Posted by altaterradilavoro on Feb 11, 2019
Sommario:
1. – La vita e l’attività pubblicistica. 2. – Condannato dai rivoluzionari
repubblicani e dal tribunale del Re. 3. – La “leggenda nera”. 4. – La complessa
personalità costellata da eminenti doti. 5. – Riflessioni conclusive.
1. – La vita e l’attività pubblicistica. – Antonio Luigi Capece Minutolo, Principe di Canosa, nasce a Napoli il 5 marzo 1768(1), terzogenito dei coniugi don Fabrizio e donna Rosalia de Sangro dei Principi di San Severo (è, perciò, nipote ex matre di Raimondo, grande genio del settecento); dalla sua fede di battesimo conservata nell’Archivio di Stato di Napoli apprendiamo anche il nome della “mammana” (ostetrica): Antonia Ferrara.
Appartiene
ad una antica famiglia con signoria sul feudo di Canosa ed era ascritta al
primo dei Sedili di Napoli, quello di Capuana.
Nel
Duomo di Napoli fa bella mostra la cappella dei Capece Minutolo, ricordata
anche da Boccaccio nella novella di Andreuccio da Perugia, dove i ritratti di
tredici viceré, due cardinali e una schiera di guerrieri denotano la nobiltà e
onorabilità della stirpe.
Compie i suoi studi nel collegio Nazzareno di Roma, sotto la guida dei Gesuiti; successivamente viene avviato alla professione forense, dove si distingue nella trattazione delle cause penali. 2. – Condannato dai rivoluzionari repubblicani e dal tribunale del Re. – Il Principe di Canosa ha avuto il triste privilegio di aver subito la condanna a morte dai repubblicani rivoluzionari, perché incolpato di essere monarchico, ed
ugualmente una
sonora condanna dal Tribunale del Re, allorché venne restaurata la monarchia,
perché ritenuto colpevole di essersi posto contro l’autorità regale,
rappresentata dal suo Vicario.
All’inizio del 1799, invero, nelle torbide giornate della
repubblica napoletana, i giacobini lo condannarono a morte per aver organizzato
la plebe ed armato i lazzari(2) che, in nome del Re, si opponevano allo
straniero invasore ed ai cittadini suoi fiancheggiatori. “I lazzaroni, questi
uomini meravigliosi scampati dall’esercito che era fuggito avanti a noi, chiusi
in Napoli, sono degli eroi. Si combatte in tutte le strade, il territorio è
disputato palmo a palmo, i lazzaroni sono comandati da capi intrepidi, il forte
di S. Elmo li fulmina, la terribile baionetta li atterra, essi ripiegano, in
ordine, tornando alla carica”(3).
Fortunosamente scampato alla pena capitale, ebbe a subire
dolorose traversie con il ritorno di re Ferdinando IV a Napoli e la
restaurazione della monarchia: uscito dal carcere repubblicano l’11 luglio
1799, a seguito della capitolazione dei rivoluzionari asserragliati nel
castello di Sant’Elmo, il 1° agosto successivo venne rinchiuso nelle regie
carceri.
A suo carico pesava, infatti, la contestazione del potere del
“Vicario” (Francesco Pignatelli di Strongoli), lasciato come alter ego dal
re quando con la corte si era trasferito in Sicilia. Si sosteneva, in
proposito, che, secondo antica tradizione, in assenza del sovrano, la potestà
di governare la Nazione spettasse ai “Cavalieri della Città” ed ai componenti
della “Deputazione straordinaria per il buon governo e per l’interna
tranquillità”, che rappresentavano la città di Napoli(4); il Vicario, al più,
avrebbe dovuto agire d’intesa con i “sedili”.
In questa situazione erano inevitabili dissidi ed incertezze nel governo della città, per cui lo stesso Vicario decise di rifugiarsi in Sicilia. Peraltro, una volta restaurata la monarchia e ritornato il Re nei suoi poteri, il Canosa venne nuovamente portato in carcere e sottoposto a giudizio per il suo comportamento nei riguardi del Vicario.
