Posted by altaterradilavoro on Mar 10, 2019
Sylvain
Bellenger, direttore della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte,
ha organizzato, con la collaborazione del texano The Edith ‘O Donnell Institute
of Art History, il “Centro
Studi per la Storia dell’Arte e dell’Architettura delle città portuali”.
Un centro internazionale che, nato nel settembre scorso, in un edificio
borbonico nel Real Bosco, chiamato la Capraia, lunedì ha
fatto la sua prima relazione pubblica. L’argomento: “Abitare un fondaco al Cavone.
Dall’archivio alle fonti orali, tracce e memorie della cultura popolare”.
Due i relatori: la
professoressa Brigitte
Marin, che, docente di Storia Moderna all’ Aix-Marseille
Université, è onusta di altri prestigiosi incarichi, e Marcello Anselmo,
storico contemporaneista, ricercatore nella stessa università marsigliese e
autore di réportages e
di studi sociali sulle città dell’Europa Meridionale.
La
professoressa Marin ha iniziato parlando del suo condiviso metodo di
studio: definire un fenomeno urbano risalendo alle sue origini
storiche, attraverso la ricerca e l’attenta lettura di documenti di archivio.
In più, la professoressa dimostra di tener conto anche degli scritti di altri
studiosi sull’argomento, rifacendosi al compianto Giuseppe Galasso (1929/
2018), storico accademico e importante politico che, come tale, aveva dovuto
attenersi a una considerazione del passato napoletano soprattutto quale causa
dei mali presenti, secondo la prassi solita di ogni governo.
La
Marin, quindi, riferisce di Galasso l’affermazione che i problemi della città
vengono dal passato e che la difficile situazione abitativa in cui versa il popolo
è “la continuità di un
problema irrisolto”. In realtà, durante il governo spagnolo,
quando Napoli era capitale di una delle Spagne, qui ci fu uno straordinario
aumento del numero degli abitanti che, dai 40.000 esistenti durante il
precedente governo aragonese, passarono a centinaia di migliaia.
Nel frattempo, furono costruite nuove mura, mentre veniva
emanato il divieto di costruire fuori dalla loro cinta. Di conseguenza, i
palazzi si innalzarono tanto che ai visitatori dell’epoca Napoli apparve come una
città di grattacieli. E piacque. Ma esistevano ancora, al suo interno, i giardini delle case nobiliari e
dei monasteri e c’era la vista amena delle verdi colline.
L’aumento
demografico continuò anche dopo la terribile peste del 1656, per la quale morì
– si dice- metà della popolazione, tra cui anche artisti famosi come Massimo Stanzione e Battistello Caracciolo.
Dal Seicento la
professoressa riporta l’uso fatto da uno scrittore francese in visita a Napoli,
della parola “fondachiera”,
per indicare la povera gente abitante dei fondaci napoletani, detta, poi,
“plebe” e “gentaglia”. Nello stesso periodo (è forse interessante notarlo), un
napoletano di genio come Gianlorenzo
Bernini, che era stato chiamato da Luigi XIV per
costruire il “Palazzo
del Re”, veniva continuamente criticato dalla Corte e dal Colbert,
Controllore Generale delle Finanze del Regno, e poi era ignominiosamente
rimandato a casa. Così il “Palazzo del Re”, il Louvre, oggi ha le forme
classiche della colonnade di Claude Perrault.
Delle
incomprensioni e dei contrasti tra il razionalismo dei francesi e il
naturalismo libero e ardito del Bernini riferì, nel suo diario, Paul Fréart de Chantelou,
Mastro di Casa del Re, rivelandosi amico dell’artista italiano. Il che dimostra
che ancora perdurava in Francia, nella seconda metà del ‘600, l’ammirazione per
la creatività nostrana, ma stava per nascere, da un estremo razionalismo
cartesiano, quell’illuminismo che si esprimerà, più di un secolo dopo, nel
neoclassicismo giacobino.
Del suo lavoro di
ricerca sul fondaco del Cavone, la professoressa Marin non nasconde le
difficoltà. E ricorda come un colpo di fortuna, ma fu premio al suo impegno,
l’essersi imbattuta nei documenti relativi ai monasteri scomparsi. Tra questi
c’è il monastero
femminile di santa Monica, nato come tale nel 1646 da un
conservatorio del 1628.
