Sabato
29 giugno 2019 alle ore 20.30 terzo appuntamento della Stagione di Concerti
dell’Associazione Domenico Scarlatti presso il Centro di Cultura Domus Ars sito
in via Santa Chiara 10c Napoli.
L’Associazione
Domenico Scarlatti che quest’anno compie trentacinque anni di attività
ininterrotta, ha scelto come luogo deputato allo svolgimento dei concerti il
Centro di Cultura Domus Ars nel cuore del Centro Storico cittadino che si sta
imponendo come una delle Sale più belle e funzionali per programmare musica
Classica, Popolare e Jazz. Oltre agli spettacoli programmati da Carlo Faiello
direttore artistico del Centro, grazie
all’instancabile lavoro di Rachele Cimmino, Domus Ars è stata scelta da Antonio
Florio per la bellissima Rassegna di Musica Barocca Sicut Sagittae, dal direttore
artistico dell’Associazione Alessandro Scarlatti Tommaso Rossi per programmare
bellissime attività con la prestigiosa Associazione napoletana, dalla nostra
Associazione con il Festival internazionale del ‘700 Musicale Napoletano e da
altre realtà musicali presenti in Città. Saranno protagonisti del Concerto di
Sabato, Gabriella Colecchia – una delle più interessanti voci italiane,
vincitrice del prestigioso Luciano Pavarotti International Voice Competition di
Philadelphia ed interprete di grandi opere in tutto il mondo esibendosi in
prestigiosi teatri tra cui il Teatro Real di Madrid, il Teatro Coliseo di
Buenos Aires e il Teatro San Carlo di Napoli – Il chitarrista Francesco Scelzo –
che si sta imponendo con il suo ultimo lavoro discografico presentato il 7
giugno in questa Stagione Concertistica in
maniera eccelsa mostrano grande musicalità
e un virtuosismo fuori dal comune, interpretando brani in chiave Jazzistica del
chitarrista Roland Dyens con una tale perfezione come se il compositore
francese li avesse scritti appositamente per lui ed Enzo Amato chitarrista – compositore
e direttore d’orchestra conosciuto per la sua immensa passione per il
Settecento Musicale Napoletano. Il Concerto ha come titolo Neapolitanata: Arie
fuori e dentro al Palazzo” e presenterà brani colti e popolari di Giovanni
Paisiello, Niccolò Piccinni, Saverio Mercadante, Gaetano Donizetti, Gioacchino
Rossini e Anonimi in voga nel Settecento al tempo dei Borbone.
Sylvain
Bellenger, direttore della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte,
ha organizzato, con la collaborazione del texano The Edith ‘O Donnell Institute
of Art History, il “Centro
Studi per la Storia dell’Arte e dell’Architettura delle città portuali”.
Un centro internazionale che, nato nel settembre scorso, in un edificio
borbonico nel Real Bosco, chiamato la Capraia, lunedì ha
fatto la sua prima relazione pubblica. L’argomento: “Abitare un fondaco al Cavone.
Dall’archivio alle fonti orali, tracce e memorie della cultura popolare”.
Due i relatori: la
professoressa Brigitte
Marin, che, docente di Storia Moderna all’ Aix-Marseille
Université, è onusta di altri prestigiosi incarichi, e Marcello Anselmo,
storico contemporaneista, ricercatore nella stessa università marsigliese e
autore di réportages e
di studi sociali sulle città dell’Europa Meridionale.
La
professoressa Marin ha iniziato parlando del suo condiviso metodo di
studio: definire un fenomeno urbano risalendo alle sue origini
storiche, attraverso la ricerca e l’attenta lettura di documenti di archivio.
In più, la professoressa dimostra di tener conto anche degli scritti di altri
studiosi sull’argomento, rifacendosi al compianto Giuseppe Galasso (1929/
2018), storico accademico e importante politico che, come tale, aveva dovuto
attenersi a una considerazione del passato napoletano soprattutto quale causa
dei mali presenti, secondo la prassi solita di ogni governo.