Il Presidente del
Tribunale della Giunta di Stato, Vincenzo Speciale, che il Canosa definisce
“pazzamente feroce”, chiede per lui la somma condanna, ma il Re, sollecitato
dalle famiglie dei Cavalieri della Città, decise di affidare il giudizio finale
anche alla Giunta del buon Governo, presieduta dal Principe di Cassaro, persona
molto equilibrata. Lo stesso Canosa così racconta la vicenda: “i membri della
Giunta di Stato furono scissi tra loro nella decisione della causa. La scissura
toccò tanto gli estremi, che mentre uno votò per la morte, votarono due
affinché venisse fatta relazione al Monarca intorno ai meriti che contratto
avea colla buona causa il supposto reo. Tra le tante sentenze strampalate si
cavò quasi come media proporzionale, tra chiassi ripetuti e cachinni la
condanna di cinque anni di castello”. Precisamente, alla più mite condanna si
giunse per l’assoluzione dalla reità di Stato e cioè dall’accusa di aver
promosso l’instaurazione di una “repubblica aristocratica”, e per il riconoscimento
solo dell’insubordinazione al Vicario(5).
Tuttavia, nel 1801, a seguito del Trattato di Firenze con cui
Napoleone aveva imposto una generale amnistia per i giacobini condannati, anche
il Canosa, che certamente non rientrava tra costoro, riacquista la libertà.
I repubblicani rivoluzionari, dunque, lo avevano condannato
perché “monarchico” ed il Tribunale del re lo condannava perché incolpato di
aver voluto instaurare una sorta di repubblica aristocratica:
“monarchia” e “aristocrazia”, come rileva Benedetto Croce(6), sono proprio “i
due elementi che egli bensì componeva armonicamente nella sua antiquata
personalità, ma che la storia aveva scissi e messi in contrasto”.
3. – La “leggenda nera”. – Il Principe di Canosa è
perseguitato da una leggenda nera che l’ha dipinto a fosche tinte in
vita e continua a perseguitarlo anche dopo la morte; si è giunti ad incolparlo
della strage di centinaia di migliaia di “giacobini, murattisti e
carbonari”, fino ad attribuire alla sua nefasta influenza presso la Corte di
Modena, il supplizio di Ciro Menotti. 4
Vincenzo Gioberti
lo ritiene “uomo d’infame memoria, che, dopo commesso in Napoli ogni sorta di
ribellione, trovò asilo tra le braccia dei gesuiti alle sponde del Crostole”(7).
Niccolò Tommaseo lo definisce “villano di Canosa, cacciato da
Napoli e dalla Toscana come uomo stolidamente torbido e vituperevolmente
irrequieto”(8); “prepotente, fanatico e cieco reazionario, nemico di ognuno che
aspirasse ad ordini più civili di governo”, lo considera Matteo Mazziotti(9).
Giuseppe Mazzini – dal sicuro dei suoi esili, nota S.
Vitale(10) – lo raffigura “colle baionette d’intorno e il carnefice a fianco”(11).
Più astioso è il giudizio di Pietro Colletta, che, ricordando
il carcere subito dopo i moti del 1821, lo taccia di essere “aristocratico per
dottrina, plebeo per genio”, “diffamato per opere pessime”, “orditore sagace…
di trame, ribellioni, delitti”, “cagione di mille morti, o da lui date o
dall’avversa parte, per vendetta e condanne”, “doppiamente adultero, sempre
ubriaco di vino e di furore”, autore di “opere inique sotto le immagini del
Salvatore e dei Santi”, “tenuto malvagio nel mondo”(12).
Sono affermazioni senza alcun fondamento, di cui specialmente
quelle del Colletta furono dal Canosa puntigliosamente confutate in vita nell’Epistola
ovvero riflessioni critiche sulla moderna storia del reame di Napoli del
generale Pietro Colletta, pubblicata a Capolago nel 1834 e recentemente
ripubblicata dal Vitale in appendice al suo volume “Il Principe di Canosa”.
A sua volta, il Blanch, dopo un generico apprezzamento
dell’umanità del Canosa, bolla le sue vedute politiche come “una idea esagerata
che ha la forza di rendere nulle le migliori intenzioni e le virtù stesse”(13).
Più benevolo è il giudizio di B. Croce(14) che di fronte alle voci calunniose della polizia del Saliceti e alle tenaci difese dello stesso Canosa, dichiara di propendere per queste, osservando che “l’uomo era bensì un don Chisciotte(15) della reazione, ma non punto sanguinario, né malvagio e nemmeno ingeneroso”.
Pur dichiarando di
non volersi discostare dalle considerazioni del Croce, il Maturi(16) ridimensiona
alquanto il sostanzialmente positivo giudizio del Croce osservando che “Accanto
al generoso cavaliere, v’è nel Canosa il settario capace per odio di parte
delle più basse delazioni e delle più odiose quali l’inasprimento delle pene in
materia di opinioni, gli atti più odiosi quali i processi napoletani del 1799 e
i processi piemontesi del 1833”.
