Posted by altaterradilavoro on Mag 28, 2019
Intorno
alle iniziative del governo sull’autonomia si è sviluppato un dibattito che si
nutre però di molte omissioni e di non poche strumentalità. Nel Sud Italia si
respira una atmosfera che legge il discorso dell’autonomia come un segno
antimeridionalista. Questo, si dice, si riscontra anche nella assenza di
informazione su quello che, qualunque sia il giudizio che si voglia dare, si
realizza nel Sud del Paese da un punto di vista storico, politico, culturale,
strategico. Riporta il Servizio studi della Camera dei Deputati:
“Il tema del riconoscimento di maggiori forme di autonomia
alle Regioni a statuto ordinario, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma,
della Costituzione, si è imposto al centro del dibattito a seguito delle
iniziative intraprese da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna nel 2017. Dopo
aver sottoscritto tre accordi preliminari con il Governo a febbraio 2018, su
richiesta delle tre regioni, il negoziato è proseguito ampliando il quadro
delle materie da trasferire rispetto a quello originariamente previsto. Nella
seduta del 14 febbraio 2019, il Ministro per gli Affari regionali ha illustrato
in Consiglio dei ministri i contenuti delle intese da sottoporre alla firma.
Nel frattempo altre regioni hanno intrapreso il percorso per la richiesta di
condizioni particolari di autonomia”.
Quello
che segue è la cronaca di un appuntamento che il Movimento Sud
e Civiltà ha
tenuto a Napoli il 25 maggio scorso. Un ricordo di Ferdinando Secondo, Re delle
Due Sicilia dal
1830 al 1859, nel quale sono emerse posizioni che, al di la delle condivisioni
o meno (per molti di coloro che si oppongono la storia andava da una parte e i
Borboni dall’altra…ndr), meritano di essere descritte. E
questo in assenza di informazioni dalla stampa e dalla televisione nazionale
pubblica e privata.
Sud
e Civiltà. Un ricordo di Ferdinando Secondo, re delle Due Sicilie
A
Napoli c’è stato un convegno “diverso”. Stranamente diverso. Incominciando
dall’inizio: una Santa Messa nella Chiesa di Santa Chiara. Nel luogo che
testimonia, con i monumenti angioini, la nascita, nel Duecento, di Napoli
Capitale di un Regno e, con la cappella dedicata ai Borbone, la fine di questo Regno sei secoli
dopo. È stato sabato scorso, nella sonnacchiosa, piovosa
vigilia delle elezioni europee. Tanta gente era accorsa, nonostante il maltempo.
C’era
dell’entusiasmo e la sensazione che stava accadendo qualcosa di nuovo, quando
ci si è spostati nella maestosa Sala Maria Cristina,
nella cittadella monastica di Santa Chiara. C’erano già stati tanti convegni
tradizionalisti a Napoli, a Gaeta, a Civitella, nelle Calabrie, in Sicilia,
dappertutto nelle terre dell’antico Regno (anche nel Basso Lazio, che ne faceva
parte, come testimonia l’indefessa attività di Claudio Saltarelli).
Ma
stavolta c’era la consapevolezza di qualcosa che non sarebbe potuto essere
tenuto nascosto, cancellato dalla Stampa e dalla TV locale e nazionale. C’era
la testimonianza del diffondersi di una consapevolezza che raccoglieva, in una
sorta di summa,
l’azione di tanti che si sono dedicati a ricordare il passato di una grande
civiltà calpestata, svilita, calunniata, con la speranza di farla risorgere.
Dall’azione
precorritrice di Silvio
Vitale negli anni Sessanta, alla costituzione, nel
Novantatrè, con Riccardo
Pazzaglia, in una riunione in un ristorante sotto Castel
dell’Ovo, del Movimento Neoborbonico. Tanti, da allora, quelli che si sono
dedicati allo studio sulle carte degli archivi finalmente aperti, tanti i libri
nuovi e la ristampa di quelli che riportano il diario dei giorni della fine.
Merito anche del coraggio di Case Editrici, come, tra le altre, “Controcorrente”
(a Napoli, in via Carlo De Cesare), fondata dal compianto Pietro Golia, e la
napoletana “ Il
Giglio” (a via Crispi 36).