La
Marin, quindi, riferisce di Galasso l’affermazione che i problemi della città
vengono dal passato e che la difficile situazione abitativa in cui versa il popolo
è “la continuità di un
problema irrisolto”. In realtà, durante il governo spagnolo,
quando Napoli era capitale di una delle Spagne, qui ci fu uno straordinario
aumento del numero degli abitanti che, dai 40.000 esistenti durante il
precedente governo aragonese, passarono a centinaia di migliaia.
Nel frattempo, furono costruite nuove mura, mentre veniva
emanato il divieto di costruire fuori dalla loro cinta. Di conseguenza, i
palazzi si innalzarono tanto che ai visitatori dell’epoca Napoli apparve come una
città di grattacieli. E piacque. Ma esistevano ancora, al suo interno, i giardini delle case nobiliari e
dei monasteri e c’era la vista amena delle verdi colline.
L’aumento
demografico continuò anche dopo la terribile peste del 1656, per la quale morì
– si dice- metà della popolazione, tra cui anche artisti famosi come Massimo Stanzione e Battistello Caracciolo.
Dal Seicento la
professoressa riporta l’uso fatto da uno scrittore francese in visita a Napoli,
della parola “fondachiera”,
per indicare la povera gente abitante dei fondaci napoletani, detta, poi,
“plebe” e “gentaglia”. Nello stesso periodo (è forse interessante notarlo), un
napoletano di genio come Gianlorenzo
Bernini, che era stato chiamato da Luigi XIV per
costruire il “Palazzo
del Re”, veniva continuamente criticato dalla Corte e dal Colbert,
Controllore Generale delle Finanze del Regno, e poi era ignominiosamente
rimandato a casa. Così il “Palazzo del Re”, il Louvre, oggi ha le forme
classiche della colonnade di Claude Perrault.
Delle
incomprensioni e dei contrasti tra il razionalismo dei francesi e il
naturalismo libero e ardito del Bernini riferì, nel suo diario, Paul Fréart de Chantelou,
Mastro di Casa del Re, rivelandosi amico dell’artista italiano. Il che dimostra
che ancora perdurava in Francia, nella seconda metà del ‘600, l’ammirazione per
la creatività nostrana, ma stava per nascere, da un estremo razionalismo
cartesiano, quell’illuminismo che si esprimerà, più di un secolo dopo, nel
neoclassicismo giacobino.
Del suo lavoro di
ricerca sul fondaco del Cavone, la professoressa Marin non nasconde le
difficoltà. E ricorda come un colpo di fortuna, ma fu premio al suo impegno,
l’essersi imbattuta nei documenti relativi ai monasteri scomparsi. Tra questi
c’è il monastero
femminile di santa Monica, nato come tale nel 1646 da un
conservatorio del 1628.
Nell’insula,
intorno al monastero, le monache costruirono un complesso di abitazioni
modeste, il Fondaco del Cavone appunto, che dettero in fitto a basso prezzo a
gente che aveva scarsi mezzi economici. Fu speculazione o beneficenza? L’uno
e l’altro probabilmente, secondo i casi – suggerisce la professoressa. Che,
citando i documenti, riferisce di numerosi interventi di manutenzione e decoro
fatti, per queste abitazioni, nel Seicento e nel Settecento, che poi, nella
seconda metà dell”800, vennero a mancare, determinandone il degrado.
Ma la
situazione di degrado esistente in questo periodo storico riguardò tutta la
città, e fu quello che Matilde
Serao descrisse ne “Il ventre di Napoli”.
Che non fu soltanto delle sue strutture materiali. Precedentemente, nel
Settecento, invece, la maggior parte dei visitatori, notoriamente Goethe ma non
solo, avevano considerato il popolo napoletano, compresi i poveri,
libero e felice.
