Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Pellagra, il mal della miseria

Posted by on Dic 29, 2019

Pellagra, il mal della miseria

Il termine “Pellagra” compare per la prima volta nell’ articolo scientifico scritto da Francesco Frapolli  “Animadversiones in morbum, vulgo pelagram. Mediolanum 1771” nel quale descriveva una malattia fino ad allora sconosciuta e caratterizzata da alterazioni cutanee, disturbi addominali e sintomi di natura psichiatrica. Il termine  deriva con molta probabilità dal dialetto lombardo col significato di “pelle ruvida” caratteristica peculiare di questa malattia.

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La strage Guerriglia e repressione

Posted by on Nov 19, 2019

La strage Guerriglia e repressione

Si manifestò con: lo stato d’assedio, le fucilazioni in piazza, i processi addomesticati e truccati quando occorreva, le migliaia di deportati nei campi di concentramento al confino.

La legge Pica aboliva qualsiasi garanzia costituzionale (La Marmora ordinò ai procuratori di “non porre in libertà nessuno dei detenuti senza l’assenso dell’esercito”).

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“La barbarie mascherata da legalità”

Posted by on Nov 17, 2019

“La barbarie mascherata da legalità”

Vi proponiamo una recensione di Edoardo Vitale a questo libro, edito da Controcorrente Edizioni e scritto da Gaetano Marabello, al fine di una reale riflessione di quanto accaduto in quell’infausto decennio all’indomani della cosiddetta “unità”. Buona lettura.

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IL MITO DI GARIBALDI E IL RISORGIMENTO CHE NON ABBIAMO STUDIATO

Posted by on Set 3, 2019

IL MITO DI GARIBALDI E IL RISORGIMENTO CHE NON ABBIAMO STUDIATO

Il genocidio italiano cancellato dai libri di Storia e dalla coscienza collettiva

Con lo sbarco dei Mille e le imprese eroiche di Giuseppe Garibaldi, patriota carismatico e di indubbio valore militare, amato dal popolo e relegato per sempre nell’Olimpo mitologico, è nata l’Italia, la nostra Patria.

Nessuno metterebbe in discussione un dogma nazionale tanto radicato nella nostra Cultura se non ci fossero prove, ormai evidenti, di un altro Risorgimento occultato, fatto di dolore, di crudeltà, di ferocia, ma soprattutto di fango. L’altra faccia di un’epopea i cui protagonisti principali furono partigiani ante litteram, briganti e banditi, milioni di innocenti a cui furono strappate, nel giro di pochi mesi, identità e dignità.  Una storia rimossa dai libri, cancellata dalle coscienze, epurata dei ricordi per non scalfire l’immagine di chi credette, forse in buona fede, chissà, di combattere per unire un popolo, e che invece si ritrovò a salvaguardare gli interessi di una ristretta élite, causando un grave mutamento economico-culturale attraverso cui  furono gettate le basi per il totalitarismo che devastò l’Italia e l’Europa nel XX secolo.

Il Sud prima dell’Unità d’Italia

Era la primavera del 1860. Erano passati più di settecento anni dalla notte di Natale del 1130, da quando il normanno Ruggero II di Altavilla, dopo aver sconfitto gli arabi e con l’appoggio di papa Anacleto II, divenne re di Sicilia, Puglia e Calabria dando vita al terzo stato più grande d’Europa, unificato, nel 1815, da Ferdinando II di Borbone. Seicento Natali e più erano invece trascorsi dalla salita al trono di Federico II di Svevia.

Il paese di Federico II era avanzato sotto ogni punto di vista intellettuale, artistico e politico. Era il centro del mondo, il catalizzatore di culture diverse tra loro, con una popolazione che parlava tre lingue, il latino, il greco e l’arabo e seguiva in pace fedi religiose differenti tra loro.

Con l’Università di Napoli era stato fondato il più importante polo culturale d’Europa e del Medioevo, un punto d’incontro  tra le tradizioni greca, araba ed ebraica. Fu proprio a Napoli, infatti, che nacque la Scuola poetica Siciliana, una corrente filosofica-letteraria che dette vita alla lingua romanza,  mezzo secolo prima della Scuola Toscana. Il fior fiore della Cultura e dell’Arte, si è detto, con la più alta percentuale di medici per abitanti e la più bassa percentuale di mortalità infantile d’Italia.

