Alta Terra di Lavoro

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Quando Pio IX voleva un’Italia unita e federale

Posted by on Nov 16, 2019

Quando Pio IX voleva un’Italia unita e federale

Il 1848 è l’anno delle rivoluzioni. A questa data sul soglio pontificio siede Pio IX. I moti del 1820-21, guidati dalle sette, si sono rivelati un flop. Lo stesso può dirsi dei moti del 1831. Qual è la posizione del nuovo papa? Pio IX è convinto che sia giunto il tempo di unificare l’Italia, senza spargimento di sangue e senza rivoluzioni: il suo desiderio è una Confederazione……….

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1799-1999 Repubblica Napoletana e Insorgenza antigiacobina

Posted by on Ott 29, 2019

1799-1999 Repubblica Napoletana e Insorgenza antigiacobina

1. Appunti di storia dell’Insorgenza / 9

Pubblichiamo la trascrizione — rivista dall’autore e annotata redazionalmente — dei due interventi che Francesco Pappalardo ha svolto in occasione della tavola rotonda 1799-1999 Repubblica Napoletana e Insorgenza antigiacobina. Fra modernizzazione politica e rivendicazione dell’identità del 27 marzo 1999 a Milano, di cui riportiamo più sotto una breve cronaca.

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IL MITO DI GARIBALDI E IL RISORGIMENTO CHE NON ABBIAMO STUDIATO

Posted by on Set 3, 2019

IL MITO DI GARIBALDI E IL RISORGIMENTO CHE NON ABBIAMO STUDIATO

Il genocidio italiano cancellato dai libri di Storia e dalla coscienza collettiva

Con lo sbarco dei Mille e le imprese eroiche di Giuseppe Garibaldi, patriota carismatico e di indubbio valore militare, amato dal popolo e relegato per sempre nell’Olimpo mitologico, è nata l’Italia, la nostra Patria.

Nessuno metterebbe in discussione un dogma nazionale tanto radicato nella nostra Cultura se non ci fossero prove, ormai evidenti, di un altro Risorgimento occultato, fatto di dolore, di crudeltà, di ferocia, ma soprattutto di fango. L’altra faccia di un’epopea i cui protagonisti principali furono partigiani ante litteram, briganti e banditi, milioni di innocenti a cui furono strappate, nel giro di pochi mesi, identità e dignità.  Una storia rimossa dai libri, cancellata dalle coscienze, epurata dei ricordi per non scalfire l’immagine di chi credette, forse in buona fede, chissà, di combattere per unire un popolo, e che invece si ritrovò a salvaguardare gli interessi di una ristretta élite, causando un grave mutamento economico-culturale attraverso cui  furono gettate le basi per il totalitarismo che devastò l’Italia e l’Europa nel XX secolo.

Il Sud prima dell’Unità d’Italia

Era la primavera del 1860. Erano passati più di settecento anni dalla notte di Natale del 1130, da quando il normanno Ruggero II di Altavilla, dopo aver sconfitto gli arabi e con l’appoggio di papa Anacleto II, divenne re di Sicilia, Puglia e Calabria dando vita al terzo stato più grande d’Europa, unificato, nel 1815, da Ferdinando II di Borbone. Seicento Natali e più erano invece trascorsi dalla salita al trono di Federico II di Svevia.

Il paese di Federico II era avanzato sotto ogni punto di vista intellettuale, artistico e politico. Era il centro del mondo, il catalizzatore di culture diverse tra loro, con una popolazione che parlava tre lingue, il latino, il greco e l’arabo e seguiva in pace fedi religiose differenti tra loro.

Con l’Università di Napoli era stato fondato il più importante polo culturale d’Europa e del Medioevo, un punto d’incontro  tra le tradizioni greca, araba ed ebraica. Fu proprio a Napoli, infatti, che nacque la Scuola poetica Siciliana, una corrente filosofica-letteraria che dette vita alla lingua romanza,  mezzo secolo prima della Scuola Toscana. Il fior fiore della Cultura e dell’Arte, si è detto, con la più alta percentuale di medici per abitanti e la più bassa percentuale di mortalità infantile d’Italia.

