettero trasferirsi altrove. Di questi, mentre i più ricchi occuparono i nuovi appartamenti e quelli di media fascia andarono ad abitare al Vomero, i poveri andarono ad addensarsi nei luoghi già sovraffollati come i fondaci. Le condizioni degli abitanti peggiorarono.

Tuttora la densità demografica tende ad aumentare, perché, a volte, pur potendosi trasferire altrove, i giovani sono rimasti qui, accanto ai genitori, ai nonni, agli zii e agli amici di sempre. E anche coloro che si erano allontanati, andando ad abitare le case nuove della periferia, ritornano qui, nella vecchia Napoli,tra i parenti e gli amici, tra gente conosciuta, in quella società che gli è propria, a quel modo di vivere che è la loro vita. Così gli ambienti abitativi, per dar loro posto, si sono solidarmente divisi. Ma sono tenuti ordinati e lindi, e sono forniti di bagni e di moderne tecnologie casalinghe. I piani del fondaco si sono innalzati e vengono preferiti quelli più alti.

Certo ora, come nei vecchi vicoli napoletani, sta sorgendo, ed è una novità, un senso di insicurezza. Testimoniato anche dalla chiusura delle porte dei “bassi”, le case a pian terreno, con la “finestra zoppa” e, come nota acutamente Anselmo, dalla presenza dei cani – non i randagi a cui si dà il cibo, un calcio e una carezza – ma cani da difesa e robusti cani da guardia. Ora vi sono, anche nel Fondaco del Cavone, molti abitanti che vengono dall’estero, soprattutto africani e cingalesi, gente sconosciuta. Alcuni rimangono più a lungo, altri fanno un turn-over.

Ma sono sempre di più  e l’atteggiamento di accoglienza proprio delle civiltà di mare… da Nausica in poi… si chiude in un atteggiamento di faticosa sopportazione. E ogni tanto si protesta per piccole cose, che fanno emergere in superficie la diversità tra le etnie. Pure lo spazio, qui, al Cavone, scarseggia e rende più aspri gli attriti tra persone che sono profondamente diverse. Mentre l’armonia di una società è fatta dalla omogeneità dei suoi componenti.

Dalla relazione degli studiosi molte cose sono state chiarite. Ma una domanda rimane senza risposta. Se i fondaci sono una sorta di antichi magazzini portuali, di origine medievale, che si trovavano un tempo lungo i moli, a Napoli come a Venezia e a Genova, il fondaco del Cavone, come quello, anch’esso napoletano, di San Gregorio Armeno, che non sono costruiti nel porto, perché si chiamano fondaci?

Adriana Dragoni

fonte http://www.agenziaradicale.com/index.php/rubriche/arte-e-dintorni/5739-abitare-un-fondaco-al-cavone-centro-studi-per-la-storia-dell-arte-e-dell-architettura-delle-citt

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L’Inno borbonico scritto da Giuseppe Verdi

Posted by on Mar 7, 2019

L’Inno borbonico scritto da Giuseppe Verdi

“Padania” e Regno delle Due Sicilie hanno solo una cosa in comune: l’autore dell’inno nazionale.
Certo, è una battuta provocatoria. Ma le cose diventano ancora più paradossali se si pensa che l’autore delle musiche in questione è Giuseppe Verdi, uno dei padri dell’Unità d’Italia.

Chissà cosa direbbero i nostalgici della Lega Lombarda se sapessero che proprio Verdi, nel 1848, scrisse un inno chiamato “La Patria – dedicato a Ferdinando II di Borbone“: avrebbe dovuto sostituire lo storico inno di Giovanni aisiello.

Re Ferdinando è salutato come padre della patria ed il testo finisce con un coro di “Viva il Re!“.

Bisogna contestualizzare la situazione storica: l’inno fu scritto dopo le rivolte del 1848, quando tutta Europa si sollevò contro le monarchie. Anche a Napoli ci furono numerose manifestazioni contro Ferdinando II, tanto da costringerlo ad emanare una costituzione (che poi fu revocata l’anno dopo).