Era ammirato il suo
essere “picturesque”,
termine inglese che allora sorse per connotare ciò che è veracemente originale
ed è amabile per la sua diversità. Ma poi, appunto nella seconda metà
dell”800, la povertà diventò miseria. Mentre, come dice la Marin, spesso il
sorriso divertito dei turisti diventava
una sorta di sprezzante ironia. Siamo negli anni successivi
all’unità d’Italia. Il degrado delle abitazioni e dei relativi servizi portò
all’emergenza sanitaria. A Napoli scoppiò il colera. E, di conseguenza, si
giudicò necessario procedere alla bonifica del suo centro e del suo sistema
fognario attraverso quello che fu detto il Risanamento oppure “lo sventramento”.
Che diventò “la più estesa trasformazione urbanistica che la città storica
abbia conosciuto”- ricorda, intervenendo nel colloquio instauratosi tra i
relatori e il pubblico, un architetto, esperto urbanista.
È il professore Italo Ferraro, già
docente alla Federico II e autore di un atlante in 12 volumi (edizioni Oikos),
che racconta la storia di Napoli nella sua concreta realtà edilizia. Da cui si
evince, non come semplice ipotesi ma come indubitabile testimonianza,
l’eccezionale continuità storica dell’antica città partenopea.
Una
continuità che ha fatto si che Napoli, che non è “una città con un porto” costruito
successivamente (come Atene), ma una città-porto fondata da greci marinai,
abbia potuto mantenere
l’impronta delle sue origini marine, nell’organizzazione
sociale, nella filosofia e nell’arte.
Infatti
le antiche lcittà costiere greche, come Neapolis, Palepolis, o Elea, la patria
di Parmenide, modellarono
la loro organizzazione sociale tenendo conto
dell’esperienza che ne avevano fatto sulla nave prima di stanziarsi
sulla costa. Sulle antiche navi, non si eleggevano quali capi i
politici-oratori. Ma era capo il nostromo (cubernetes in greco, gubernator in
latino), il governatore, che otteneva la sua legittimità dando prova delle sue
reali capacità. E ognuno dei marinai aveva le mansioni relative alle proprie
possibilità, il che non comportava la sanzione di una superiorità degli uni
sugli altri, perché era evidente il fatto che si era tutti sulla stessa barca:
una paritaria società di disuguali.
Così,
alla caduta dell’impero romano, Napoli fu, per molti secoli, guidata da un dux
con le funzioni di governatore, e fu un ducato. Finché, dopo l’esperienza
normanna, la città non conobbe gli Angioini, che la resero capitale di un
Regno. E fu il
centro conservatore di una cultura anomala, invisa agli
accademici e temuta dalle Autorità. Una corrente filosofica diversa da quella
classica improntata al razionalismo socratico-aristotelico. Fu l’empirismo
contro il razionalismo, l’esperienza contro lo scientismo, la libertà di vivere
contro l’eccessiva regolamentazione, contro la cosiddetta normalità.
Un fil
rouge lega il filosofo marinaio Parmenide, di cui si
era impadronito Aristotele travisandolo,
al filosofo naturalista Bernardino
Telesio, a Giovanbattista
della Porta e alla sua associazione dei Secreti,
accusata di occultismo, fu chiusa per ordine papale, a Tommaso Campanella,
torturato e imprigionato, a Giordano
Bruno, bruciato vivo in Campo dei Fiori, agli Investiganti
seicenteschi, al principe
di Sansevero, mago lo dissero e non scienziato quale
fu, a misconosciuti uomini geniali, come Giacinto De Cristofaro, chiuso in
prigione per molti anni, e a tanti altri ancora.
Tra i quali,
presumibilmente, quelli di cui è stata completamente cancellata la memoria.
Questo fil
rouge ci conduce a Gian
Battista Vico. Negli scritti di questo grande filosofo
napoletano si legge una concezione del tempo e dello spazio che ci riporta al
marinaio Parmenide.
Il
tempo, per Vico, non è un’entità unidirezionale e la realtà non è statica ma è
ritmo che si muove ritornando su se stesso, come il mare.