Il conte Clemente Solaro della Margarita, che pure come il
Canosa è fedele al trono e devoto all’altare, non è tenero nei suoi
confronti: gli riconosce che è “uomo onesto, devoto ai buoni principi”, ma
aggiunge che è “incapace di maneggiare affari di Stato, specialmente nell’epoca
difficile di una restaurazione. Più poteva in lui la passione che il senno; non
aveva idee fisse; non perseveranza di condotta; voleva il bene non sapeva
operarlo; fu tremendo coi carbonari della plebe, i più accorti delle classi
sociali riuscirono a schermirsene”.
4. – La complessa personalità costellata da eminenti doti.
– I negativi giudizi espressi sul Canosa sono unilaterali e mostrano di non
considerare le qualità che il personaggio possedeva in grande misura, come il
sommo disinteresse personale, la generosità d’animo non venata da rancori, la
costanza dei sentimenti, lo spirito di indipendenza alieno da cortigianeria.
I suoi sentimenti non sono stati mai contaminati da venature
di interesse economico: “Io, afferma il Canosa, ero il capo di una patrizia
famiglia commoda bastantemente nel mio paese.
Abbandonai tutto sul fondato timore di perder tutto, ed in
effetti tutto perdei fuor che il mio onore. Nel venire non ebbi presente
giammai altro che il mio dovere, l’odio verso la rivoluzione”(17).
Il tornaconto personale non ha mai ispirato o condizionato la
sua attività, per difendere i suoi ideali sacrificò la famiglia (giovane
moglie, teneri figli, vecchi genitori), gli studi, la tranquillità ed i suoi
averi, tra cui la libreria che aveva “carissima”(18). 6
E’ anche il caso di
ricordare che, quando si avvicina il pericolo dell’invasione straniera, il
Canosa si arruola volontario nell’esercito regio e recluta, a proprie spese,
una cinquantina di uomini a difesa di Napoli e della monarchia.
Il disinteresse economico ha, perciò, costituito la nota
dominante della sua attività, come viene dimostrato dal fatto che è morto
povero; in un mondo in cui l’utile personale costituisce la direttiva
principale per ogni azione, questa sola connotazione contribuisce ad elevare la
figura del Canosa ed a farlo assurgere a modello da imitare, anziché a farlo
sprofondare tra i soggetti da scansare.
Canosa era senza dubbio generoso, così come può aspettarsi da
una persona, come lui, di alto lignaggio; sono significativi, in proposito, alcuni
episodi, forse di no grande rilievo, che però aiutano a comprendere meglio la
sua personalità.
Così, nel soggiorno in toscano (1816), incontrato un vecchio
compagno d’armi che si trovava in difficoltà economiche, gli concede il suo
aiuto versandogli mensilmente la somma di cento lire. Si tratta di Giuseppe
Torelli che non era propriamente un amico del Canosa perché a Ponza (1807),
dove era stato costituito un “punto d’appoggio”, una specie di “resistenza”,
per la preparazione di un movimento anti francese a Napoli, aveva cercato di
metterlo in cattiva luce con la stessa Regina; in seguito, scomparsa la Regina,
il Torelli aveva chiesto inutilmente aiuto al Ministro Medici che lo scacciò in
malo modo. In Toscana, dunque, avvicina il Principe che, ricordando che era
stato “nemico della rivoluzione, e fedele alla grande Maria Carolina… due
attributi che per me canonizzano il demonio”, dimentica precedenti contrasti e
gli concede concreto sostegno(19).
Meritevole di essere segnalato è anche il comportamento
tenuto nei confronti del generale A. Bergani, che aveva aderito al regime
costituzionale ed era rimasto fedele fino all’ultimo a Gioacchino Murat: mosso
a compassione dalla supplica della moglie del generale, lo giustificò davanti
al Re, facendo richiamo all’osservanza dello spirito militare e alle materiali
necessità di sopravvivenza, e lo fece rimettere in libertà(20). 7
In precedenza aveva
mostrato la sua magnanimità graziando alcuni sicari inviati a Ponza per la sua
eliminazione dal ministro di polizia del napoleonide Giuseppe Bonaparte.
Un altro elemento costante della sua attività è stata
l’avversione senza indulgenza ai moti rivoluzionari che cozzavano profondamente
con la sua profonda convinzione di legittimista. Contro lo spirito rivoluzionario
sostiene che la lotta non può essere affidata ai poteri ordinari e molto meno
al potere costituzionale: “il solo che può vincerlo è un dispotismo vigoroso ed
estremamente attivo”(21).