In tempi di rinnovamento, probabilmente, si pensò che anche l’inno storico scritto sotto Ferdinando IV dovesse essere cambiato.
Ed ecco che quindi le musiche dell’Ernani, un’opera composta pochi anni prima da Verdi, furono arricchite con le parole di Michele Cucciniello:

Bella Patria del sangue versato
se fumanti rosseggian le
impronte

non più spine ti strazian la
fronte
il martirio la palma fruttò
Viva il Re!
Viva il Re!
Viva il Re!

L’inno fu però presto dimenticato in quanto, per tradizione, rimase ufficiale la musica di Paisiello. Il lavoro di Verdi fu ritrovato solo nel 1973, più di cento anni dopo dalla caduta del Regno, per mano del maestro Roberto de Simone, che scavò negli immensi archivi del Conservatorio di San Pietro a Majella e studiò le origini di questa storia, che altrimenti avremmo dimenticato.

Verdi era borbonico?

I conti non tornano: Verdi fu uno dei più appassionati sostenitori dell’Unità d’Italia, oggi sono dedicate a lui piazze, strade e monumenti. Com’è possibile che vent’anni prima dell’unità sosteneva la monarchia di Napoli?

Alcuni autorevoli studiosi, fra cui l’istituto di Studi Verdiani, credono che l’inno “La Patria” sia un plagio clandestino di un testo mai autorizzato. È effettivamente strano che Verdi, forte sostenitore di Mazzini, abbia appoggiato la politica borbonica. Oltretutto il compositore si trovava a Parigi nel 1848.

Michele Coccia, invece, affermò di aver trovato anche le carte in cui si poteva leggere chiaramente il consenso del compositore per la diffusione della sua opera, di fatto riconoscendola come originale. E se anche non ci fossero stati riconoscimenti, l’inno di Verdi era sicuramente molto conosciuto a Napoli.
Oltretutto, quando il compositore di Busseto diventò senatore, si batté molto per promuovere leggi sul diritto d’autore e per tutelarsi dai numerosissimi plagi che aveva subito nella sua carriera. Se anche l’inno borbonico fosse stato fra questi, probabilmente, Verdi ne avrebbe in qualche modo parlato.

Ci sono anche quelli che, come lo storico Pasquale Galasso ed il maestro De Simone, vedono in Verdi un “opportunismo”: l’Italia stava per cominciare il suo processo di unificazione e tutti gli intellettuali del paese si sarebbero affidati a qualunque monarca disposto a compiere l’impresa. E Verdi provò ad ingraziarsi anche il re di Napoli.
In effetti, ancor prima che cominciasse il processo unitario, a Ferdinando II fu proposto di unificare l’Italia, ma il monarca non prese mai in considerazione questa ipotesi per evitare conflitti con Roma.

E così, in un duello fra immaginazione e storia, Lega Nord e Regno di Napoli hanno avuto in comune l’autore dei propri inni.
Per l’immaginaria Padania, ovviamente, il discorso è un po’ diverso: l’aria del “Va, pensiero” fu adottata da Bossi quando il buon Giuseppe Verdi era morto da ben ottant’anni.

Federico Quagliuolo

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REGINA MARIA SOFIA DI BORBONE UNA EROINA DIMENTICATA

Posted by on Gen 13, 2019

REGINA MARIA SOFIA DI BORBONE UNA EROINA DIMENTICATA

“Femme hèroique qui, reine soldat, avait fait elle meme son coup de feu sur les remparts de Gaete”.

Così Marcel Proust ne “La prisonnière”, canta della regina soldato, la diciannovenne Maria Sofia di Borbone, che sugli spalti di Gaeta non esitò a sostituire un artigliere ferito a morte, continuando il fuoco contro gli assedianti piemontesi.