I
nomi delle strade annullano la storia della città. Come il corso Vittorio
Emanuele II, (ma primo Re d’Italia), una strada rispettosa della natura, che
segue le linee morbide delle colline. Si chiamava corso Maria Teresa, dal nome
della Regina, ed era stata costruita per volontà del Re Ferdinando II di
Borbone, al quale, appunto, è dedicato questo convegno.
Un Re, si scrive nell’invito, “Difensore
del popolo contro sfruttatori e usurai. Si batté per la prosperità e
l’indipendenza della Patria. Calunniato per 158 anni dai nemici del Sud, i
popoli delle Due Sicilie gli rendono un commosso omaggio. E promettono di
riprendere con determinazione la sua battaglia per la grandezza e la dignità
del Sud”.
Ecco,
in questo convegno, più che in altri, non c’è stata solo una rievocazione
storica, che si è avvalsa anche dell’intervento di valenti musicisti,
l’insegnamento missionario, la manifestazione di coreografici figuranti (quali le guardie borboniche di Marco
Mauriello). C’è stata la determinazione di non sopportare più
in silenzio la propaganda contro il Sud, che si attua proditoriamente anche da
parte di quelle strutture che dovrebbero promuoverlo. Moderatore del Convegno è
stato lo scrittore Gianni
Turco, che è riuscito a mantenere i discorsi di tutti i
relatori nel limite dei quindici minuti.
“Vita
e opere di un grande Re” è stato l’argomento trattato dal direttore
scolastico Vincenzo
Giannone, che è riuscito a dare il nome del nostro Re ad una
scuola. Lo scrittore Vincenzo
Gulì ha parlato de “L’età d’oro dell’industria del
Sud”, il presidente onorario del movimento Sud e Civiltà Guido Belmonte del
“1848: un Re nella tempesta”, lo scrittore Maurizio di Giovine de “Le opere
militari”, lo scrittore Gaetano
Marabello de “La difesa dell’indipendenza della Patria”. Ha
concluso il convegno il suo organizzatore, il presidente di Sud e
Civiltà Edoardo
Vitale, il magistrato illustratore, editore e direttore de
“L’Alfiere”, una rivista storica cartacea ben scritta ed
elegantemente impaginata.
Vitale
ha parlato di Ferdinando II come “Il difensore del popolo”. Unitevi a noi. – ha
detto -. “Siamo lanciatissimi ed ora nuovi eventi, nuove avventure, nuove
battaglie … vogliamo la rinascita del Sud. Unitevi a noi. Insieme apriremo
un’esaltante pagina di storia”.
C’è
stata anche una raccolta di firme: una
petizione pubblica al Sindaco di Napoli Luigi De Magistris
perché conceda la cittadinanza onoraria di Napoli all’attuale direttore
della Reggia – Museo e del Real Bosco di Capodimonte (di fondazione
borbonica) Sylvain
Bellenger, per avere svolto il suo compito con grande competenza,
intelligenza ed amore per Napoli: un napoletano esemplare.
Moltissimi
hanno firmato, molti altri avrebbero voluto firmare ma la raccolta era
riservata ai soli residenti napoletani. Questi altri potranno rivolgersi
all’architetto Paola Pozzi, che raccoglie firme con change.org.
di Adriana Dragoni
fonte http://www.agenziaradicale.com/index.php/cultura-e-spettacoli/eventi/5837-un-ricordo-di-ferdinando-secondo-re-delle-due-sicilie
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Posted by altaterradilavoro on Mar 6, 2019
Il
nostro primo studio sui campi di prigionia per soldati
Napolitani, apparso sulla rivista L’Alfiere, diede origine ad un piú ampio
saggio di Fulvio Izzo sull’argomento (I Lager dei Savoia). Le due ricerche,
integrandosi, sono state alla base di una nuova messa a fuoco dell’ultima
storia militare del Sud indipendente. Indro Montanelli negò l’esistenza dei
campi di concentramento al Nord per soldati meridionali durante le fasi
costitutive dell’unità d’Italia; ma, la sua, fu una difesa aprioristica e
settaria del principio risorgimentale perché se avesse avuto voglia di
documentarsi, ed i nostri studi offrivano la bibliografia inoppugnabile,
avrebbe potuto consultare i Carteggi di Cavour, base di partenza per conoscere
il problema. Bastava limitarsi al solo volume dedicato all’indice dei
precedenti 15 volumi, per trovare a pag. 188 il titolo “prigionieri di
guerra Napoletani” con l’indicazione di ben 19 dispacci riportati nel
terzo volume “La liberazione del Mezzogiorno” dove si parla
diffusamente dei soldati del Sud e del loro triste destino.