Nell’insula,
intorno al monastero, le monache costruirono un complesso di abitazioni
modeste, il Fondaco del Cavone appunto, che dettero in fitto a basso prezzo a
gente che aveva scarsi mezzi economici. Fu speculazione o beneficenza? L’uno
e l’altro probabilmente, secondo i casi – suggerisce la professoressa. Che,
citando i documenti, riferisce di numerosi interventi di manutenzione e decoro
fatti, per queste abitazioni, nel Seicento e nel Settecento, che poi, nella
seconda metà dell”800, vennero a mancare, determinandone il degrado.
Ma la
situazione di degrado esistente in questo periodo storico riguardò tutta la
città, e fu quello che Matilde
Serao descrisse ne “Il ventre di Napoli”.
Che non fu soltanto delle sue strutture materiali. Precedentemente, nel
Settecento, invece, la maggior parte dei visitatori, notoriamente Goethe ma non
solo, avevano considerato il popolo napoletano, compresi i poveri,
libero e felice.
Era ammirato il suo
essere “picturesque”,
termine inglese che allora sorse per connotare ciò che è veracemente originale
ed è amabile per la sua diversità. Ma poi, appunto nella seconda metà
dell”800, la povertà diventò miseria. Mentre, come dice la Marin, spesso il
sorriso divertito dei turisti diventava
una sorta di sprezzante ironia. Siamo negli anni successivi
all’unità d’Italia. Il degrado delle abitazioni e dei relativi servizi portò
all’emergenza sanitaria. A Napoli scoppiò il colera. E, di conseguenza, si
giudicò necessario procedere alla bonifica del suo centro e del suo sistema
fognario attraverso quello che fu detto il Risanamento oppure “lo sventramento”.
Che diventò “la più estesa trasformazione urbanistica che la città storica
abbia conosciuto”- ricorda, intervenendo nel colloquio instauratosi tra i
relatori e il pubblico, un architetto, esperto urbanista.
È il professore Italo Ferraro, già
docente alla Federico II e autore di un atlante in 12 volumi (edizioni Oikos),
che racconta la storia di Napoli nella sua concreta realtà edilizia. Da cui si
evince, non come semplice ipotesi ma come indubitabile testimonianza,
l’eccezionale continuità storica dell’antica città partenopea.
Una
continuità che ha fatto si che Napoli, che non è “una città con un porto” costruito
successivamente (come Atene), ma una città-porto fondata da greci marinai,
abbia potuto mantenere
l’impronta delle sue origini marine, nell’organizzazione
sociale, nella filosofia e nell’arte.
Infatti
le antiche lcittà costiere greche, come Neapolis, Palepolis, o Elea, la patria
di Parmenide, modellarono
la loro organizzazione sociale tenendo conto
dell’esperienza che ne avevano fatto sulla nave prima di stanziarsi
sulla costa. Sulle antiche navi, non si eleggevano quali capi i
politici-oratori. Ma era capo il nostromo (cubernetes in greco, gubernator in
latino), il governatore, che otteneva la sua legittimità dando prova delle sue
reali capacità. E ognuno dei marinai aveva le mansioni relative alle proprie
possibilità, il che non comportava la sanzione di una superiorità degli uni
sugli altri, perché era evidente il fatto che si era tutti sulla stessa barca:
una paritaria società di disuguali.
Così,
alla caduta dell’impero romano, Napoli fu, per molti secoli, guidata da un dux
con le funzioni di governatore, e fu un ducato. Finché, dopo l’esperienza
normanna, la città non conobbe gli Angioini, che la resero capitale di un
Regno. E fu il
centro conservatore di una cultura anomala, invisa agli
accademici e temuta dalle Autorità. Una corrente filosofica diversa da quella
classica improntata al razionalismo socratico-aristotelico. Fu l’empirismo
contro il razionalismo, l’esperienza contro lo scientismo, la libertà di vivere
contro l’eccessiva regolamentazione, contro la cosiddetta normalità.
Un fil
rouge lega il filosofo marinaio Parmenide, di cui si
era impadronito Aristotele travisandolo,
al filosofo naturalista Bernardino
Telesio, a Giovanbattista
della Porta e alla sua associazione dei Secreti,
accusata di occultismo, fu chiusa per ordine papale, a Tommaso Campanella,
torturato e imprigionato, a Giordano
Bruno, bruciato vivo in Campo dei Fiori, agli Investiganti
seicenteschi, al principe
di Sansevero, mago lo dissero e non scienziato quale
fu, a misconosciuti uomini geniali, come Giacinto De Cristofaro, chiuso in
prigione per molti anni, e a tanti altri ancora.