Dopo Federico II, il Mezzogiorno visse un periodo di prosperità con i Borbone, famiglia al quale appartennero sovrani quali Enrico IV, detto anche Enrico il Grande, e Luigi XIV, Le Roi Soleil, grandi protagonisti della Storia d’Europa.

Nel 1737 era stato creato il Teatro di San Carlo, il primo teatro lirico sul globo terrestre, e negli stessi anni istituita la prima cattedra di Economia al mondo. Furono costruiti castelli, fortezze, rocche, palazzi, luoghi di culto, ed emanate le prime leggi alla cui redazione lavorò Pier delle Vigne, il più grande maestro dell’Ars Dictandi. Venne realizzata la Napoli-Portici, il primo tratto di Ferrovia nel nostro Paese, aperto il primo istituto per sordomuti, creata la prima compagnia di navigazione a vapore di tutto il Mediterraneo e persino la prima fabbrica italiana per operai.

L’età dell’oro, venne chiamata quell’epoca.

La Storia ci racconta che, nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, Garibaldi partì da Quarto alla volta del Regno Duosiciliano a capo di un esercito di mille volontari, che poi mille non erano. Con l’occupazione di Palermo, il generale si ritrovò circa ventimila uomini al suo seguito, per lo più stranieri e malavitosi, ben foraggiati di armi e denaro, con i quali si mosse verso Napoli distruggendo tutto nel suo avanzare trionfante:  Calatafimi, Milazzo,  Palermo, Messina, Siracusa, Reggio, Cosenza, Salerno, Napoli.  Obiettivo: scacciare i Borbone ed unificare l’Italia.

Questo è ciò che ci è stato insegnato. Ed in effetti… tutto fu distrutto. Quello che non ci è stato detto, invece, è che il Regno delle Due Sicilie fu conquistato e a caro prezzo.

La spedizione dei Mille

Giuseppe Garibaldi nasce a Nizza da genitori liguri. A quattordici anni decide di arruolarsi come mozzo, deludendo le aspettative del padre che lo voleva dedito alla carriera di medico o avvocato. Dopo qualche decennio di esperienza sui mercantili, approda in sud America partecipando in prima persona alle guerre di indipendenza. Imprese che faranno la sua formazione e gli regaleranno l’appellativo di eroe dei due mondi. Tornato in Italia, Garibaldi si avvicina ai movimenti patriottici europei ed italiani ed entra in contatto con Giuseppe Mazzini.

Fu per scongiurare una reazione delle forze cattoliche davanti ad una possibile invasione degli Stati ancora appartenenti alla Chiesa, reazione che avrebbe distrutto la politica di Cavour – all’epoca presidente del Consiglio dei ministri – che il condottiero fu distratto dai suoi obiettivi internazionalisti e coinvolto in quella che avrebbe dovuto essere inizialmente l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte e alla Lombardia. I suoi ideali di libertà ed indipendenza,ma non solo quelli, lo spinsero a condurre la spedizione dei Mille in direzione Marsala, e ad assumere, in quel di Salemi, la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II, (Fonte Enciclopedia Treccani)il quale desiderava, più che l’unificazione nazionale, pagare i debiti contratti dal Piemonte.

O la guerra o la bancarotta” scrisse Pier Carlo Boggio, deputato alla Camera del Regno di Sardegna e braccio destro del Conte di Cavour

Vani furono gli sforzi di Re Francesco II per contrastare l’avanzata che, come si evince dall’immagine in basso, coinvolgerà buona parte degli Stati della penisola. L’ultimo baluardo borbonico a cadere, dopo Messina e Gaeta, fu la fortezza di Civitella del Tronto. Venne espugnata il 20 marzo 1861, tre giorni dopo l’incoronazione di Vittorio Emanuele II, a Re d’Italia.

Otto anni dopo la sua epica impresa, Garibaldi scriverà “gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio“.