Con apprensione rileva, quindi, al ritorno di Ferdinando IV
sul trono di Napoli, che i murattiani continuano a mantenere alte cariche
nell’amministrazione statale e nell’esercito, i beni confiscati al clero e alla
nobiltà non vengono restituiti, la fedeltà dei sudditi non viene in alcun modo
ricompensata.
Teme, perciò, che la politica, seguita dai ministri Medici e
Tommasi, finisca per isolare il Re che si troverà senza la difesa dei nobili, i
cui poteri sono stati annullati, e senza l’ausilio del clero la cui autorità
religiosa viene scossa da una diffusa miscredenza.
In questa situazione, osserva il Canosa, le forze
rivoluzionarie si faranno vive e finiranno con il prevalere.
Le pessimistiche considerazioni del Canosa vennero esposte
nel lavoro “I Piffari di montagna”, pubblicato nel maggio del 1820 ed assunsero
subito il significato di una negativa profezia, in quanto, nel luglio
successivo, scoppiano i moti rivoluzionari che costringeranno il Re a cedere il
potere, salvo poi l’intervento restauratore delle truppe austriache.
Ricordando quegli avvenimenti qualche tempo dopo, il Cav.
Luigi Medici, principe di Ottaviano, mestamente osservava che “Quando non si
possa (rimettersi la feudalità), come veramente ben che non si possa, qual
altro principio vi si surrogherà? Qui Canosa vuole dispotismo puro, i liberali
costituzione e rappresentanza. Gli uni e gli altri dicon male: ma sarebbe lunga
diceria e non ho tempo. Dico di volo che nel quinquennio [1815-1820] credei di
sciogliere il 8
problema; ma,
disgraziatamente, due tenenti [Silvati e Morelli che insorsero a Nola, chiedendo
la costituzione] mi provarono che ero un coglione, e tutto fu rovesciato. Ond’è
che non ci penso più”(22).
Qui, dunque, il Canosa ha avuto ragione; lo ammette anche
Croce nel suo interessante saggio sul Principe di Canosa(23).
Senza alcun tentennamento od ombra di dubbio, il Canosa, era
convinto monarchico; del resto, in quanto nobile, riteneva fermamente che “ove
non vi è Monarchia, non vi è nobiltà”. Dei nobili, però, ricordava le
tradizioni di fedeltà e di eroismo a difesa del Re e si rammaricava che,
all’epoca, essi si fossero ridotti da aristocratici feudali in accidiosi
cortigiani, rinunciando alla propria funzione di comando e di giustizia(24).
Il Canosa, però, non ha assunto mai atteggiamenti di
cortigianeria e quando si è presentata l’occasione, senza venir meno
all’ossequio dovuto alla maestà del capo dello Stato, ha palesato la difformità
delle sue opinioni, mostrando l’indipendenza del suo spirito e nello stesso
tempo la rettitudine del suo comportamento.
E’ sintomatico l’episodio del comando impartitogli
dalla regina Maria Carolina, con la quale peraltro esisteva una grande
comunanza di vedute, e che il Canosa dichiarò di non poter eseguire, perché era
contrario alle leggi.
La Regina gli osservò: “Ma le leggi non le facciamo noi?
Ebbene noi la sospenderemo o revocheremo”; il Canosa, tuttavia, mantenne il suo
rifiuto, dichiarando: “Signora giustissima… non tutte le leggi sono fatte dal
Re. Ce ne sono talune che sono leggi di cui la sorgente si trova naturale,
nella legge emanata da Dio, che è il Re dei Re. La legge alla quale si oppone
il comando, per equivoco, datomi da Vostra Maestà, è appunto una legge
universale, una legge di natura”.
L’episodio merita particolare attenzione. Il Canosa, monarchico perinde ac cadaver, non esegue l’ordine regale perentoriamente impartitogli, ma la Regina, che pur sovente ricorda di essere “figlia di Maria Teresa” e perciò abituata a farsi ubbidire senza discussioni, non dubitava della realtà del Principe ed ha accettato le sue spiegazioni. Personaggi di diversa levatura, in simili frangenti si sarebbero
comportati in altro
modo e sarebbero stati lieti di appiattirsi sui superiori regii voleri.
Rifulge, quindi, nel Canosa la profonda conoscenza del diritto, acquisita in
gioventù con l’esercizio della professione forense, e la spiccata accortezza
nell’assolvere, al di là di ogni condizionamento, il suo ruolo di consigliere,
additando la via più corretta per l’espletamento dell’attività di governo.