Come la musica napoletana che nutrì il mondo dai tempi di Nerone a quelli di
Paisiello. E lo spazio, per Vico, non è quello definito dalla geometria
cartesiana ed euclidea. Ma è quello che si apprende “con una mescolanza di
corporeità e di pensiero”.
Certamente
anche la gente di mare nella mente non poteva avere lo spazio euclideo ma
quell’ampio spazio marino che si conforma alla curva linea dell’orizzonte e
alla volta del cielo. È un’immagine espressa anche nell’arte figurativa
napoletana. E che è ben diversa da quella dello spazio-scatola a tre
dimensioni che Euclide teorizzò,
pubblicandolo nel 300 a. C., e che viene realizzato dal 1400 in poi, per mezzo
della classica prospettiva toscana. Che è la prospettiva per antonomasia,
l’unica accettata accademicamente e considerata reale, sebbene,
precocemente, L.
B. Alberti la avesse definita artificialis, cioè
meramente astratta. Eppure quella pittura napoletana che non si attiene alle
sue regole è stata spesso considerata arretrata o errata.
Erwin Panofsky, nel suo famoso libro
“La
prospettiva come forma simbolica”, riferisce della realizzazione
dello spazio sulla curva superficie dei vasi magnogreci del IV secolo a C. e di
una prospettiva simile a quella canonica (ma erroneamente realizzata) in alcuni
affreschi pompeiani. Di errori di prospettiva hanno parlato ancora i dotti
riferendosi alle vedute napoletane del Settecento. Non si tratta di errori ma
di una prospettiva diversa che nel Settecento ha raggiunto la sua piena
espressione, tanto da poter essere oggi tradotta in computer grafica.
È la prospettiva di
quello spazio che la gente di mare aveva nel cuore e nella mente: la prospettiva napoletana.
(cfr. “Lo
spazio a 4 dimensioni nell’arte napoletana. La scoperta di una prospettiva
spazio-tempo” ed T. Pironti). Uno spazio attualissimo, coerente a
quest’epoca di imprese spaziali, mentre la prospettiva toscana del ristretto
spazio-scatola è contestata da tempo. Nei dipinti napoletani considerati
sbagliati, c’è la visione
di uno spazio in movimento, che è visto da più punti di vista e
ha quattro dimensioni. Napoli ha intuito da sempre quello che la scienza ha
teorizzato soltanto nei primi anni del Novecento, con Albert Einstein, che
d’altronde ha scritto: “Le
origini del nostro pensiero sono nella Magna Graecia”. La
prospettiva non è soltanto un fatto pittorico: essa rispecchia la mentalità,
ovvero la struttura del pensiero, del pittore-autore, ma anche del suo ambiente.
E la prospettiva napoletana.si basa sui plurali punti di vista di una società
coesa, che danno concretezza a uno spazio iperbolico.
La
persistenza nell’arte figurativa degli stessi caratteri si apparenta alla
persistenza delle stesse famiglie nei quartieri popolari napoletani, come
il Fondaco del
Cavone. Famiglie che costituiscono una società coesa, con gli
stessi modi di pensare, di sentire e di atteggiarsi. Di questa società racconta
l’accurata indagine fatta sul posto dall’attento studioso Marcello Anselmo, che
ha intervistato persone e ha filmato interviste e luoghi, indagando su
importanti fenomeni ma anche su particolari, apparenti minuterie del modo di
vivere del popolo povero, e così ricostruendone la vita.
Tutto questo è reso noto ora al pubblico nella vivace relazione
dello studioso. Che chiarisce come la densità demografica del Fondaco del
Cavone si sia andata via via accentuando. Già era accaduto dopo “lo
sventramento” operato dal Risanamento del centro storico della città, un luogo
densamente popolato, i cui abitanti, quindi, dovettero trasferirsi altrove.
Di questi, mentre i più ricchi occuparono i nuovi appartamenti e quelli di
media fascia andarono ad abitare al Vomero, i poveri andarono ad addensarsi nei
luoghi già sovraffollati come i fondaci. Le condizioni degli abitanti
peggiorarono.