Quel 1860 arrivò pertanto come una maledizione.  Furono cancellate dal Regno le istituzioni politiche e sociali, sventrato completamente il tessuto industriale e mercantile per favorire la crescita di un nord in miseria ed affamato, e senza alcuna attività economica avanzata. Depredato l’oro e l’argento del Banco di Napoli e del Banco di Stato di Sicilia – le casse contenevano circa 400 milioni di lire, una cifra impressionante per quell’epoca – smontati i macchinari di officine e industrie manifatturiere, meccaniche, cantieristiche, minerarie, siderurgiche, militari e ferroviarie e trasportati nei territori di Terni, La Spezia, Genova, Torino, Milano, Brescia e Bergamo. Tutto razziato per pagare i debiti del Piemonte e per finanziare patrimoni privati.  Sparirono in un colpo ministeri, ambasciate, la Zecca; 30mila posti di lavoro cancellati da un giorno all’altro. Furono annullati tutti gli accordi di scambio tra il regno borbonico e l’estero, costretto il sud ad importare dal nord, ma non viceversa, tanto che la lana abruzzese fu rimpiazzata con quella neozelandese. Fu introdotta la tassa sul macinato e persino per mangiare un agnello del proprio allevamento bisognava pagare un dazio. 22 nuove tasse introdotte contro le precedenti 5 imposte dai Borbone. Dulcis in fundo, il meridione, ormai in ginocchio, dovette accollarsi anche le spese di guerra.

Una conquista del Nord sulla pelle delle genti del Sud”, dichiarò Antonio Gramsci. Nel 1920, su Ordine Nuovo, scrisse: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”.

I desaparecidos italiani

5.212 condanne a morte, 500.000 persone arrestate, 62 paesi rasi al suolo, fucilazioni di massa, contadini morti di fame perché veniva impedito loro di recarsi nei campi a procurarsi del cibo, violenze disumane e stupri efferati dei quali vi risparmio i crudeli ed orripilanti dettagli. 

O si moriva di stenti o si finiva ammazzati, e spesso la seconda scelta appariva quella meno dolorosa. Un’alternativa era quella di darsi al brigantaggio. 

40mila deportati, delinquenti insieme ad innocenti, uomini di chiesa, contadini, intellettuali, ex soldati dell’esercito borbonico, civili accusati di brigantaggio, prigionieri politici, ex garibaldini disertori, lasciati morire deliberatamente di fame, sevizie, maltrattamenti inenarrabili,  segregati in campi di concentramento ante litteram dove la temperatura era quasi sempre sotto lo zero. A Fenestrelle, 1.350.000 mq di struttura a 2000 metri di altezza sulle Alpi cozie,  vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con il freddo polare  i prigionieri.

L’Armonia, un giornale piemontese dell’epoca, definiva così i prigionieri di Fenestrelle: “La maggior parte dei poveri reclusi sono ignudi, cenciosi, pieni di pidocchi e senza pagliericci. Quel poco di pane nerissimo che si dà per cibo, per una piccola scusa si leva e, se qualcuno parla, è legato per mani e per piedi per più giorni. Vari infelici sono stati attaccati dai piedi e sospesi in aria col capo sotto ed uno si fece morire in questa barbara maniera soffocato dal sangue e molti altri non si trovano più né vivi, né morti. E’ una barbarie signori”.

Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce”, recitava la scritta all’ingresso della struttura, 80 anni prima di Auschwitz.       

Vi entrarono in migliaia. E in migliaia scomparvero nel nulla, forse disciolti nella calce viva per cancellarne il ricordo e la memoria. Di tale obbrobrio non vi sono prove ufficiali, e gli autori revisionisti che hanno definito Fenestrelle un campo di concentramento hanno incontrato un fervido quanto improbabile debunking a smentire ogni tesi, ma presso lo Stato Maggiore dell’Esercito si conservano 150.000 pagine che contengono la verità, ancora e stranamente protetta dalla censura di guerra. Dopo oltre 150 anni.

Sul muro della struttura intanto campeggia in bella vista una targa abusiva e mai rimossa che commemora le vittime. E “I pochi che sanno s’inchinano”.