Dopo Federico II, il Mezzogiorno visse un periodo di prosperità con i Borbone, famiglia al quale appartennero sovrani quali Enrico IV, detto anche Enrico il Grande, e Luigi XIV, Le Roi Soleil, grandi protagonisti della Storia d’Europa.

Nel 1737 era stato creato il Teatro di San Carlo, il primo teatro lirico sul globo terrestre, e negli stessi anni istituita la prima cattedra di Economia al mondo. Furono costruiti castelli, fortezze, rocche, palazzi, luoghi di culto, ed emanate le prime leggi alla cui redazione lavorò Pier delle Vigne, il più grande maestro dell’Ars Dictandi. Venne realizzata la Napoli-Portici, il primo tratto di Ferrovia nel nostro Paese, aperto il primo istituto per sordomuti, creata la prima compagnia di navigazione a vapore di tutto il Mediterraneo e persino la prima fabbrica italiana per operai.

L’età dell’oro, venne chiamata quell’epoca.

La Storia ci racconta che, nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, Garibaldi partì da Quarto alla volta del Regno Duosiciliano a capo di un esercito di mille volontari, che poi mille non erano. Con l’occupazione di Palermo, il generale si ritrovò circa ventimila uomini al suo seguito, per lo più stranieri e malavitosi, ben foraggiati di armi e denaro, con i quali si mosse verso Napoli distruggendo tutto nel suo avanzare trionfante:  Calatafimi, Milazzo,  Palermo, Messina, Siracusa, Reggio, Cosenza, Salerno, Napoli.  Obiettivo: scacciare i Borbone ed unificare l’Italia.

Questo è ciò che ci è stato insegnato. Ed in effetti… tutto fu distrutto. Quello che non ci è stato detto, invece, è che il Regno delle Due Sicilie fu conquistato e a caro prezzo.

La spedizione dei Mille

Giuseppe Garibaldi nasce a Nizza da genitori liguri. A quattordici anni decide di arruolarsi come mozzo, deludendo le aspettative del padre che lo voleva dedito alla carriera di medico o avvocato. Dopo qualche decennio di esperienza sui mercantili, approda in sud America partecipando in prima persona alle guerre di indipendenza. Imprese che faranno la sua formazione e gli regaleranno l’appellativo di eroe dei due mondi. Tornato in Italia, Garibaldi si avvicina ai movimenti patriottici europei ed italiani ed entra in contatto con Giuseppe Mazzini.

Fu per scongiurare una reazione delle forze cattoliche davanti ad una possibile invasione degli Stati ancora appartenenti alla Chiesa, reazione che avrebbe distrutto la politica di Cavour – all’epoca presidente del Consiglio dei ministri – che il condottiero fu distratto dai suoi obiettivi internazionalisti e coinvolto in quella che avrebbe dovuto essere inizialmente l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte e alla Lombardia. I suoi ideali di libertà ed indipendenza,ma non solo quelli, lo spinsero a condurre la spedizione dei Mille in direzione Marsala, e ad assumere, in quel di Salemi, la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II, (Fonte Enciclopedia Treccani)il quale desiderava, più che l’unificazione nazionale, pagare i debiti contratti dal Piemonte.

O la guerra o la bancarotta” scrisse Pier Carlo Boggio, deputato alla Camera del Regno di Sardegna e braccio destro del Conte di Cavour

Vani furono gli sforzi di Re Francesco II per contrastare l’avanzata che, come si evince dall’immagine in basso, coinvolgerà buona parte degli Stati della penisola. L’ultimo baluardo borbonico a cadere, dopo Messina e Gaeta, fu la fortezza di Civitella del Tronto. Venne espugnata il 20 marzo 1861, tre giorni dopo l’incoronazione di Vittorio Emanuele II, a Re d’Italia.

Otto anni dopo la sua epica impresa, Garibaldi scriverà “gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio“.