Tra i quali,
presumibilmente, quelli di cui è stata completamente cancellata la memoria.
Questo fil
rouge ci conduce a Gian
Battista Vico. Negli scritti di questo grande filosofo
napoletano si legge una concezione del tempo e dello spazio che ci riporta al
marinaio Parmenide.
Il
tempo, per Vico, non è un’entità unidirezionale e la realtà non è statica ma è
ritmo che si muove ritornando su se stesso, come il mare.
Come la musica napoletana che nutrì il mondo dai tempi di Nerone a quelli di
Paisiello. E lo spazio, per Vico, non è quello definito dalla geometria
cartesiana ed euclidea. Ma è quello che si apprende “con una mescolanza di
corporeità e di pensiero”.
Certamente
anche la gente di mare nella mente non poteva avere lo spazio euclideo ma
quell’ampio spazio marino che si conforma alla curva linea dell’orizzonte e
alla volta del cielo. È un’immagine espressa anche nell’arte figurativa
napoletana. E che è ben diversa da quella dello spazio-scatola a tre
dimensioni che Euclide teorizzò,
pubblicandolo nel 300 a. C., e che viene realizzato dal 1400 in poi, per mezzo
della classica prospettiva toscana. Che è la prospettiva per antonomasia,
l’unica accettata accademicamente e considerata reale, sebbene,
precocemente, L.
B. Alberti la avesse definita artificialis, cioè
meramente astratta. Eppure quella pittura napoletana che non si attiene alle
sue regole è stata spesso considerata arretrata o errata.
Erwin Panofsky, nel suo famoso libro
“La
prospettiva come forma simbolica”, riferisce della realizzazione
dello spazio sulla curva superficie dei vasi magnogreci del IV secolo a C. e di
una prospettiva simile a quella canonica (ma erroneamente realizzata) in alcuni
affreschi pompeiani. Di errori di prospettiva hanno parlato ancora i dotti
riferendosi alle vedute napoletane del Settecento. Non si tratta di errori ma
di una prospettiva diversa che nel Settecento ha raggiunto la sua piena
espressione, tanto da poter essere oggi tradotta in computer grafica.
È la prospettiva di
quello spazio che la gente di mare aveva nel cuore e nella mente: la prospettiva napoletana.
(cfr. “Lo
spazio a 4 dimensioni nell’arte napoletana. La scoperta di una prospettiva
spazio-tempo” ed T. Pironti). Uno spazio attualissimo, coerente a
quest’epoca di imprese spaziali, mentre la prospettiva toscana del ristretto
spazio-scatola è contestata da tempo. Nei dipinti napoletani considerati
sbagliati, c’è la visione
di uno spazio in movimento, che è visto da più punti di vista e
ha quattro dimensioni. Napoli ha intuito da sempre quello che la scienza ha
teorizzato soltanto nei primi anni del Novecento, con Albert Einstein, che
d’altronde ha scritto: “Le
origini del nostro pensiero sono nella Magna Graecia”. La
prospettiva non è soltanto un fatto pittorico: essa rispecchia la mentalità,
ovvero la struttura del pensiero, del pittore-autore, ma anche del suo ambiente.
E la prospettiva napoletana.si basa sui plurali punti di vista di una società
coesa, che danno concretezza a uno spazio iperbolico.
La
persistenza nell’arte figurativa degli stessi caratteri si apparenta alla
persistenza delle stesse famiglie nei quartieri popolari napoletani, come
il Fondaco del
Cavone. Famiglie che costituiscono una società coesa, con gli
stessi modi di pensare, di sentire e di atteggiarsi. Di questa società racconta
l’accurata indagine fatta sul posto dall’attento studioso Marcello Anselmo, che
ha intervistato persone e ha filmato interviste e luoghi, indagando su
importanti fenomeni ma anche su particolari, apparenti minuterie del modo di
vivere del popolo povero, e così ricostruendone la vita.
Tutto questo è reso noto ora al pubblico nella vivace relazione
dello studioso. Che chiarisce come la densità demografica del Fondaco del
Cavone si sia andata via via accentuando. Già era accaduto dopo “lo
sventramento” operato dal Risanamento del centro storico della città, un luogo
densamente popolato, i cui abitanti, quindi, dovettero trasferirsi altrove.