Tacciati di inciviltà e bollati come selvaggi, gli abitanti del Sud, definiti una razza inferiore, dovevano essere annientati. Il folle disegno era appoggiato dalla ‘alta scuola’ del criminologo Cesare Lombroso, medico, antropologo, sociologo, filosofo e giurista – un genio insomma – sostenitore accanito delle follie teoriche della Frenologia che, visitando la Calabria per poche settimane, si convinse di conoscere tutto sui meridionali. Grazie inoltre ad una legge promossa dall’aquilano Giuseppe Pica (da cui il nome), che il 15 agosto 1863 introdusse il reato di brigantaggio, fu resa legale ogni forma di violenza e permesso che un tribunale militare giudicasse, senza cognizione di causa,  chiunque e senza un regolare processo. Chi si ribellava veniva seviziato e alla fine sepolto  vivo e senza alcuna lapide affinché non vi fosse traccia dei crimini compiuti.

Il caso più eclatante accadde a Bronte, nel catanese. Sperando nelle terre promesse da Garibaldi e nell’aiuto dei Mille, in paese scoppiò una sommossa di contadini. Garibaldi inviò Bixio a reprimerla – lo stesso che aveva rubato le navi per la spedizione – con un processo sommario durato poche ore, che si risolse con l’esecuzione di 150 cittadini tra cui il sindaco del paese, completamente innocente, e persino un giovane demente.

A Gaeta, negli anni ’60, durante gli scavi per la costruzione di una scuola media, furono rivenuti 2000 cadaveri di soldati borbonici e gente comune. E chiuso ancora una volta il sipario.

Mezzo milione di persone sparite, volatilizzate, e paesi interi come Contessa Entellina, Ustica, Cefalù, Corleone, Palazzo Adriano, Trabia, Gibellina, Vallelunga, Alia, Sambuca, Gibellina, Caccamo, Bisacquino, svuotati dei loro abitanti.  (Fonte: Storia vera e terribile tra Sicilia e America di Enrico Deaglio)

O briganti o emigranti!

Dal 1870 al 1913, furono imbarcati sui velieri diretti al ‘nuovo mondo’, chi con la forza e chi con l’inganno, milioni di italiani per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero e nei campi di cotone al fine di rimpiazzare i neri finalmente liberati. Una delle più grandi truffe perpetrate ai danni di una popolazione intera dai governi moderni. Lì, ad accoglierli, miseria, soprusi, fatica e linciaggi a morte.

O briganti o emigranti era il motto. In effetti, di armate brigantesche post-unitarie ne nacquero a centinaia, appoggiate incondizionatamente dalle popolazioni civili, e alla cui ferocia l’esercito sabaudo rispose con brutali rappresaglie che colpivano familiari fino al terzo grado di parentela.  Solo in Abruzzo, terra che non fu risparmiata dall’eccidio, se ne contavano 39 di bande.

Quando il governo sabaudo cominciò ad avere difficoltà a placare le sommosse che scoppiavano continuamente nelle prigioni, sorvegliate ormai dalle poche truppe restanti al nord, poiché la maggior parte era concentrata a reprimere il brigantaggio nel meridione, fu decisa una sorta di “soluzione finale”: la deportazione dei prigionieri in un’isola portoghese in mezzo all’Oceano Atlantico. Al rifiuto del Portogallo, i sabaudi tentarono di trovare accordi con altri governi, in particolare con l’Argentina per la concessione della Patagonia, un territorio desertico e totalmente inospitale che avrebbe dovuto ‘accogliere’ i prigionieri, ma fortunatamente il piano non poté essere attuato.

Sette secoli di splendore andati perduti

Il piemontese Alessandro Bianco di Saint Jorioz, capitano nel Corpo di Stato Maggiore Generale che prese parte alla distruzione del Regno delle Due Sicilie scrisse:  “Ero convinto di combattere la povertà dei coloni agricoli, la rapacità e la protervia dei nobili, l’ignoranza turpe, la superstizione, il fanatismo, l’idolatria, la sregolatezza dei costumi, l’immoralità, le corruttele di  impiegati, magistrati e pubblici funzionati, la rapina, il malversare. Insomma: il male. Questo, mi avevano raccontato, era il Sud. Quel popolo invece era, nel 1859, vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comprava e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto».