Strenuo difensore dei diritti della nobiltà, si oppose alla
richiesta, loro rivolta, dall’avvocato fiscale Nicola Vivenzio di prestare il
servizio militare in tempo di guerra.
In proposito, rifacendosi al giasnaturalismo, sostenne con
fermezza che lo Stato, alla stessa guisa dei privati, deve rispettare i
contratti. Orbene, gli antichi feudi concessi o donati dal Re, comportavano
l’obbligo del servizio militare; ma l’obbligo venne abolito da Alfonso I
d’Aragona e da Ferdinando il Cattolico e convertito in donativi.
Per quanto concerne i feudi moderni, osserva che venivano
acquisiti a condizioni venali, ma che tra queste non era contemplato l’obbligo
del servizio militare.
Per conseguenza, il Re non poteva pretendere dai nobili il
servizio militare perché non era compreso nel contratto; ma, sostiene il
Canosa, quando la monarchia si trova in pericolo, i nobili devono accorrere in
suo aiuto spontaneamente, fornendo denaro ed uomini contro le avverse minacce.
Coerente con le sue opinioni, quando il Re con la corte si
ritira in Sicilia e sorge la necessità di rinforzare l’esercito regio con altre
truppe, il Canosa, come abbiamo accennato sopra, si reca nei casali vicini a
Napoli, solleva gli animi contro i francesi e raduna, a proprie spese, circa
cinquanta reclute.
Ma non “s’indusse a chiedere rimunerazione alcuna dalla
generosità del Sovrano, trovandosi molto contento d’aver servito S. M. (D. G.)”(25).
6. – Riflessioni conclusive. – Anche oggi, pur dopo le
importanti ricerche di W. Maturi e di S. Vitale e gli interessanti studi di B.
Croce che hanno esaminato più estesamente la vita e le opere del Canosa,
permane una generale avversione nei 10
suoi confronti,
avversione che richiama singoli e certamente secolari episodi per farne
discendere giudizi assolutamente negativi e perentori.
In effetti, il Canosa, quale arguto polemista, nel suo
discorrere era solito avvalersi di paradossi e di enfatizzazione per colorire
meglio le sue argomentazioni e sminuire quelle dei suoi oppositori.
Chi, come il conte Monaldo Leopardi, lo aveva avuto vicino
per affinità di idee e per familiarità di rapporti e, quindi, si trovava in
posizione privilegiata per valutare i suoi intimi pensieri ed i suoi concreti
atteggiamenti, aveva chiaramente affermato che “Egli è l’Argante del Re, e
bisognerebbe avere l’animo di Giuda per negargli il diritto all’omaggio e alla
riconoscenza di quanti combattono per la difesa della legittimità”; e più oltre
sottolineava che “In sostanza, se Voltaire fu il Patriarca dell’empietà, La
Fajette è stato il Patriarca della bugiarda libertà, è Canosa incontra
stabilmente il Patriarca del realismo e della legittimità”(26).
Alla morte del Canosa, è ancora il Leopardi che unicamente ne
tesse l’elogio funebre, con appropriate espressioni che lungi dal diffondersi
in ipocriti elogi, come si è soliti in simili occasioni, suonano a monito degli
indolenti: “… una vergogna dell’Italia il non aver alzato una voce d’encomio”; ed
a coloro che non volessero intendere ricorda apparentemente enfatiche ma
rispondenti pienamente alla realtà che “Canosa era un gran dotto, un gran
politico, un vero galantuomo e un vero cristiano”(27).
Domenico LA MEDICA
(1) non il 6 marzo, come afferma N. Del Corno, in Gli “scritti sani”, Dottrina e propaganda della reazione italiana dalla Restaurazione all’Unità, Milano, Franco Angeli, 1992, 37; il 6 marzo è la data di battesimo. (2) Il termine “lazzaro” non si rinviene nella letteratura napoletana anteriormente alla rivolta di Masaniello (1647) e forse deriva dallo spagnolo lazaro , cencioso, pezzente, con cui i signori napoletanoi, che spagnoleggiavano nella lingua, indicavano la torma dei popolani seminudi, di cui si circondava quel capopopolo; proprio perché vestiti di stracci, richiamavano alla mente il Lazzaro resuscitato e quello cencioso dell’Evangelo. Di lazzari si torna a parlare nelle burrascose giornate del 1799, per la loro resistenza alle truppe di occupazione francesi e, successivamente, quando, sotto la guida del cardinale Ruffo, si distinsero per la lotta contro i “giacobini”.