Quel 1860 arrivò pertanto come una maledizione.  Furono cancellate dal Regno le istituzioni politiche e sociali, sventrato completamente il tessuto industriale e mercantile per favorire la crescita di un nord in miseria ed affamato, e senza alcuna attività economica avanzata. Depredato l’oro e l’argento del Banco di Napoli e del Banco di Stato di Sicilia – le casse contenevano circa 400 milioni di lire, una cifra impressionante per quell’epoca – smontati i macchinari di officine e industrie manifatturiere, meccaniche, cantieristiche, minerarie, siderurgiche, militari e ferroviarie e trasportati nei territori di Terni, La Spezia, Genova, Torino, Milano, Brescia e Bergamo. Tutto razziato per pagare i debiti del Piemonte e per finanziare patrimoni privati.  Sparirono in un colpo ministeri, ambasciate, la Zecca; 30mila posti di lavoro cancellati da un giorno all’altro. Furono annullati tutti gli accordi di scambio tra il regno borbonico e l’estero, costretto il sud ad importare dal nord, ma non viceversa, tanto che la lana abruzzese fu rimpiazzata con quella neozelandese. Fu introdotta la tassa sul macinato e persino per mangiare un agnello del proprio allevamento bisognava pagare un dazio. 22 nuove tasse introdotte contro le precedenti 5 imposte dai Borbone. Dulcis in fundo, il meridione, ormai in ginocchio, dovette accollarsi anche le spese di guerra.

Una conquista del Nord sulla pelle delle genti del Sud”, dichiarò Antonio Gramsci. Nel 1920, su Ordine Nuovo, scrisse: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”.

I desaparecidos italiani

5.212 condanne a morte, 500.000 persone arrestate, 62 paesi rasi al suolo, fucilazioni di massa, contadini morti di fame perché veniva impedito loro di recarsi nei campi a procurarsi del cibo, violenze disumane e stupri efferati dei quali vi risparmio i crudeli ed orripilanti dettagli. 

O si moriva di stenti o si finiva ammazzati, e spesso la seconda scelta appariva quella meno dolorosa. Un’alternativa era quella di darsi al brigantaggio. 

40mila deportati, delinquenti insieme ad innocenti, uomini di chiesa, contadini, intellettuali, ex soldati dell’esercito borbonico, civili accusati di brigantaggio, prigionieri politici, ex garibaldini disertori, lasciati morire deliberatamente di fame, sevizie, maltrattamenti inenarrabili,  segregati in campi di concentramento ante litteram dove la temperatura era quasi sempre sotto lo zero. A Fenestrelle, 1.350.000 mq di struttura a 2000 metri di altezza sulle Alpi cozie,  vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con il freddo polare  i prigionieri.

L’Armonia, un giornale piemontese dell’epoca, definiva così i prigionieri di Fenestrelle: “La maggior parte dei poveri reclusi sono ignudi, cenciosi, pieni di pidocchi e senza pagliericci. Quel poco di pane nerissimo che si dà per cibo, per una piccola scusa si leva e, se qualcuno parla, è legato per mani e per piedi per più giorni. Vari infelici sono stati attaccati dai piedi e sospesi in aria col capo sotto ed uno si fece morire in questa barbara maniera soffocato dal sangue e molti altri non si trovano più né vivi, né morti. E’ una barbarie signori”.

Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce”, recitava la scritta all’ingresso della struttura, 80 anni prima di Auschwitz.       

Vi entrarono in migliaia. E in migliaia scomparvero nel nulla, forse disciolti nella calce viva per cancellarne il ricordo e la memoria. Di tale obbrobrio non vi sono prove ufficiali, e gli autori revisionisti che hanno definito Fenestrelle un campo di concentramento hanno incontrato un fervido quanto improbabile debunking a smentire ogni tesi, ma presso lo Stato Maggiore dell’Esercito si conservano 150.000 pagine che contengono la verità, ancora e stranamente protetta dalla censura di guerra. Dopo oltre 150 anni.

Sul muro della struttura intanto campeggia in bella vista una targa abusiva e mai rimossa che commemora le vittime. E “I pochi che sanno s’inchinano”.

Tacciati di inciviltà e bollati come selvaggi, gli abitanti del Sud, definiti una razza inferiore, dovevano essere annientati. Il folle disegno era appoggiato dalla ‘alta scuola’ del criminologo Cesare Lombroso, medico, antropologo, sociologo, filosofo e giurista – un genio insomma – sostenitore accanito delle follie teoriche della Frenologia che, visitando la Calabria per poche settimane, si convinse di conoscere tutto sui meridionali. Grazie inoltre ad una legge promossa dall’aquilano Giuseppe Pica (da cui il nome), che il 15 agosto 1863 introdusse il reato di brigantaggio, fu resa legale ogni forma di violenza e permesso che un tribunale militare giudicasse, senza cognizione di causa,  chiunque e senza un regolare processo. Chi si ribellava veniva seviziato e alla fine sepolto  vivo e senza alcuna lapide affinché non vi fosse traccia dei crimini compiuti.