Tuttora
la densità
demografica tende ad aumentare, perché, a volte, pur potendosi
trasferire altrove, i giovani sono rimasti qui, accanto ai genitori, ai nonni,
agli zii e agli amici di sempre. E anche coloro che si erano allontanati,
andando ad abitare le case nuove della periferia, ritornano qui, nella vecchia
Napoli,tra i parenti e gli amici, tra gente conosciuta, in quella società che
gli è propria, a quel modo di vivere che è la loro vita. Così gli ambienti
abitativi, per dar loro posto, si sono solidarmente divisi. Ma sono tenuti
ordinati e lindi, e sono forniti di bagni e di moderne tecnologie casalinghe. I
piani del fondaco si sono innalzati e vengono preferiti quelli più alti.
Certo ora, come nei
vecchi vicoli napoletani, sta
sorgendo, ed è una novità, un senso di insicurezza.
Testimoniato anche dalla chiusura delle porte dei “bassi”, le case a pian
terreno, con la “finestra
zoppa” e, come nota acutamente Anselmo, dalla presenza dei cani –
non i randagi a cui si dà il cibo, un calcio e una carezza – ma cani da difesa
e robusti cani da guardia. Ora vi sono, anche nel Fondaco del Cavone, molti
abitanti che vengono dall’estero, soprattutto africani e cingalesi, gente
sconosciuta. Alcuni rimangono più a lungo, altri fanno un turn-over.
Ma
sono sempre di più e l’atteggiamento di accoglienza proprio delle
civiltà di mare… da Nausica in poi… si chiude in un atteggiamento di
faticosa sopportazione. E ogni tanto si protesta per piccole cose, che fanno
emergere in superficie la diversità tra le etnie. Pure lo spazio, qui, al
Cavone, scarseggia e rende
più aspri gli attriti tra persone che sono profondamente
diverse. Mentre l’armonia di una società è fatta dalla omogeneità dei suoi
componenti.
Dalla relazione degli studiosi molte cose sono state chiarite. Ma una domanda rimane senza risposta. Se i fondaci sono una sorta di antichi magazzini portuali, di origine medievale, che si trovavano un tempo lungo i moli, a Napoli come a Venezia e a Genova, il fondaco del Cavone, come quello, anch’esso napoletano, di San Gregorio Armeno, che non sono costruiti nel porto, perché si chiamano fondaci?
“Padania” e Regno delle
Due Sicilie hanno solo una cosa in comune: l’autore dell’inno nazionale.
Certo, è una battuta provocatoria. Ma le cose diventano
ancora più paradossali se si pensa che l’autore delle musiche in questione è
Giuseppe Verdi, uno dei padri dell’Unità d’Italia.
Chissà cosa direbbero i nostalgici della Lega Lombarda se
sapessero che proprio Verdi, nel 1848, scrisse un inno chiamato “La Patria – dedicato a
Ferdinando II di Borbone“: avrebbe dovuto sostituire lo storico inno di
Giovanni aisiello.
Re Ferdinando è salutato come padre della patria ed il testo
finisce con un coro di “Viva il Re!“.
Bisogna
contestualizzare la situazione storica: l’inno fu scritto dopo le rivolte del
1848, quando tutta Europa si sollevò contro le monarchie. Anche a Napoli ci
furono numerose manifestazioni contro Ferdinando II, tanto da costringerlo ad
emanare una costituzione (che poi fu revocata l’anno dopo).
In tempi di rinnovamento, probabilmente, si pensò che anche l’inno storico
scritto sotto Ferdinando IV dovesse essere cambiato.
Ed ecco che quindi le musiche dell’Ernani, un’opera composta pochi anni prima
da Verdi, furono arricchite con le parole di Michele Cucciniello:
Bella
Patria del sangue versato
se fumanti rosseggian le
impronte
non
più spine ti strazian la
fronte
il martirio la palma fruttò
Viva il Re!