In seguito con
l’espressione lazzaro si intese quella categoria del sottoproletariato
che non aveva alcuna occupazione e viveva accontentandosi del minimo, ma che
non per questo aveva perso la sua spensieratezza; come ideali, poi, nutriva “in
religione, il culto devoto e fanatico dei Santi protettori e, in primo luogo,
di San Gennaro, e in politica, il culto del re” (Croce B., I “lazzari,
in Aneddoti di varia letteratura, II, Napoli, 1942, 428 ss.; Benigno F.,
Trasformazioni discorsive e identità sociali, il caso dei lazzari, in Storica,
2005, 7 ss.).
(3) Così si esprimeva il gen. Championnet, nella sua
relazione al Direttorio, come riporta Colletta P., Storia del reame di
Napoli, libro III, cap. XXII.
(4) Il privilegio della Città di Napoli di rappresentare la
Nazione e di assumerne il governo, in caso di assenza o di imbecillità
del Sovrano, si fa risalire all’antico patto tra il Re e Nazione sul quale
si fondava la Monarchia. Questo privilegio si sarebbe dovuto ritenere ancora in
vigore, in quanto Carlo di Borbone con il manifesto del 1753 aveva conservato
alla Nazione i suoi privilegi, ricevendone in cambio il giuramento di fedeltà e
con l’atto di cessione del 5 ottobre 1759, aveva trasmesso al suo figlio
Ferdinando IV l’obbligo di osservare quei privilegi.
Pertanto, quando il Re si era allontanato da Napoli, la
nomina del Vicario venne ritenuta come abuso regio contro i diritti della
Città.
In effetti, la monarchia borbonica aveva perso l’antica
fisionomia di monarchia feudale temperata dai privilegi per assumere quella di
monarchia assoluta, perciò le pretese della Città, più che dirette a restaurare
un diritto esistente, erano sembrate che dessero adito alla instaurazione di
una sorta di repubblica aristocratica (v. Maturi W., Il Principe di
Canosa, Firenze, 1944, 16 ss.)
(5) Merita di essere ricordata la memoria scritta a difesa
del suo operato, in cui è evidente lo spirito polemista che caratterizza il suo
stile e la cultura giuridica rafforzata nell’esercizio della professione di
avvocato (a Napoli, li chiamavano e li chiamano tuttora “paglietta”)
precedentemente svolta: “Non v’ha dubbio alcuno, che la lettera di dimissione
scritta al signor Vicario Generale fu di vari giorni posteriore all’anarchia
accaduta. Dunque la lettera fu scritta quando il potere civile non esisteva
nelle mani del Vicario generale, anzi quando, cessato assolutamente tra tutti,
era veramente Civitas dissoluta, … Dunque, il generale Pignatelli, nel
momento in cui fu scritta la lettera, non era più nel fatto Vicario generale.
Dunque con la lettera non se gli venne a togliere se non ciò che aveva col
fatto già perduto. Dunque non venendo ad avere alcun affetto di fatto, non
poteva averlo neanche di diritto” (riportata da Maturi W., Op. cit.,
33).
(6) B. CROCE, Uomini e cose della vecchia Italia,
Bari, 1927, 242.
(7) GIOBERTI V., Gesuita moderno, Losanna, 1846, II,
325.
(8) TOMMASEO N., Dell’Italia, I, cap. VII.
(9) MAZZIOTTI M., L’esilio di Pietro Colletta in Austria, in
Nuova Antologia, 1° gennaio 1916, 4.
(10) VITALE S., Il Principe di Canosa e l’Epistola contro
Pietro Colletta, Napoli, s.d., 8
(11) MAZZINI G., La Giovane Italia, Roma, 1902, 99.
(12) Storia del reame di Napoli (1734 – 1825),
Capolago, 1834, I, 314: II, 16ss-; la colpa dell’adulterio si spiega forse
perché dopo aver sposato donna Teresa Galluccio, dei duchi di Toro, aveva avuto
relazioni con altre due donne che, però, si conclusero, appena il Canosa rimase
libero, con regolare matrimonio: precisamente, la seconda moglie, Anna
Orsellini, figlia di un cenciaio di Pisa, gli diede tre figli (due femmine ed
uno maschio); alla morte di questa (31 dicembre 1836), sposò a Pesaro Teresa
Gabellini di Roma, anch’essa di umili origini, alla quale era legato da
precedente relazione.
(13) Scritti storici, II, Nota: Il sistema del
Principe di Canosa, Bari, 1945, 121 ss.
(14) Op., cit., 244.
(15) Simile definizione era stata data a Metternich dal poeta
austriaco Grillparzer, come vicorda Bagger E., Francesco Giuseppe, Milano,
1935, 22.