Il mito dell’eroina di Gaeta non è stato mai offuscato dal passare del tempo, anche se i testi di storia hanno ignorato o addirittura vituperato la figura, la personalità e il comportamento eroico dell’ultima regina delle Due Sicilie. Gabriele D’Annunzio definì Maria Sofia “l’aquiletta bavara che rampogna”, intendendo con queste parole disprezzare la regina che si oppose con tutto il suo coraggio all’usurpazione sabauda del Regno delle Due Sicilie.

Maria Sofia, infatti, tentò di riconquistare sino all’ultimo della sua vita quella patria meridionale che lei, tedesca di nascita, aveva fatto sua e profondamente amata.

Maria Sofia era figlia di Massimiliano e Ludovica di Wittelsbach; Massimiliano duca in Baviera, mentre Ludovica, sua moglie, era una delle nove figlie del re.

“….Quando giunse anche per Maria Sofia il tempo del matrimonio, la ragazza aveva diciassette anni; la duchessa Ludovica, forte del buon esito del matrimonio dell’altra figlia, si adoperò per trovare anche per Maria Sofia una testa coronata. In Germania i partiti disponibili erano scarsi e poco ragguardevoli; per un momento la duchessa madre pensò al principe ereditario di Baviera, il futuro Ludwig II, omosessuale e pazzo, che per le sue stravaganti follie avrebbe portato in seguito il Regno al collasso politico ed economico.

Per fortuna di Maria Sofia l’evento non si concretizzò mai, per cui Ludovica, con l’aiuto della Corte di Monaco, iniziò a scandagliare, con opportune iniziative diplomatiche, i migliori partiti delle case regnanti d’Europa. La risposta non tardò a venire: le comunicarono che il giovane principe ereditario delle Due Sicilie, un regno immerso nel sole del bacino del Mediterraneo, era pronto a convolare a nozze.

Maria Sofia, pur non conoscendo il futuro sposo, fu infantilmente entusiasta della prospettiva di poggiare sul suo capo una corona di regina, e immaginò il suo futuro sposo bello e aitante come il marito della amata sorella.

La giovane Wittelsbach sognò quindi di vivere la stessa favola di Elisabetta e del suo principe azzurro.

Il duca Max, che trascorreva le sue vacanze, come al solito, all’estero, le inviò un telegramma con cui sconsigliava questa unione: evidentemente dal suo frequente vagabondare in Europa non aveva tratto buone informazioni sul principe ereditario delle Due Sicilie.

Le trattative matrimoniali furono condotte dal conte Carlo Ludolf, ambasciatore di re Ferdinando II, e dallo stesso zio di Maria Sofia, il re di Baviera. Re Massimiliano aveva già preso tutte le informazioni possibili sulla vita, le abitudini, il comportamento del giovane Francesco, duca di Calabria.

D’altra parte si sapeva in tutta Europa che l’erede al trono di Napoli aveva ricevuto un’educazione confessionale, che preferiva gli studi di teologia piuttosto che le iniziative politiche, che non amava le donne, la caccia, le feste e gli altri svaghi di corte; preferiva la preghiera, la meditazione, tutto l’opposto del suo sanguigno genitore.

Francesco nutriva una particolare devozione per la madre, Maria Cristina di Savoia, detta “la Santa” dai Napoletani per la sua vita ascetica e di preghiera, ben lontana dalle attività della rumorosa e festaiola Corte Borbonica.

La regina era morta a ventiquattro anni subito dopo il parto, lasciando il figlio privo per sempre dell’amore di madre. Questo avvenimento aveva fortemente inciso sul carattere chiuso, mite e remissivo di Francesco, e lo aveva spinto più ad una vita di meditazione e di pensiero che ad un’attività politica consapevole degna di un principe ereditario.

Anche il padre Ferdinando II, conoscendo il debole carattere dell’erede al trono, non si era occupato della sua educazione come del resto aveva fatto nei confronti degli altri figli avuti dal secondo matrimonio con l’arciduchessa Maria Teresa d’Asburgo.
Ferdinando amava moltissimo i suoi figli, ma alla stregua di un buon padre di famiglia borghese e non con la responsabilità di un sovrano di una delle più antiche dinastie d’Europa.