Un divario fra Nord e Sud tutt’ora non sanato ed iniziato proprio con l’Unità d’Italia. Un declino inarrestabile che inizialmente sembrò trovare sollievo grazie all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, definitivamente chiusa nei primi anni ’90, ma che finì di incrementare la criminalità organizzata. O forse servì proprio a creare una sorta di alleanza tra questa e Stato.

Questa è l’altra faccia del Risorgimento, quella che si deve tacere per evitare di essere politicamente scorretti. Un genocidio cancellato non soltanto dai libri di Storia ma anche dalla coscienza collettiva; un’onta talmente infamante che il figlio stesso di Garibaldi, Ricciotti, venuto a conoscenza dei fatti, si schierò dalla parte dei briganti. La pronipote Anita, durante la trasmissione Porta a Porta condotta da Bruno Vespa, conferma il fatto: ”Mio nonno si indignò talmente tanto dello sfruttamento del Meridione da parte della nuova Italia, che andò a combattere con i briganti”.

Italiani contro italiani, fratelli contro fratelli

Non c’è in questo scritto alcuna intenzione di generare imbarazzo tra popoli con la stessa bandiera e la stessa lingua, né quella di attentare alla vita del giovane ed ignaro Savoia trasferito da poco in Italia, giammai. Tanto meno intendo svilire ciò che è stato il mito di Garibaldi per la mia generazione. Vorrei piuttosto contribuire, con quelle che sono le mie conoscenze, ricavate da letture e da lunghe ricerche personali e approfittando dei nuovi mezzi di comunicazione, a ridisegnare i contorni di un genocidio che meriterebbe almeno un giorno di commemorazione.

Accendere i riflettori su una verità storica insabbiata è un atto di democrazia o, se mi è consentito, di onestà intellettuale. Gli eroi a cui intitolare piazze, ponti e strade sono certamente altri.

di Alina Di Mattia

Bibliografia:

  • I Viceré”, Federico De Roberto
  • “II brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863”, Alessandro Bianco di Saint Jorioz  
  •  “Terroni”, Pino Aprile
  • “I Savoia e il massacro del Sud”,  Antonio Ciano
  • “L’identità ferita”, Massimo Viglione
  • “Risorgimento da riscrivere”, Angela Pellicciari
  • “Tra Sicilia e America”, Enrico Deaglio
  • Desir d’Italie”, Jean Noel Schifano

fonte https://ilfaro24.it/il-mito-di-garibaldi-e-il-risorgimento-che-non-abbiamo-mai-studiato/?fbclid=IwAR16b7Sxc69IeiudfIG2f-qzouLVGxIFJzgd1GiXfaVCFl7Sj3x2C1lx8CE

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Contro i giacobini al grido di Viva Maria!

Posted by on Set 2, 2019

Contro i giacobini al grido di Viva Maria!

Una pagina davvero poco conosciuta della storia delle Insorgenze controrivoluzionarie che tra il 1796 e il 1799 infiammarono tutta la Penisola, per opporsi all’invasione francese e all’insediamento di governi rivoluzionari guidati da traditori giacobini locali. La rivolta dei “Viva Maria”, in Toscana, testimonia che l’elemento propulsore e unificatore delle sollevazioni popolari scoppiate i tutti gli Stati preunitari fu la difesa della Religione Cattolica e dei troni tradizionali. L’articolo che segue è firmato da Massimo Viglione, docente presso la cattedra di Storia Moderna dell’Università di Cassino, autore e curatore di numerosi testi sulle insorgenze del 1799, ed è apparso sul numero di gennaio 2008 del mensile Radici Cristiane.