Il caso più eclatante accadde a Bronte, nel catanese. Sperando nelle terre promesse da Garibaldi e nell’aiuto dei Mille, in paese scoppiò una sommossa di contadini. Garibaldi inviò Bixio a reprimerla – lo stesso che aveva rubato le navi per la spedizione – con un processo sommario durato poche ore, che si risolse con l’esecuzione di 150 cittadini tra cui il sindaco del paese, completamente innocente, e persino un giovane demente.

A Gaeta, negli anni ’60, durante gli scavi per la costruzione di una scuola media, furono rivenuti 2000 cadaveri di soldati borbonici e gente comune. E chiuso ancora una volta il sipario.

Mezzo milione di persone sparite, volatilizzate, e paesi interi come Contessa Entellina, Ustica, Cefalù, Corleone, Palazzo Adriano, Trabia, Gibellina, Vallelunga, Alia, Sambuca, Gibellina, Caccamo, Bisacquino, svuotati dei loro abitanti.  (Fonte: Storia vera e terribile tra Sicilia e America di Enrico Deaglio)

O briganti o emigranti!

Dal 1870 al 1913, furono imbarcati sui velieri diretti al ‘nuovo mondo’, chi con la forza e chi con l’inganno, milioni di italiani per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero e nei campi di cotone al fine di rimpiazzare i neri finalmente liberati. Una delle più grandi truffe perpetrate ai danni di una popolazione intera dai governi moderni. Lì, ad accoglierli, miseria, soprusi, fatica e linciaggi a morte.

O briganti o emigranti era il motto. In effetti, di armate brigantesche post-unitarie ne nacquero a centinaia, appoggiate incondizionatamente dalle popolazioni civili, e alla cui ferocia l’esercito sabaudo rispose con brutali rappresaglie che colpivano familiari fino al terzo grado di parentela.  Solo in Abruzzo, terra che non fu risparmiata dall’eccidio, se ne contavano 39 di bande.

Quando il governo sabaudo cominciò ad avere difficoltà a placare le sommosse che scoppiavano continuamente nelle prigioni, sorvegliate ormai dalle poche truppe restanti al nord, poiché la maggior parte era concentrata a reprimere il brigantaggio nel meridione, fu decisa una sorta di “soluzione finale”: la deportazione dei prigionieri in un’isola portoghese in mezzo all’Oceano Atlantico. Al rifiuto del Portogallo, i sabaudi tentarono di trovare accordi con altri governi, in particolare con l’Argentina per la concessione della Patagonia, un territorio desertico e totalmente inospitale che avrebbe dovuto ‘accogliere’ i prigionieri, ma fortunatamente il piano non poté essere attuato.

Sette secoli di splendore andati perduti

Il piemontese Alessandro Bianco di Saint Jorioz, capitano nel Corpo di Stato Maggiore Generale che prese parte alla distruzione del Regno delle Due Sicilie scrisse:  “Ero convinto di combattere la povertà dei coloni agricoli, la rapacità e la protervia dei nobili, l’ignoranza turpe, la superstizione, il fanatismo, l’idolatria, la sregolatezza dei costumi, l’immoralità, le corruttele di  impiegati, magistrati e pubblici funzionati, la rapina, il malversare. Insomma: il male. Questo, mi avevano raccontato, era il Sud. Quel popolo invece era, nel 1859, vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comprava e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto».

Un divario fra Nord e Sud tutt’ora non sanato ed iniziato proprio con l’Unità d’Italia. Un declino inarrestabile che inizialmente sembrò trovare sollievo grazie all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, definitivamente chiusa nei primi anni ’90, ma che finì di incrementare la criminalità organizzata. O forse servì proprio a creare una sorta di alleanza tra questa e Stato.