(16) Op. cit., 281.
(17) Un dottore in filosofia e un uomo di Stato, dialogo
del Principe di Canosa sulla politica amalgamatrice, 1832, 15 seg.
(18) V. Epistola, cit., 133; per necessità
economiche, fu in seguito costretto a disfarsi dei suoi libri (v. Maturi W., Il
principe, cit., 146 n. 3).
(19) MATURI W., Op. cit., 136 n. 3.
(20) MATURI W., Op. cit., 155 seg..
(21) I Piffari di montagna ossia cenno estemporaneo di un
cittadino imparziale sulla congiura del principe di Canosa e sopra i Carbonari,
1820, 163.
(22) Si tratta di una lettera scritta dal Medici nel 1823, di
cui dà notizia B. Croce, Uomini e cose, cit., 246. 12
P
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Posted by altaterradilavoro on Gen 24, 2019
Le parole di Seneca nel De brevitate vitae suonano di grande attualità, sembrano scritte per l’uomo contemporaneo sempre preso dalle incombenze, dagli impegni. Un uomo grande («saggio» secondo il vocabolario del filosofo latino) non è estraneo alla vita e a se stesso, ma mette a frutto il proprio tempo.
Le parole di Seneca nel De brevitate vitae suonano di grande attualità, sembrano scritte per l’uomo contemporaneo sempre preso dalle incombenze, dagli impegni, sempre proteso in una dimensione in cui la vita, quella che si dovrebbe vivere e assaporare, è rinviata a un futuro che si crede di avere sempre a disposizione, mentre l’oggi è sempre occupato da mille impegni e lavori.
Scritto probabilmente dopo il ritorno dall’esilio (49 d. C.) e dedicato a un certo Paolino (forse Pompeo Paolino, prefetto dell’annona dal 48 al 55), il trattato approfondisce così un tema che è, in un certo senso, leit motiv di quasi tutta la produzione filosofica di Seneca.
Nel terzo capitolo Seneca scrive:
Sentirai i più dire: «Dai cinquant’anni mi ritirerò a vita tranquilla, il sessantesimo anno mi lascerà libero dagli impegni». E infine chi ricevi come garante di una vita più lunga? Chi permetterà che queste cose vadano come progetti? Non ti vergogni di riservarti i rimasugli della vita e di destinare ad un buon atteggiamento quel solo tempo che non potrebbe essere impiegato per nessuna cosa? Quanto è tardivo incominciare a vivere allora quando bisogna finire! Quale così stolta dimenticanza della mortalità rinviare ai cinquanta e sessant’anni le sagge decisioni e voler iniziare la vita dal punto al quale pochi l’hanno condotta».
Avrebbe notato Leopardi 18 secoli più tardi «che la tendenza a procrastinare la felicità al futuro sino a giungere al desiderio di conseguire la felicità dai posteri si accentua sempre più man mano che l’uomo cresce e si fa adulto ed è pressoché assente nel bambino. Questi non pensa che al presente e riesce a concepire il futuro solo come l’attimo immediatamente successivo al presente».
L’adulto, spesso, accantona il desiderio di essere felice, di vivere pienamente, si dimentica che l’unico tempo verbale davvero esistente è il presente, perché, come annota sant’Agostino nelle Confessioni, la memoria non è se non il presente del passato e la speranza è il presente del futuro.
La convinzione di Seneca è chiara. La vita non è breve, anche se uno dei maggiori filosofi dell’antichità, Aristotele (384 a. C. – 322 a. C.), sosteneva il contrario («La natura agli animali ha concesso tanto tempo che essi allevano cinque o dieci generazioni, mentre per l’uomo, generato per fini così numerosi e importanti, sussiste un limite tanto più ridotto»). Seneca polemizza anche con il più grande dei medici, ovvero Ippocrate (460 a. C. circa – 377 a. C.), secondo il quale «la vita è breve, lunga l’arte». Quindi, non soltanto il volgo, afferma Seneca, ma anche grandi menti sono cadute nell’equivoco che la vita sia breve. Eppure, ci è stata donata «una vita abbastanza lunga per «la realizzazione di grandissimi risultati» se soltanto la vita fosse spesa bene. Spendere bene la vita è il desiderio che dovrebbe animare ogni uomo. Ci ricordiamo di quanto desiderava Albert Schweitzer: «Una vita va spesa, vorrei che la mia fosse spesa e poi spesa bene».