Viva il Re!
Viva il Re!
L’inno fu
però presto dimenticato in quanto, per tradizione, rimase ufficiale la musica
di Paisiello. Il lavoro di Verdi fu ritrovato solo nel 1973, più di cento anni
dopo dalla caduta del Regno, per mano del maestro Roberto de Simone,
che scavò negli immensi archivi del Conservatorio di San Pietro a Majella e
studiò le origini di questa storia, che altrimenti avremmo dimenticato.
Verdi era borbonico?
I conti non
tornano: Verdi fu uno dei più appassionati sostenitori dell’Unità d’Italia,
oggi sono dedicate a lui piazze, strade e monumenti. Com’è possibile che
vent’anni prima dell’unità sosteneva la monarchia di Napoli?
Alcuni autorevoli studiosi, fra cui l’istituto di Studi Verdiani, credono che
l’inno “La Patria” sia un plagio clandestino di un testo mai autorizzato. È
effettivamente strano che Verdi, forte sostenitore di Mazzini, abbia appoggiato
la politica borbonica. Oltretutto il compositore si trovava a Parigi nel 1848.
Michele Coccia, invece, affermò di aver trovato anche le carte in cui si poteva
leggere chiaramente il consenso del compositore per la diffusione della sua
opera, di fatto riconoscendola come originale. E se anche non ci fossero stati
riconoscimenti, l’inno di Verdi era sicuramente molto conosciuto a Napoli.
Oltretutto, quando il compositore di Busseto diventò senatore, si batté molto
per promuovere leggi sul diritto d’autore e per tutelarsi dai numerosissimi
plagi che aveva subito nella sua carriera. Se anche l’inno borbonico fosse
stato fra questi, probabilmente, Verdi ne avrebbe in qualche modo parlato.
Ci sono anche quelli che, come lo storico Pasquale Galasso ed il maestro De
Simone, vedono in Verdi un “opportunismo”: l’Italia stava per cominciare il suo
processo di unificazione e tutti gli intellettuali del paese si sarebbero
affidati a qualunque monarca disposto a compiere l’impresa. E Verdi provò ad
ingraziarsi anche il re di Napoli.
In effetti, ancor prima che cominciasse il processo unitario, a Ferdinando II
fu proposto di unificare l’Italia, ma il monarca non prese mai in
considerazione questa ipotesi per evitare conflitti con Roma.
E
così, in un duello fra immaginazione e storia, Lega Nord e Regno di Napoli
hanno avuto in comune l’autore dei propri inni.
Per l’immaginaria Padania, ovviamente, il discorso è un po’ diverso: l’aria del
“Va,
pensiero” fu adottata da Bossi quando il buon Giuseppe Verdi era
morto da ben ottant’anni.
I soldati, ben consapevoli del tradimento del generale Nunziante, respinsero con sdegno le parole del traditore e si prepararono alla res…istenza, disconoscendo, purtroppo, che nelle file dell’esercito serpeggiavano altri traditori pronti alla resa
“Femme hèroique qui,
reine soldat, avait fait elle meme son coup de feu sur les remparts de Gaete”.
Così Marcel Proust ne “La prisonnière”, canta della regina soldato, la diciannovenne Maria Sofia di
Borbone, che sugli spalti di Gaeta non esitò a sostituire un artigliere ferito
a morte, continuando il fuoco contro gli assedianti piemontesi.
Il mito dell’eroina di Gaeta non è stato mai
offuscato dal passare del tempo, anche se i testi di storia hanno ignorato o
addirittura vituperato la figura, la personalità e il comportamento eroico
dell’ultima regina delle Due Sicilie. Gabriele D’Annunzio definì Maria Sofia
“l’aquiletta bavara che rampogna”, intendendo con queste parole
disprezzare la regina che si oppose con tutto il suo coraggio all’usurpazione
sabauda del Regno delle Due Sicilie.