Questa è l’altra faccia del Risorgimento, quella che si deve tacere per evitare di essere politicamente scorretti. Un genocidio cancellato non soltanto dai libri di Storia ma anche dalla coscienza collettiva; un’onta talmente infamante che il figlio stesso di Garibaldi, Ricciotti, venuto a conoscenza dei fatti, si schierò dalla parte dei briganti. La pronipote Anita, durante la trasmissione Porta a Porta condotta da Bruno Vespa, conferma il fatto: ”Mio nonno si indignò talmente tanto dello sfruttamento del Meridione da parte della nuova Italia, che andò a combattere con i briganti”.

Italiani contro italiani, fratelli contro fratelli

Non c’è in questo scritto alcuna intenzione di generare imbarazzo tra popoli con la stessa bandiera e la stessa lingua, né quella di attentare alla vita del giovane ed ignaro Savoia trasferito da poco in Italia, giammai. Tanto meno intendo svilire ciò che è stato il mito di Garibaldi per la mia generazione. Vorrei piuttosto contribuire, con quelle che sono le mie conoscenze, ricavate da letture e da lunghe ricerche personali e approfittando dei nuovi mezzi di comunicazione, a ridisegnare i contorni di un genocidio che meriterebbe almeno un giorno di commemorazione.

Accendere i riflettori su una verità storica insabbiata è un atto di democrazia o, se mi è consentito, di onestà intellettuale. Gli eroi a cui intitolare piazze, ponti e strade sono certamente altri.

di Alina Di Mattia

Bibliografia:

  • I Viceré”, Federico De Roberto
  • “II brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863”, Alessandro Bianco di Saint Jorioz  
  •  “Terroni”, Pino Aprile
  • “I Savoia e il massacro del Sud”,  Antonio Ciano
  • “L’identità ferita”, Massimo Viglione
  • “Risorgimento da riscrivere”, Angela Pellicciari
  • “Tra Sicilia e America”, Enrico Deaglio
  • Desir d’Italie”, Jean Noel Schifano

fonte https://ilfaro24.it/il-mito-di-garibaldi-e-il-risorgimento-che-non-abbiamo-mai-studiato/?fbclid=IwAR16b7Sxc69IeiudfIG2f-qzouLVGxIFJzgd1GiXfaVCFl7Sj3x2C1lx8CE