Piú
autorevoli studiosi della materia hanno invece accolte le nostre ricerche con
maggior serietà ed il prof. Roberto Martucci, storico dell’Università di
Macerata, ha scritto con coraggio: “il silenzio della piú consolidata
riflessione storiografica sull’argomento appena evocato, consentirebbe di
ipotizzare l’inesistenza o la non rilevanza del fenomeno dei prigionieri nelle
guerre risorgimentali, anche a causa della stessa brevità degli eventi bellici
di quella fase storica, generalmente limitati a poche settimane di conflitto.
Impressione
che risulta rafforzata dalla lettura di testi coevi quali quelli del borbonico
Giacinto De Sivo, che dedica poche righe alla questione, o del liberale Nicola
Nisco che in proposito tace. Meraviglia di piú il silenzio conservato dal
giornalista e politico liberale Raffaele De Cesare, che ha scritto a pochi
decenni dagli avvenimenti, sulla base di testimonianze dirette integrate da
un’interessante bibliografia, senza tuttavia prestare la minima attenzione al
problema.
Il fatto
poi che neppure il compiuto affresco legittimista di Sir Harold Acton,
tracciato in anni a noi piú vicini, si riferisca al tema crepuscolare della
prigionia, sembrerebbe autorizzare una presa di distanza dalle poche righe con
cui padre Buttà tentò a suo tempo di sfidare l’oblio dei posteri”.
La
questione assume però contorni del tutto differenti se, abbandonato l’alveo
della ricostruzione storiografica, proviamo ad interrogare quell’inesplorato e
vasto microcosmo costituito dall’imponente Carteggio del conte di Cavour.
Occultati tra migliaia di dispacci troviamo,
infatti,
una ventina di documenti che evocano a grandi linee una questione non
marginale, suggerendo approfondimenti archivistici tali da riempire una pagina
restata finora bianca nella storia militare dell’unificazione italiana. Essi
aprono anche interessanti prospettive di ricerca riguardo alle relazioni
interpersonali tra settentrionali e meridionali e all’uso di alcuni stereotipi
divenuti di uso frequente nei decenni postunitari, per qualificare gli
appartenenti ai ceti piú umili del cessato Regno delle Due Sicilie.
Sottoscriviamo
le parole dello storico con una riserva: la conoscenza del problema relativo
alla prigionia dei soldati Napolitani colmerà certamente “una pagina
restata finora bianca nella storia militare dell’unificazione italiana” ma
andrà a formare, principalmente, il capitolo ricostruito a peritura vergogna di
una classe politica e di una dinastia che unificarono in quel modo, “col
ferro e col fuoco”, Stati di tradizione italiana di gran lunga superiore a
quella del Piemonte.
Tornando
ai nostri studi dobbiamo registrare un passo in avanti della ricerca, divenuta
ormai un tema caro a tanti studiosi che si sentono eredi, oltre che
discendenti, del cessato Regno delle Due Sicilie. Il passo in avanti riguarda
la situazione del campo di concentramento di Fenestrelle.
Questo
luogo, situato a quasi duemila metri di altezza, sulle montagne piemontesi,
divenne la base di raggruppamento dei soldati borbonici piú ostinati: quelli,
per intenderci, che non vollero finire il servizio militare obbligatorio
nell’esercito sabaudo, quelli che si dichiararono apertamente fedeli al Re
Francesco II, quelli che giurarono aperta resistenza ai piemontesi.
Il luogo
non era nuovo a situazioni del genere perché già Napoleone se ne era servito
per detenervi i prigionieri politici ed un illustre Napoletano, don Vincenzo
Baccher, il padre degli eroici fratelli realisti fucilati dalla repubblica
partenopea il 13 giugno del 1799, vi aveva passato 9 anni, dal 1806 al 1815,
tornando a Napoli alla venerabile età di 82 anni.
A
Fenestrelle, quindi, giunsero i primi “terroni” ed in questo luogo
molti di essi cessarono di vivere. Il numero di coloro che trovarono la morte
non è certo perché le cronache locali parlano di migliaia di soldati
prigionieri morti ma non registrati. I loro corpi venivano gettati, “per
motivi igienici”, nella calce viva collocata in una grande vasca situata
nel retro della chiesa che sorgeva all’ingresso del Forte. Il personale addetto
alla fortezza conferma ancora oggi l’esistenza della vasca.