Di conseguenza Francesco, pur essendo l’erede al trono, era rimasto lontano dalla politica: il padre gli aveva inculcato l’idea che il Regno era sicuro e tranquillo, in quanto i suoi confini stavano fra l’“acqua santa” (lo Stato Pontificio) a nord e l’“acqua salata” a sud (le coste e la Sicilia).

I rapporti fra le Due Sicilie ed il papato erano ottimi. Pio IX aveva una particolare predilezione per il re di Napoli, memore della generosa ospitalità del sovrano negli anni del suo esilio da Roma.
Le nozze tra Francesco di Borbone e Maria Sofia furono celebrate per procura, a Monaco, l’8 gennaio 1859; la sposa giunse a Bari a bordo della fregata borbonica Fulminante la mattina del 3 febbraio. Quando la fregata entrò nel porto, tutte le navi alla fonda la salutarono con salve di cannone, mentre sulle banchine una folla impressionante salutava e batteva le mani.

Le strade di Bari erano coperte da bandiere e le campane di tutte le chiese suonarono a stormo. Sulla banchina principale del porto dieci carrozze ospitavano tutta la famiglia reale venuta a rendere omaggio alla futura regina di Napoli.

Maria Sofia, dall’alto del ponte, osservava con trepidazione la città festante cercando di scorgere, fra quella marea di gente, il suo giovane marito. Francesco era già salito a bordo della lancia reale, con la regina madre e tutto il seguito. Mancava solo re Ferdinando, che era rimasto in carrozza perché già colpito dal male che di lì a poco lo avrebbe condotto alla tomba. Francesco indossava l’uniforme di colonnello degli ussari, mentre Maria Sofia sfoggiava uno splendido abito di velluto cremisi appena coperto dalla pelliccia di zibellino.

La fanciulla apparve a Francesco in tutto lo splendore della sua bellezza: occhi turchini, brillanti, i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle, il portamento fiero ed elegante. L’avvenenza della sposa fece aumentare la timidezza congenita del giovane principe, che si limitò ad un «Bonjour, Marie» e ad un compassato baciamano.

Nel tardo pomeriggio avvenne la cerimonia religiosa nel palazzo reale della città. Maria Sofia si adornò con i gioielli più fastosi della Corona di Napoli, portati appositamente dalla capitale per ordine di Ferdinando II. La benedizione nuziale fu impartita dall’arcivescovo di Bari, che lesse anche la speciale benedizione di Pio IX. Le navi nel porto spararono a salve e le bande suonarono l’inno di Paisiello.

Il 7 marzo la famiglia reale fece ritorno a Napoli a bordo della fregata Fulminante e raggiunse in carrozza la splendida reggia di Caserta. Frattanto, nel Regno di Piemonte e Sardegna, Cavour, forte dell’alleanza con Napoleone III, si preparava ad una nuova guerra con l’Austria; il 29 aprile 1859 le truppe franco-piemontesi penetravano nel Lombardo-Veneto.

Aveva inizio la seconda guerra dei Savoia contro l’impero asburgico (definita dagli storici “Seconda Guerra d’Indipendenza”), guerra di espansione militare e territoriale nella vasta pianura padana, indispensabile per l’economia e lo sviluppo del piccolo Piemonte chiuso nella morsa fra le Alpi e il mare.

Ferdinando II, malgrado la malattia che si era fortemente aggravata, seguì con apprensione le fasi della guerra, dimostrando un’aperta ostilità verso i parenti piemontesi e raccomandando al figlio di tenersi cara l’alleanza con lo Stato Pontificio e di non fidarsi mai dei cugini Savoia, che egli definiva «Piemontesi falsi e cortesi».

Mai raccomandazione fu più profetica! Il re morì il 22 maggio 1859 a quarantanove anni.

Un anno prima dello sbarco di Garibaldi, Francesco II salì sul trono di Napoli a ventitré anni e Maria Sofia si ritrovò regina a diciotto anni.

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