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IL RAZZISMO ANTIMERIDIONALE ALLE RADICI DELL’UNITÀ D’ITALIA

Posted by on Ago 6, 2019

IL RAZZISMO ANTIMERIDIONALE ALLE RADICI DELL’UNITÀ D’ITALIA

La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia e che, significativamente ed opportunamente, avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: ma così purtroppo non è stato. Hanno vinto ancora una volta l’ipocrisia e le verità nascoste di un risorgimento edulcorato da bugie e falsità che si continuano a propinare, senza soluzione di continuità, dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua ad ignorare che alla base di una mala unità d’Italia vi fu, come del resto continua ad esserci retaggio di quel passato, una ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a “liberare e civilizzare “ il Sud e la Sicilia. Infatti che non grande considerazione dei meridionali avevano, all’alba dell’Unità d’Italia, alcuni politici e militari del Nord che tale Unità con arroganza rivendicavano di avere contribuito a compiere, ne esistono incontrovertibili testimonianze. In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo D’Azeglio che fu presidente del consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva: ” In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura e come mettersi a letto con un vaioloso”. Più o meno quello che esattamente 150 dopo canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato e capogruppo al comune di Milano Matteo Salvini: “Senti che puzza scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati” . Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. D’allora niente è cambiato se non in peggio. Nino Bixio il paranoico massacratore di Bronte in una lettera inviata alla moglie tra l’altro così scriveva: “ Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili”. Ma, ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il “brigantaggio”, a proposito dei territori in cui si trovò a operare, in una lettera inviata a Cavour, così si esprimeva: “Questa è Africa ! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele”. Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861 durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene: “ Le palle dei miei cannoni non hanno occhi”. Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo e con minor numero di vittime a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, era solito raccomandare di “ non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”. E dire che del nome di questo criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. E che dire, poi, del generale Giuseppe Covone, anche lui mandato a reprimere il brigantaggio in Sicilia che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo, avendone piena facoltà che gli derivava dalle leggi speciali, di porre in stato d’assedio intere città, di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani, anch’egli, non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in pieno parlamento che: ” Nessun metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”. Ed infine per completare questo “bestiario” di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali, val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli: “ La popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa”. E poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania, al più celebre fratello Ippolito, ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia: ” Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome poiché sinora nel napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro”. Questi i documentati pregiudizi razziali di quei “liberatori” che fecero a spese del sud, depredandolo, saccheggiandolo, uccidendo e massacrando i suoi abitanti, l’Unità d’Italia. Su questi pregiudizi, nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese, che poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giusepe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo che si affrettarono a dare una impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del meridione. Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra nord e sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei quaderni quando sostiene che: ” La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del nord. Queste non capivano – afferma Gramsci- che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale”. L’impoverimento del meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che conquistando e colonizzando il sud ostacolandone in ogni modo la crescita prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale. Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dell’Unità d’Italia, già direttore della Banca Nazionale degli Stati Sardi e amico personale di Cavour e, successivamente, governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882: ” Il mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre”. E negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale, tenendo fede a questo sua spiccata vocazione antimeridionalista, fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del nord soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali. Ma, riprendendo l’analisi di Gramsci, si può in buona sostanza affermare che l’origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto nord-sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente. Scriveva il filosofo ceco Milan Kundera, protagonista della primavera di Praga, nel suo ” Il libro del riso e dell’oblio”, un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia: “ Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia. e qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un’altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato.” Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del mezzogiorno d’Italia nel corso di 150 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini, come abbiamo visto, aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del mezzogiorno che, al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di “liberatori” quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare la inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare, ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista del socialista Cesare Lombroso che assieme ad altri antropologi e criminologi come Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo, propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica, misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali, teorizzando l’inferiorità della razza meridionale. Cesare Lombroso, antropologo e criminologo, fu nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia che elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei meridionali, effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani. I settentrionali, come razza superiore, e i meridionali di stirpe negroide africana, razza inferiore. Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana, Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze. Quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella euroafricana (negroide) al sud e, di conseguenza, la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato, nel gennaio del 1876, a Castiglione di Sicilia e, quindi, di appartenere ad una razza inferiore! Niceforo, in un suo libro del 1898, “ L’Italia barbara contemporanea”, descriveva il Sud come una grande colonia che, una volta conquistata e sottomessa, era da “civilizzare”. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa- sostiene ancora Gramsci- in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione. Il mezzogiorno è la palla al piede – si disse allora come si ripete pedissequamente oggi – che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono – secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci – biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica, ma del fatto che i meridionali sono di per se incapaci, poltroni, criminali e barbari. Queste teorie portarono poi, nel corso degli anni, alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali come quando nelle città del nord si era soliti leggere cartelli tipo: ” vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali”. E ancora: “ non si affittano case ai meridionali”. Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura ancora ai nostri giorni. Come si può, alla luce di tutto questo, parlare a tutt’oggi di Unità d’Italia o di memoria condivisa tra Nord e Sud quando dalla storiografia ufficiale ai meridionali è stata sempre negata una verità storica che li relega nel ghetto dell’essere cittadini residuali di questo paese? E certamente ancor più non ci si può indignare, da parte di insigni rappresentanti delle istituzioni, se oggi i meridionali, in occasioni di recenti manifestazioni sportive, si ritrovano a fischiare l’inno di Mameli. Questi insigni rappresentanti delle istituzioni, farebbero bene ad indignarsi per il fatto che a Torino, il 26 novembre 2009, è stato inaugurato e riaperto al pubblico il nuovo museo Lombroso ricco di reperti, di fotografie di pezzi anatomici, di crani, di teste mozzate, di documenti e di reperti utilizzati dal criminologo ed antropologo veronese e dai suoi seguaci tendenti a teorizzare la inferiorità della razza meridionale ed a sancire che ancora ai nostri giorni esistono due Italie: quella del Nord, civile e progredita; quella del Sud barbara e arretrata. Questo in un paese civile sarebbe il minimo per indignarsi e tramutare questo deprecabile museo degli orrori e delle menzogne in un luogo di rispetto e raccoglimento, insomma in un sacrario. In Italia, purtroppo, basta perdere quattro a zero con la Spagna per essere, come sostengono Napoletano e Monti, orgogliosi di una nazionale che unisce gli italiani. Contenti loro.

fonte http://pocobello.blogspot.com/2012/07/il-razzismo-antimeridionale-alle-radici_07.html

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