Di questi, mentre i più ricchi occuparono i nuovi appartamenti e quelli di
media fascia andarono ad abitare al Vomero, i poveri andarono ad addensarsi nei
luoghi già sovraffollati come i fondaci. Le condizioni degli abitanti
peggiorarono.
Tuttora
la densità
demografica tende ad aumentare, perché, a volte, pur potendosi
trasferire altrove, i giovani sono rimasti qui, accanto ai genitori, ai nonni,
agli zii e agli amici di sempre. E anche coloro che si erano allontanati,
andando ad abitare le case nuove della periferia, ritornano qui, nella vecchia
Napoli,tra i parenti e gli amici, tra gente conosciuta, in quella società che
gli è propria, a quel modo di vivere che è la loro vita. Così gli ambienti
abitativi, per dar loro posto, si sono solidarmente divisi. Ma sono tenuti
ordinati e lindi, e sono forniti di bagni e di moderne tecnologie casalinghe. I
piani del fondaco si sono innalzati e vengono preferiti quelli più alti.
Certo ora, come nei
vecchi vicoli napoletani, sta
sorgendo, ed è una novità, un senso di insicurezza.
Testimoniato anche dalla chiusura delle porte dei “bassi”, le case a pian
terreno, con la “finestra
zoppa” e, come nota acutamente Anselmo, dalla presenza dei cani –
non i randagi a cui si dà il cibo, un calcio e una carezza – ma cani da difesa
e robusti cani da guardia. Ora vi sono, anche nel Fondaco del Cavone, molti
abitanti che vengono dall’estero, soprattutto africani e cingalesi, gente
sconosciuta. Alcuni rimangono più a lungo, altri fanno un turn-over.
Ma
sono sempre di più e l’atteggiamento di accoglienza proprio delle
civiltà di mare… da Nausica in poi… si chiude in un atteggiamento di
faticosa sopportazione. E ogni tanto si protesta per piccole cose, che fanno
emergere in superficie la diversità tra le etnie. Pure lo spazio, qui, al
Cavone, scarseggia e rende
più aspri gli attriti tra persone che sono profondamente
diverse. Mentre l’armonia di una società è fatta dalla omogeneità dei suoi
componenti.
Dalla relazione degli studiosi molte cose sono state chiarite. Ma una domanda rimane senza risposta. Se i fondaci sono una sorta di antichi magazzini portuali, di origine medievale, che si trovavano un tempo lungo i moli, a Napoli come a Venezia e a Genova, il fondaco del Cavone, come quello, anch’esso napoletano, di San Gregorio Armeno, che non sono costruiti nel porto, perché si chiamano fondaci?
Adriana Dragoni
fonte http://www.agenziaradicale.com/index.php/rubriche/arte-e-dintorni/5739-abitare-un-fondaco-al-cavone-centro-studi-per-la-storia-dell-arte-e-dell-architettura-delle-citt
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Posted by altaterradilavoro on Mar 3, 2019
In rete è possibile
trovare brani musicali, anche di musica classica, corredati da video adeguati.
Non sempre però, il video
è attinente in tutto e per tutto al brano musicale che accompagna.
E’ quanto accade ad un
brano di Dmitri Shostakovich che, in rete, ha un titolo che, in inglese, è… The
Second Waltz.
Nella parte iniziale del
video che correda questo splendido brano di Shostakovich, si vede il Principe
di Salina che balla con la figlia di un “galantuomo“, tale Calogero Sedara, impersonata dalla
bellissima Claudia Cardinale.
In realtà, nessuno dei due
c’entra nulla con Shostakovich.
Essi, infatti, nella
trasposizione cinematografica del Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa,
ballavano al suono di un bel walzer di Verdi ma, se ci rifacciamo agli
insegnamenti della Storia non negata, tra una nota e l’altra del gioioso walzer
verdiano, possiamo sentire o immaginare di sentire qualcosa di ben diverso:
note tristi, un che di funebre; una sorta di… futuro, incipiente ed
imminente… lagrimosa di mozartiana
memoria.
Ogni cosa può essere letta
da due punti di vista purché uno dei due sia quello da cui si guarda con gli
occhi della ragione.