Maria Sofia, infatti, tentò di riconquistare
sino all’ultimo della sua vita quella patria meridionale che lei, tedesca di
nascita, aveva fatto sua e profondamente amata.
Maria Sofia era figlia di Massimiliano e
Ludovica di Wittelsbach; Massimiliano duca in Baviera, mentre Ludovica, sua
moglie, era una delle nove figlie del re.
“….Quando giunse anche per Maria Sofia
il tempo del matrimonio, la ragazza aveva diciassette anni; la duchessa
Ludovica, forte del buon esito del matrimonio dell’altra figlia, si adoperò per
trovare anche per Maria Sofia una testa coronata. In Germania i partiti
disponibili erano scarsi e poco ragguardevoli; per un momento la duchessa madre
pensò al principe ereditario di Baviera, il futuro Ludwig II, omosessuale e
pazzo, che per le sue stravaganti follie avrebbe portato in seguito il Regno al
collasso politico ed economico.
Per fortuna di Maria Sofia l’evento non si
concretizzò mai, per cui Ludovica, con l’aiuto della Corte di Monaco, iniziò a
scandagliare, con opportune iniziative diplomatiche, i migliori partiti delle
case regnanti d’Europa. La risposta non tardò a venire: le comunicarono che il giovane
principe ereditario delle Due Sicilie, un regno immerso nel sole del bacino del
Mediterraneo, era pronto a convolare a nozze.
Maria Sofia, pur non conoscendo il futuro
sposo, fu infantilmente entusiasta della prospettiva di poggiare sul suo capo una
corona di regina, e immaginò il suo futuro sposo bello e aitante come il marito
della amata sorella.
La giovane Wittelsbach sognò quindi di vivere
la stessa favola di Elisabetta e del suo principe azzurro.
Il duca Max, che trascorreva le sue vacanze, come
al solito, all’estero, le inviò un telegramma con cui sconsigliava questa
unione: evidentemente dal suo frequente vagabondare in Europa non aveva tratto
buone informazioni sul principe ereditario delle Due Sicilie.
Le trattative matrimoniali furono condotte dal
conte Carlo Ludolf, ambasciatore di re Ferdinando II, e dallo stesso zio di
Maria Sofia, il re di Baviera. Re Massimiliano aveva già preso tutte le
informazioni possibili sulla vita, le abitudini, il comportamento del giovane
Francesco, duca di Calabria.
D’altra parte si sapeva in tutta Europa che
l’erede al trono di Napoli aveva ricevuto un’educazione confessionale, che
preferiva gli studi di teologia piuttosto che le iniziative politiche, che non
amava le donne, la caccia, le feste e gli altri svaghi di corte; preferiva la
preghiera, la meditazione, tutto l’opposto del suo sanguigno genitore.
Francesco nutriva una particolare devozione per
la madre, Maria Cristina di Savoia, detta “la Santa” dai Napoletani
per la sua vita ascetica e di preghiera, ben lontana dalle attività della
rumorosa e festaiola Corte Borbonica.
La regina era morta a ventiquattro anni subito
dopo il parto, lasciando il figlio privo per sempre dell’amore di madre. Questo
avvenimento aveva fortemente inciso sul carattere chiuso, mite e remissivo di
Francesco, e lo aveva spinto più ad una vita di meditazione e di pensiero che
ad un’attività politica consapevole degna di un principe ereditario.
Anche
il padre Ferdinando II, conoscendo il debole carattere dell’erede al trono, non
si era occupato della sua educazione come del resto aveva fatto nei confronti
degli altri figli avuti dal secondo matrimonio con l’arciduchessa Maria Teresa
d’Asburgo.
Ferdinando amava moltissimo i suoi figli, ma alla stregua di un buon padre di
famiglia borghese e non con la responsabilità di un sovrano di una delle più
antiche dinastie d’Europa.