Come l’uomo spreca la vita? Leggiamo ancora Seneca:
«Uno lo domina un’insaziabile avidità, un altro un’operosa attività tra inutili fatiche; un altro è madido di vino, un altro vive nel torpore per l’inerzia; un altro lo affatica l’ambizione sempre dipendente da giudizi altrui, un altro la precipitosa bramosia del mercanteggiare lo conduce con la speranza del lucro attorno a tutte le terre, a tutti i mari; alcuni li tormenta la passione della vita militare, sempre o impegnati nei pericoli per gli altri o ansiosi per i propri; ci sono alcuni che l’ingrato rispetto per i superiori logora in una volontaria schiavitù; molti li ha trattenuti o la ricerca della fortuna altrui o la lamentela della propria; i più, che non seguivano nulla di certo, una superficialità vagabonda e incostante e scontenta di sé ha sballottato attraverso nuove decisioni; ad alcuni non piace nulla verso cui dirigere la rotta, ma il destino li sorprende mentre marciscono e sbadigliano».
L’uomo spreca il proprio tempo, lo dilapida e arriva alla fine senza essersi accorto che la vita se n’è andata. Non è la vita a essere breve, ma siamo noi che la rendiamo tale cosicché alla fine «esigua è la parte di vita in cui viviamo». L’uomo è spesso lontano da se stesso, schiacciato dai vizi e dai beni, non riesce a guardare al fondo di sé alla ricerca del tesoro più prezioso. «Per quanti le ricchezze sono pesanti» oppure quante persone sono sempre impegnate a ostentare il proprio ingegno o impallidiscono per i piaceri in cui consumano il tempo. Preso com’è dalla cupidigia, di rado l’uomo riesce a «ritornare a se stesso», non si degna mai di guardarsi dentro, di ascoltarsi, di stare con se stesso. Ecco il paradosso dell’agire umano:
«Le persone non permettono che i propri poderi siano occupati da nessuno e se c’è una piccola contesa sulla misura dei confini, ricorrono ai sassi e alle armi: nella propria vita permettono che gli altri entrino, anzi in verità loro stessi fanno entrare addirittura i futuri possessori di essa. Non si trova nessuno che sia disposto a spartire il proprio denaro: la vita ciascuno a quanti la distribuisce! Sono impegnati nel conservare il patrimonio, non appena si è giunti alla perdita di tempo, sono molto prodighi in ciò di cui solo l’avarizia è onorata».
Sperperiamo il nostro tempo. Quante volte siamo stati coerenti con noi stessi, abbiamo davvero seguito un sogno, un desiderio, un progetto che avevamo nel cuore? Quanti giorni sono davvero trascorsi come avevamo pensato? Ciascuno di noi ha «meno anni di quanti ne conti». Quando abbiamo avuto davvero disponibilità di noi stessi? Presi da vani dolori, da sciocche letizie, da avide cupidigie, da oziose frequentazioni, dissipiamo il nostro tempo e moriamo prematuramente.
Quanta vita ha davvero vissuto anche quell’uomo che è arrivato fino ai cent’anni? Quanto tempo gli è stato portato via dal creditore, dall’amante, dalle liti con la moglie, dalle «punizioni degli schiavi», dal «correre in giro per la città per motivi di cortesia» e da un’infinità di altre ragioni! Siamo affaccendati in mille occupazioni, pubbliche e private, non ci preoccupiamo di noi stessi e di conoscerci. Così, anche quando fruiamo del tempo libero, finiamo per essere occupati da esso.
Seneca presenta una galleria di affaccendati illustri che consideravano il tempo libero, di cui non potevano usufruire, come il bene più prezioso: l’imperatore Augusto che desiderava l’esonero dalla vita politica nella speranza di poter godere il tempo per sé; Cicerone che malediceva il proprio consolato, si lamentava del presente e non aveva speranza per il futuro; Livio Druso, che rimpiangeva il fatto di non aver avuto vacanze neanche da piccolo.
Il monito di Seneca è sempre attuale:
«Vivete come destinati a vivere sempre, non vi viene mai in mente la vostra fragilità, non considerate quanto tempo è già passato; sprecate come da (un deposito) pieno e abbondante, quando nel frattempo forse proprio quel giorno che viene dato a qualche o persona o faccenda potrebbe essere l’ultimo. Come mortali temete tutto, come immortali desiderate tutto».
Un uomo grande («saggio» secondo il vocabolario di Seneca) non è estraneo alla vita e a se stesso, ma mette a frutto il proprio tempo.
Giovanni Fighera
fonte
http://lanuovabq.it/it/quanto-tempo-abbiamo-davvero-vissuto
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