Io guardo da… sud
per cui, “stonate”, oltre alla gioiosità delle note che accompagnano quel
gattopardesco evento mondano, mi appaiono, per il loro colore, anche le fasce che
si vedono al petto di Ufficiali in secondo piano rispetto al Principe che
piroetta con la bella Angelica …
“Il sonno, il lungo sonno” che Tomasi di Lampedusa mette sulla bocca
di Don Fabrizio, non è certo quello che durerebbe, a dire di questi, da duemila
anni; è più breve, più recente, ma oltremodo dannoso, ugualmente da … “requiem”.
Vae victis…
Dovrebbe bastare…anche per
Tomasi di Lampedusa se dovesse riscrivere oggi il suo Gattopardo.
La Storia, la conoscenza,
non consentono compromessi.
Il video … https://www.youtube.com/watch?v=IOK8Jb76ibc&feature=share
Fiorentino Bevilacqua
02.03.2019
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Posted by altaterradilavoro on Feb 21, 2019
1. INTRODUZIONE
È bene stabilire fin dall’inizio i limiti di questa relazione. Innanzitutto i limiti geografici: riguarderà le regioni che all’inizio del 1798 fecero parte della Repubblicana romana, istituita a seguito della spedizione del generale Louis-Alexandre Berthier (1753-1815), della presa di Roma e dell’esilio di Papa Pio VI (1775-1799): quindi Lazio, Umbria e Marche.
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Posted by altaterradilavoro on Gen 24, 2019
COMPOSITORE
– DIRETTORE – CONCERTISTA
DEL
CONSERVATORIO DI MUSICA S. PIETRO A MAIELLA DI NAPOLI
LORETO PAGANO
La
prima persona coinvolta nella passione musicale nella famiglia Pagano è Loreto
Pagano, padre di Samuele e figlio di Antonio Pagano che si era trasferito da
Napoli ad Atina per esercitare il commercio di vini. Costui, che sposò la
sorella del Parroco, coltivava ambizioni di una brillante carriera per il
figlio Loreto e per questo motivo lo manda a Trisulti fra i Certosini per
studiare latino, greco, teologia e l’arte farmaceutica del dispensario delle
medicine del monastero. Successivamente, dal 1858 al 1860, lo trasferisce a Napoli per frequentare la Scuola di Bassa
Chirurgia presso la scuola medica del Monterossi.
1883. Nasce il 18.05.1883 ad Atina (Caserta) in Terra di
Lavoro, nono di diciannove figli che suonano tutti uno o più strumenti.
1892. Fin dall’adolescenza mostra sempre una speciale
tendenza musicale tanto che da semplice dilettante suona il violino, è già un
esperto suonatore di
flauto e di chitarra e scrive delle”
suonatine di sua iniziativa”.
Loreto Pagano, padre di
Samuele,“Flauto solista” della Banda di Atina dal 1860 al 1890, dopo le continue e insistenti richieste del figlio, decide di
assecondare l’inclinazione che il ragazzo ha per la musica mandandolo a Napoli
a studiare.
Con la certezza che i sacrifici che
dovrà fare non saranno inutili, chiede all’Amministrazione Comunale di Atina,
guidata dal sindaco Giuseppe
Visocchi, di concedere con il
Bilancio Comunale un sussidio di almeno duecento lire annue per la durata di
quattro anni. Il Consiglio accetta la
domanda e delibera di stanziare una apposita
categoria nel Bilancio per il sussidio suddetto il quale dovrà pagarsi a rate trimestrali
posticipate e
previa esibizione di attestati dai
quali risulti che Samuele Pagano trae profitto dall’insegnamento.
Successivamente, però, il richiedente giunge alla determinazione di
far studiare Samuele ad Atina limitando la dimora a Napoli a soli due o tre
mesi circa sotto la direzione di “maestri particolari” i quali devono essere ricompensati.
1894. Accompagnato dall’On. Alfonso Visocchi, supera l’esame
di ammissione al Reale Conservatorio di Musica” San Pietro a Maiella” di
Napoli, privilegio destinato a pochi dotati di straordinarie qualità musicali.
Ha per insegnanti illustri maestri come Camillo
De Nardis, Pietro Platania, Ettore Fieramosca, Francesco Ancona e Giuseppe
Martucci dai quali derivò una severa
concezione dell’arte. Per tali studi il ragazzo supera brillantemente gli esami
del Reale Conservatorio come risulta dai certificati rilasciati dal Direttore
di detto Conservatorio.