Di conseguenza Francesco, pur essendo l’erede
al trono, era rimasto lontano dalla politica: il padre gli aveva inculcato
l’idea che il Regno era sicuro e tranquillo, in quanto i suoi confini stavano
fra l’“acqua santa” (lo Stato Pontificio) a nord e l’“acqua salata” a
sud (le coste e la Sicilia).
I
rapporti fra le Due Sicilie ed il papato erano ottimi. Pio IX aveva una
particolare predilezione per il re di Napoli, memore della generosa ospitalità
del sovrano negli anni del suo esilio da Roma.
Le nozze tra Francesco di Borbone e Maria Sofia furono celebrate per procura, a
Monaco, l’8 gennaio 1859; la sposa giunse a Bari a bordo della fregata
borbonica Fulminante la mattina del 3 febbraio. Quando la fregata entrò nel
porto, tutte le navi alla fonda la salutarono con salve di cannone, mentre
sulle banchine una folla impressionante salutava e batteva le mani.
Le strade di Bari erano coperte da bandiere e
le campane di tutte le chiese suonarono a stormo. Sulla banchina principale del
porto dieci carrozze ospitavano tutta la famiglia reale venuta a rendere
omaggio alla futura regina di Napoli.
Maria Sofia, dall’alto del ponte, osservava con
trepidazione la città festante cercando di scorgere, fra quella marea di gente,
il suo giovane marito. Francesco era già salito a bordo della lancia reale, con
la regina madre e tutto il seguito. Mancava solo re Ferdinando, che era rimasto
in carrozza perché già colpito dal male che di lì a poco lo avrebbe condotto
alla tomba. Francesco indossava l’uniforme di colonnello degli ussari, mentre
Maria Sofia sfoggiava uno splendido abito di velluto cremisi appena coperto
dalla pelliccia di zibellino.
La fanciulla apparve a Francesco in tutto lo
splendore della sua bellezza: occhi turchini, brillanti, i lunghi capelli neri
sciolti sulle spalle, il portamento fiero ed elegante. L’avvenenza della sposa
fece aumentare la timidezza congenita del giovane principe, che si limitò ad un
«Bonjour, Marie» e ad un compassato baciamano.
Nel tardo pomeriggio avvenne la cerimonia
religiosa nel palazzo reale della città. Maria Sofia si adornò con i gioielli
più fastosi della Corona di Napoli, portati appositamente dalla capitale per
ordine di Ferdinando II. La benedizione nuziale fu impartita dall’arcivescovo
di Bari, che lesse anche la speciale benedizione di Pio IX. Le navi nel porto
spararono a salve e le bande suonarono l’inno di Paisiello.
Il 7 marzo la famiglia reale fece ritorno a
Napoli a bordo della fregata Fulminante e raggiunse in carrozza la splendida
reggia di Caserta. Frattanto, nel Regno di Piemonte e Sardegna, Cavour, forte
dell’alleanza con Napoleone III, si preparava ad una nuova guerra con
l’Austria; il 29 aprile 1859 le truppe franco-piemontesi penetravano nel
Lombardo-Veneto.
Aveva inizio la seconda guerra dei Savoia
contro l’impero asburgico (definita dagli storici “Seconda Guerra
d’Indipendenza”), guerra di espansione militare e territoriale nella vasta
pianura padana, indispensabile per l’economia e lo sviluppo del piccolo
Piemonte chiuso nella morsa fra le Alpi e il mare.
Ferdinando II, malgrado la malattia che si era
fortemente aggravata, seguì con apprensione le fasi della guerra, dimostrando
un’aperta ostilità verso i parenti piemontesi e raccomandando al figlio di
tenersi cara l’alleanza con lo Stato Pontificio e di non fidarsi mai dei cugini
Savoia, che egli definiva «Piemontesi falsi e cortesi».
Mai raccomandazione fu più profetica! Il re
morì il 22 maggio 1859 a quarantanove anni.
Un anno prima dello sbarco di Garibaldi, Francesco II salì sul trono di Napoli a ventitré anni e Maria Sofia si ritrovò regina a diciotto anni.