La conoscenza della storia della grande rivolta anti-illuminista prima, antigiacobina poi, in una parola, controrivoluzionaria, avvenuta in Italia durante gli anni della Rivoluzione Francese e dell’invasione napoleonica, va ormai sempre più affermandosi nonostante la congiura del silenzio di cui per decenni e decenni è stata vittima. Questo anche grazie a tutta una serie di pubblicazioni e al succedersi di innumerevoli convegni tenutisi in ogni angolo della Penisola, soprattutto a partire dal bicentenario di tali eventi (1996). Tutta la Penisola insorse contro l’invasore napoleonico, venuto a imporre con le baionette e la ghigliottina le idee di democratismo repubblicano e laicismo anticattolico della Rivoluzione Francese. Gli italiani insorsero a difesa della propria civiltà, allora monarchica, sacrale e profondamente cattolica. Insorgenze controrivoluzionarie vi furono in tutti gli Stati preunitari, al grido collettivo di “Viva Gesù”, Viva Maria”, “Viva il Papa” o “l’Imperatore” o “il Re”, “Viva san Pietro”, ecc., al seguito sovente di stendardi regali e imperiali o di immagini sacre della Vergine o dei santi, a volte guidate da sacerdoti ed ecclesiastici (fra cui il celebre cardinale Ruffo, a capo dell’”Armata Cristiana e Reale della Santa Fede” nel Meridione). Si trattò di rivolte popolari e spontanee, causate della guerra che la Rivoluzione, precipitata in Italia con la sua tipica violenza e intolleranza, aveva portato contro la Chiesa, la Fede e i legittimi secolari governi (oltre che contro le tasche degli italiani, e contro i loro inesauribili tesori artistici). Si calcola oggi che insorsero in armi contro i francesi e i giacobini locali fino a 300.000 italiani, e ne morirono non meno di 100.000! Una epopea del nostro popolo tanto gloriosa e tragica quanto sconosciuta. Il perché è facile da capire per chiunque: gli italiani di quei giorni insorsero… dalla parte sbagliata… contro il “progresso” laicista in difesa della tradizione cattolica e della Chiesa. Pertanto, hanno meritato il silenzio della storia. Le prime insorgenze Ad Arezzo e in Toscana, nel 1799, si svolse una delle pagine più gloriose di tutta la storia della Controrivoluzione italiana. Premettiamo che i toscani furono i primi della storia italiana ad insorgere contro i lumi del “progresso” che venivano dalla Francia di Voltaire e Rousseau. Ciò accadde ancor prima del 1789, quando un vescovo eretizzante, il giansenista Scipione de’ Ricci, tentò per ben due volte (‘87 e ‘90) nella sua diocesi di Prato e Pistoia di abolire il culto delle reliquie, il culto pubblico alla Madonna, tolse gli altari laterali nelle chiese, e tentò perfino l’avventura dello scisma da Roma. Fu entrambe le volte riportato ai miti consigli dalle popolazioni toscane, che non esitarono ad assaltare la diocesi, fino a costringerlo alla fuga definitiva. Nel 1796 arrivarono poi i napoleonici, ma non invasero immediatamente il Granducato di Toscana (al contrario di quanto accadde agli altri Stati della Penisola). Questo fu di fatto conquistato per ultimo, solo nella primavera del 1799, proprio mentre tutto il resto della Penisola, sotto il tallone francese (eccetto il Triveneto), insorgeva in armi contro l’invasore. I napoleonici, appena insediatisi a Firenze e ovunque nel Granducato, iniziarono la loro usuale politica di spogliazioni economiche indiscriminate e di fiscalismo esorbitante. né vennero meno alla costante usanza di rubare le meraviglie dell’arte dalle chiese, dai palazzi e dai musei. Inoltre, neanche in Toscana mancarono le offese alla fede, gli oltraggi alle chiese e al clero, la politica di laicizzazione dello Stato. Per qualche settimana i toscani sopportarono. Poi in aprile vi furono le prime insorgenze sparse localmente in alcune città. prime scintille del grande fuoco che stava per divampare. Ma l’esplosione doveva avvenire ad Arezzo, e fu un’esplosione che portò alla Controrivoluzione generale e alla riconquista del Granducato. La Vergine del Conforto e i “Viva Maria” Arezzo era una città