1903. Consegue,
il 16 novembre, il Diploma di licenza e di Magistero nel ramo Istrumentazione
per Banda e nel Pianoforte e Violino complementari, con il massimo dei voti.
Dal
1903 al 1906 presta
Servizio Militare di leva nel II Reggimento dei Granatieri di Sardegna e si
distingue come musicista, come tiratore scelto e come attore teatrale.
Dopo il congedo la passione per il tiro
non svanisce e ciò è documentato dalla
nomina di Vice Direttore della Società di Tiro a Segno Nazionale e della
Società di Tiro a Segno di Atina.
1906. Il sette dicembre viene nominato maestro di
musica del Complesso Bandistico “ Città di
Atina” a titolo di esperimento per
l’anno 1907 con uno stipendio di L.75 mensili.
1907.
Il 3 dicembre il Consiglio Comunale conferma la nomina del maestro Samuele
Pagano con lo stipendio di L. 1200 annue “lorde di Ricchezza Mobile”.Dirigerà,
poi, il corpo musicale fino al 1964.
Quando è invitato alla Direzione
della Banda dal Cav. Orazio Visocchi, che ne è Presidente, si imbatte in una situazione poco confortante
in quanto vi è insufficiente preparazione e i brani spesso presentano errori di
strumentazione e di armonizzazione. Attraverso un paziente lavoro di oltre
mezzo secolo, egli riesce a perfezionare il complesso fino a raggiungere
il giusto equilibrio tra i vari strumenti.
1915. Vince il Concorso per la Direzione della Banda
Presidiaria del 59° Reggimento di Fanteria di stanza a Frosinone.
Al termine dell’incarico, nel 1918,
riceve un’attestazione di merito per le capacità organizzative, artistiche,
tecniche e per le sue “ottime maniere”.
1918. Avviene la fusione della Banda di
Atina con metà Fanfara per la quale scrive diversi brani. In epoca fascista ne
scriverà altri.
1920. Il 20 settembre a Parigi dirige in Concerto”La Banda
Musicale della Lira Italiana”.
1921. Dirige in Concerto la Southwairk Boro Prize Band a
Londra. In programma anche la Symphonic March “The Tiber” di sua composizione.
Tale marcia in Inghilterra verrà
ripetutamente eseguita da parecchie
bande.
Dal 1920 al 1921 la Banda di
Atina è alle dipendenze del fratello Beniamino, diplomatosi anche lui a S.
Pietro a Majella.
Alla fine dell’anno 1921 ritorna ad
Atina. In tale anno la Banda conta 43 elementi. Dal 1922 al 1944 essa si esibisce ogni domenica in
Piazza Garibaldi ed effettua
esecuzioni musicali anche nei paesi vicini.
1922. E’ vincitore del Concorso per la direzione del
“Quartetto Haydan di Londra”.
Il 18 settembre gli perviene
un contratto per la direzione della “Banda G. Rossini” di Parigi. Il 22
settembre è preparata la pratica per il
trasferimento, ma egli decide di non
partire.
1923. Viene molto applaudita la sua
marcia sinfonica “ Capricciosa” eseguita durante il “Concerto Musicale, Vocale
e Instrumentale “ diretto dal Maestro
B. Pagano in occasione del Genetliaco
di Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III.
1924.
Il 14.10 di
quest’anno gli perviene una richiesta da parte di “Cimino Frères”, una
importante casa musicale di Parigi che chiede la gentilezza di inviargli una
decina di brani musicali per piano automatico.
1925. Contrae le nozze con Lucia Mancini.
Dalle esperienze musicali fatte a
Roma, a Parigi, a Londra, a Glasgow appare come un artista di respiro nazionale
ed europeo, eppure rinuncia alla possibilità di successo e di carriera che
offrono le grandi capitali per vivere nella sua valle e dedicarsi alla composizione delle sue opere.
1932. E’ nominato Membro Onorario dell’Accademia Musicale “G.
Verdi” per i suoi meriti artistico-culturali.
1945.
Ricostituisce e dirige il Complesso
Bandistico “Città di Alvito”, il primo a
riprendere il discorso musicale nella valle dopo gli eventi bellici.
In varie epoche è invitato frequentemente alla
direzione di importanti complessi bandistici Abruzzesi e Pugliesi.