particolarmente legata ai Lorena (a differenza di tante altre zone toscane nostalgiche dei Medici), i quali l’avevano sgravata delle sovrattasse medicee, ed avevano iniziato la bonifica della Val di Chiana. Ma soprattutto gli aretini erano fortemente religiosi, e questa loro devozione si era accresciuta particolarmente dal 1796, quando il volto di un’immagine della Vergine, conservata nel Santuario della Grancia, ospizio dei Padri Eremitani di Camaldoli a Porta San Clemente, fu visto irradiare luce, da nero divenendo bianco, durante un pellegrinaggio effettuato il 15 febbraio 1796 con lo scopo di ottenere la grazia della sospensione delle scosse di terremoto che si erano succedute negli ultimi giorni. L’immagine fu subito intronizzata nella cappella centrale del Duomo (dove è ancora oggi), e le fu attribuito il titolo di “Madonna del Conforto”. Quando Arezzo venne occupata ai primi di aprile dai francesi e cisalpini, iniziarono subito gli insulti alla religione cattolica, e in più si obbligavano tutti gli abitanti a portare la coccarda tricolore, ai canonici si proibiva di indossare il loro colore distintivo, il paonazzo, si atterravano gli stemmi gentilizi dalle case, le iscrizioni ed ogni altro segno di distinzione, si ponevano giansenisti nelle cariche pubbliche, arrivando perfino ad arruolare forzatamente il clero nella guardia nazionale, anche nelle mattine di festa! Si può facilmente immaginare lo stato d’animo degli aretini. La notte del 5 maggio tutte le colline antistanti la città erano piene di fuochi, sia per festeggiare il genetliaco di Ferdinando III, sia per la notizia dell’avvicinamento degli eserciti austro-russi. La mattina del 6 maggio centinaia di contadini erano entrati in città con intenzioni non molto pacifiche. Verso le ore otto accadde l’episodio decisivo: dalla Porta di Santo Spirito entrò una carrozza, guidata da un vecchio contadino, sulla quale sedeva una signora con in mano una bandiera imperiale austriaca; alla vista della bandiera la gente iniziò ad urlare “Viva Maria!”; la carrozza fece un rapido giro per la città, fomentando ovunque l’entusiasmo, e quindi uscì da dove era entrata. Rapidamente si sparse la voce che sulla carrozza vi erano San Donato e la Vergine del Conforto in persona; tanto bastò a far iniziare senz’altro l’insorgenza. Immediatamente fu abbattuto ed incendiato l’albero della libertà, al posto del quale fu innalzata una croce, liberati i prigionieri, arrestati i giacobini, rialzate le armi granducali, e tutta la città si adornò di bandiere toscane, pontificie ed austriache, mentre le campane suonavano a martello ovunque per invitare i contadini alla controrivoluzione. I francesi tentarono una formale resistenza, ma dopo un breve scambio di fucilate, che procurarono due morti e numerosi feriti, abbandonarono velocemente la città. Arezzo rimase così in mano agli insorgenti, e il 7 maggio, dopo una solenne cerimonia di ringraziamento nel Duomo ed una processione nella quale furono portati oltre alle sacre immagini i ritratti del Granduca e della consorte, fu eletta una Giunta Civile. Le forze degli insorti furono divise in compagnie ciascuna di 130 uomini, più un corpo di cavalleggeri, formato per lo più da giovani aristocratici. Il piccolo esercito improvvisato divenne in breve un esercito vero, per via della ferrea organizzazione militare e logistica. Si fecero anche delle bandiere, che avevano i colori regolamentari delle truppe granducali e dello Stato toscano: il cam po giallo circondato di nero o quello bianco circondato di rosso, mentre le scritte erano sempre dedicate o alla Vergine del Conforto, proclamata ufficialmente “Generalissima dell’Armata”, o a San Michele Arcangelo, “Protettore del nostro paese, in atto di fulminare il demonio”. Gli uomini senza uniforme indossavano la coccarda, il “brigidino” rosso-bianco o giallo-nero con l’immagine impressa sul petto della Vergine del Conforto e dell’aquila bicipite imperiale, dalle due teste coronate. Nei momenti di massi mo sforzo militare, l’esercito controrivoluzionario giunse a contare circa 38.000 uomini, reclutati per lo più fra gli abitanti del territorio aretino e di quelli circostanti, ma non si arrivò mai ai criteri di una leva di massa. Era pronto l’esercito per la riconquista del Granducato! La riconquista del Granducato Lo stesso giorno del 6 maggio insorse anche Cortona, ove fu abbattuto l’albero della libertà, imprigionati i francesi ed iniziata una caccia al giacobino; quindi i contadini della Val di Chiana, del Casentino, delle alture della Verna, che armi in pugno inseguivano per le vallate i francesi ed i giacobini; saputo ciò, gli aretini si misero in marcia per raggiungere i luoghi delle rivolte. In poco tempo ad Arezzo convenne un esercito di 18.000 uomini, il cui comando supremo fu assegnato al cavaliere gerosolimitano G.B. Albergotti. Gli insorgenti non tardarono a passare ai fatti. Si assalì e conquistò Cortona, quindi si marciò su Siena, che fu presa d’assalto. Nel frattempo insorgevano in armi decine e decine di cittadine ed intere vallate, come il Casentino, la Val d’Orcia, la Val d’Orbia, la Val di Chiana e la Val d’Arno. Dopo la conquista di Siena, l’intero Granducato era ormai insorto in armi, e ogni cittadina esortava gli aretini ad arrivare e prendere possesso della municipalità. Così, di città in città, l’ “Inclita Armata della Fede” (così venne chiamata) giunse in poche settimane a marciare su Firenze, mentre i francesi fuggivano miseramente verso il Nord. Il 7 luglio, al grido di “Viva Maria!”, l’Inclita Armata entrò in trionfo nella capitale. Vittorio Alfieri, attesta in una sua lettera che l’entusiasmo era alle stelle, e grandi furono i festeggiamenti. Generosi fino in fondo Riconquistato il Granducato, gli aretini avrebbero potuto godersi la loro gloria in pace in attesa del ritorno dei Lorena. Invece decisero di non sciogliersi, e continuare la guerra di liberazione nello Stato Pontificio. Dapprima riconquistarono molte città dell’Umbria, poi volsero verso Viterbo, infine verso Roma, ove parteciparono alla riconquista, avvenuta il 30 settembre, della Città Eterna insieme alle truppe della Santa Fede del Cardinale Ruffo e agli inglesi. Alla fine del 1799 l’Italia era libera dai francesi: si tratta della più gloriosa pagina della storia nazionale degli italiani. Nel 1800 però Napoleone, con la vittoria di Marengo, ricominciò la progressiva conquista della Penisola. Allora gli aretini tornarono di nuovo in armi per altri due anni, combattendo eroicamente contro i napoleonici. Ma, come è noto, nella vita certe cose… “riescono una volta sola”… e così questa ultima rivolta andò a finire nel 1801 senza un esito positivo. Rimane però la gloria che il popolo aretino si è per sempre conquistato con il suo eroico e disinteressato servizio alla causa della Chiesa e della civiltà cristiana in Italia. Rimane anche il dispiacere che in tutta Arezzo non vi sia una Piazza o via o anche un semplice monumento a memoria di tutto questo: vi era stato posto dalla precedente giunta di centro-destra in occasione del bicentenario, ma l’attuale, di centro-sinistra, ha pensato bene di toglierla. Il silenzio deve continuare…

fonte http://www.editorialeilgiglio.it/storia-1799-contro-i-giacobini-al-grido-di-viva-maria/

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Chi fu Garibaldi? Un negriero, un grande nemico del Meridione,della Chiesa, dell’Italia.

Posted by on Ago 4, 2019

Chi fu Garibaldi? Un negriero, un grande nemico del Meridione,della Chiesa, dell’Italia.

Quando si parla di Risorgimento, di unità politica dell’Italia, l’eroe che viene alla mente è senza dubbio Giuseppe Garibaldi. Per decenni la sua figura è stata celebrata, osannata, sino a farne una sorta di santo laico, da porre sull’altare della patria, a cui dedicare poesie, strade, pazze e statue equestri: al fine di dare, ad un paese che aveva voluto tagliare i conti, in quattro e quattr’otto, col passato, un mito fondativo sufficientemente romantico e affascinante.

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