Raggiunge la piena maturazione
artistica nel 1946-48 quando sarà costituita la “Grande Banda Città di Atina”
la cui direzione gli è affidata da Guglielmo Visocchi, Presidente della “
Società Musicale Città di Atina”
Accresce il numero degli elementi
portando a 64 il numero complessivo dei musicanti sia reclutandoli in vari
conservatori musicali sia formando numerosi allievi e crea un vero repertorio
originale per banda. Il complesso, nel caso in cui esegue il Gran Canzoniere,
raggiunge il numero di 75 esecutori. Per le grandi occasioni vi è la
partecipazione del grande flautista Severino Gazzelloni. Il successo ,
documentato dalla stampa, è strepitoso e la banda è giudicata tra le migliori
in Italia. A tale epoca risale la composizione delle opere più significative.
Molte delle sue numerose
composizioni hanno il riconoscimento di Medaglie d’oro in Concorsi nazionali e
lusinghiere valutazioni in Inghilterra, in Francia e in America.
1947. Dal 1947 al 1960
insegna musica presso gli Istituti Magistrali di Pontecorvo e di Cassino e
presso la Scuola di Avviamento di Atina.
Impartisce, fino al 1967, lezioni
private di pianoforte,di violino, di chitarra,di fisarmonica e di altri strumenti.
E’ formatore di ben tre generazioni
di allievi che ricordano con venerazione il Maestro e tengono alta la cultura e la tradizione
musicale nella Valle. Alcuni di essi hanno ricevuto lusinghiere affermazioni
all’estero.
1948.
La Società Musicale
“Città di Atina”, presieduta dall’Ing. Guglielmo Visocchi, sindaco di Atina, non è più in grado di
sostenere le spese per la Banda e
Samuele accetta di dirigere, per tutto il 1948, la Banda di Monte San Giovanni
Campano.
1949.
Dal 1949 aumentano le difficoltà finanziare per
sovvenzionare il complesso bandistico di Atina.
1956.
La Banda conclude l’attività che per tanto tempo aveva
brillantemente rappresentato la nostra
città.
1970.
Al 24 maggio di
quest’anno risale l’ ultima apparizione ufficiale di Samuele Pagano per ricevere l’onorificenza
di “ Cavaliere di Vittorio
Veneto”concessa con decreto del presidente
della Repubblica ai combattenti della prima Guerra Mondiale in riconoscimento
del
servizio prestato.
1972. Il dieci dicembre viene dato
l’annuncio della morte del Maestro.
1923. Lo stesso anno il fratello
Beniamino, che lui aveva sostenuto negli studi dopo la morte del padre Loreto, fu
nominato maestro Direttore della Banda “ Gioacchino Rossini” di Parigi e, in
seguito, fu chiamato a dirigere anche la
Banda della “Lira italiana di Parigi”. Pianista solista, concertista e
violinista, le sue composizioni sono state incise da varie case discografiche.
1982. La “Pro Loco” di Atina
premia il Maestro Pagano con un Diploma di Medaglia d’oro.
1983.
Samuele Pagano non pubblicò quasi nulla da vivo, forse
perché la sua natura aristocratica, solitaria
e a momenti spirituale lo portò a
trovare pieno appagamento nella
creazione dell’opera musicale in sé. Può
darsi che sia questo il motivo per cui
che egli non volle mai staccarsi dalla fonte della sua ispirazione, la terra
natale, per inseguire le lusinghe del successo che lo avrebbero portato in
altri luoghi.
Della produzione del
maestro fanno parte circa 3000 pagine di
manoscritti. Le composizioni scampate
allo scempio della seconda guerra mondiale e al logorio del tempo sono
260. Una quarantina sono quelle andate disperse. Quelle sottratte all’oblio
sono state raggruppate tenendo conto del
genere di musica e delle dimensioni dei manoscritti.
Nel centenario della sua nascita , nel corso di una manifestazione
commemorativa in cui gli fu intitolata
la strada in cui ebbe la sua
dimora per cinquanta anni,
viene presentato, per interessamento dei figli Flavio, Concetta e Franca, il
primo volume della raccolta di musiche “ Antologia Pianistica” e il II volume
“Fantasie Musicali .Nel salone del Palazzo Ducale si tiene un concerto vocale e strumentale
durante il quale vengono eseguite numerose composizioni inedite. La Famiglia
Pagano, alla quale l’Amministrazione P. di Fr. fa omaggio di una Medaglia d’Oro,
dona la Museo Comunale tutti i manoscritti del Compositore, i Diplomi di
Ben. e di Concorsi e molti cimeli.
1984. Il 17 e il 18 Novembre il Comune di Atina organizza due
manifestazioni in memoria del Maestro: il primo giorno si tiene un Concerto di
Musica Strumentale del Rinascimento del “Concentus Concert” di Budapest, il
secondo si esibiscono nelle piazze e per le vie del paese le bande convenute al
“III raduno Nazionale di Bande”.
1985. Nel mese di marzo è dato alle stampe il III volume di
manoscritti “Antologia musicale n. 1”.
Il 29 settembre
sono presentati i volumi IV e V di
musiche “Antologia musicale n.2 ”
e “Marce sinfoniche”
1987. Viene presentato il
VI volume di manoscritti”Marce militari”.
Il
Corpo Bandistico di Atina fu fondato nel 1835. Fino al 1956 ebbe sempre annessa
una scuola di musica e lavorò
ininterrottamente tanto da rappresentare una tradizionale fonte di educazione
artistica generatrice dei più nobili sentimenti tramite l’opera compiuta da tanti bravi maestri. I suonatori
erano tutti artigiani del posto animati da passione musicale .
Gli
strumenti musicali, avendo il Corpo sempre
avuto la qualifica di concerto civico, erano di proprietà del comune e ceduti in uso alla banda stessa. . Molti venivano regalati annualmente dalla famiglia Visocchi.
Nel
1942 l ’Amministrazione Comunale corrispondeva al Dopolavoro Comunale di Atina,
alle cui dipendenze era passato il concerto civico, un contributo per il
mantenimento dello stesso corrispondente a L. 6.000. Per tale sostegno il
“concerto” aveva l’obbligo di suonare sia
nelle Feste Nazionali che nelle
grandi occasioni a titolo gratuito ed a semplice richiesta del Capo
dell’Amministrazione. Nei “periodi estivi e normali prestava servizio serale e
ogni domenica”. ( Archivio Storico
Comunale di Atina)
–1946. Dirige il Complesso
Bandistico “Città di Monte San Giovanni Campano”.
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Nono
di diciannove figli che suonavano tutti uno o più strumenti, nacque ad Atina il
10 maggio del 1883.
Fin dall’adolescenza mostrò sempre una speciale tendenza musicale tanto che da semplice dilettante suonava diversi strumenti e scriveva anche delle suonatine di sua iniziativa. Grazie alla determinazione del padre che volle assecondare la sua inclinazione musicale e grazie anche alla filantropia dell’amministrazione comunale di Atina, guidata dal sindaco Giuseppe Visocchi, fu condotto a Napoli dal senatore Alfonso Visocchi dove superò l’esame di ammissione presso il Regio Conservatorio di Musica “San Pietro a Maiella. Nel 1903 conseguì, col massimo dei voti, il Diploma di Licenza e di Magistero nel ramo Istrumentazione per Banda. Nel 1907 fu nominato Maestro della Banda musicale di Atina percependo uno stipendio di £. 75 mensili lorde ( Archivio storico comunale di Atina, Registro Deliberazioni Comunali ,1893-1908).
Nel 1946 diresse la Banda di “Città di Monte S. Giovanni Campano” e nel 1954 il Complesso Bandistico “Città di Alvito”. In varie epoche fu vincitore di concorsi e Direttore di grandi complessi bandistici pugliesi e Abruzzesi e diresse concerti a Londra e a Parigi dove si affermò come compositore, direttore d’orchestra e concertista. Formatore di ben tre generazione di allievi, morì ad Atina il 10 dicembre del 1972.
Sostenne negli studi musicali il fratello Beniamino (1894-1989) il quale nel 1923 fu nominato maestro Direttore della Banda “ Gioacchino Rossini” di Parigi e, in seguito, fu chiamato a dirigere anche la Banda della “Lira italiana di Parigi”. Pianista solista, concertista e violinista, le sue composizioni sono state incise da varie case discografiche.
ricerca effettuata da
Mario Riccardi
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Posted by altaterradilavoro on Dic 1, 2018
Cosa erano i Seggi? Erano anzitutto edifici cittadini, composti da un atrio ed un vano chiuso per le riunioni, ed erano poi “piazze” cioè luoghi di inquadramento socio-topografico delle famiglie aristocratiche. Erano edifici, erano “piazze” ed infine erano unità amministrative: ogni seggio è partecipe dell’amministrazione della città.
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