Ma a
Fenestrelle funzionava anche un ospedale da campo dove furono ricoverati alcuni
prigionieri. Coloro che morirono nell’ospedale vennero annotati nel libro dei
morti di Fenestrelle e la Provvidenza ha permesso che alcune annate del libro
parocchiale dei morti si sia potuto consultare, anche se molto velocemente.
Il
dottor Antonio Pagano, accompagnato dal dott Piergiorgio Tiscar, discendente
del maggiore don Raffaele Tiscar de los Rios, capitolato a Civitella del
Tronto, recatosi il 22 maggio scorso a Fenestrelle in sopralluogo per
organizzare la commemorazione dei nostri prigionieri che si terrà sabato 24
giugno, ha visionato il libro dei morti ed ha stilato velocemente l’elenco che
ora si pubblica. I registri del 1860 e del 1861 sono scritti in francese ed i
nostri soldati vengono definiti “prigionieri di guerra napoletani”. I
registri del 1862, del 1863, del 1864 e del 1865 sono scritti in italiano e
definiscono i prigionieri morti “soldati cacciatori franchi”.
Mancano
all’appello i registri dal 1866 al 1870 perché prestati ad uno studioso di
Torino. Avremmo modo, in futuro, di colmare la lacuna e correggere eventuali
errori di trascrizione
Elenchiamo
ora i nomi dei nostri Caduti con religiosa emozione al fine di restituire alla
loro memoria, dopo 140 anni, gli onori ed il rispetto che meritano per il
sacrificio sopportato.
ANNO 1860
1. Garloschini Pietro, m. 1.10, di Montesacco (?)
2. Conte Francesco, m. 11.11, di Isernia, anni 24
3. Leonardo Valente, m. 23.11, di Carpinosa, anni 23
4. Palatucci Salvatore, m. 30.11, di Napoli, anni 26
5. Suchese (?) Francesco, m. 30.11, di Napoli
ANNO 1861
1. Scopettino Matteo, m. 24.8, di Chieti, anni 22
2. Miggo Salvatore, m. 7.10, di Galatina (Lecce) anni 24
ANNO 1862
1. Donofrio Carmine, m. 16.1, di Villamagna (Chieti) , anni
27
2. Caviglioli Marco, m. 29.1, di Cosciano (?)
3. Palmieri Biagio, m. 5.2, di Teano, anni 23
4. Visconti Domenico, m. 16.4, di Cosenza, anni 28
5. Mulinazzi Francesco, m. 20.7, di Benevento, anni 24
6. Gentile Rocco, m. 24.7, di Avellino, anni 25
7. Leo Vincenzo, m. 18.9, di Veroli (Frosinone), anni 26
8. Lombardi Nicola, m. 25.9, di Modigliano (?)
9. Vettori Antonio, m. 7.11, di Amantea, anni 26
ANNO 1863
1. Mazzacane Cristoforo, m. 18.2, di (?)
2. Pripicchio Raffaele, m. 21.3, di Paola, anni 23
3. Giampietro Giovanni, m. 9.5, di Moliterno, anni 28
4. Milotta Giuseppe, m. 23.5, di Sala, anni 24
5. Spadari Ruggero, m. 25.5, di Barletta, anni 24
6. Serbo Tommaso, m. 17.8, di Triolo – Gareffa (?), anni 26
7. Gaeta Giordano, m. 11.10, di Pellizzano (Salerno), anni
32
8. Gorace Domenico, m. 15.12, di Palma, anni 32
9. Grossetti Angelo, m. 23.12, di Mura (Vestone), anni 25
ANNO 1864
1. Masareca Giuseppe, m. 20.1, di Basilicata, anni 22
2. Morino Santo, m. 29.1, di Mussano (Lecce), anni 26
3. Pastorini Andrea, m. 16.2, di Maregno (?), anni 27
4. Montis Salvatore, m. 24.4, di Tramalza (?)
5. Palermo Giovanni, m. 12.5, di Atripalda, anni 32
6. Cirillo Salvatore, m. 17.5, di Boscotrecase (Napoli), anni
32
7. Pellegrini Massimiliano, m. 11.6, di Colorno (?), anni 26
8. Mossetti Antonio, m. 5.7, di Montalbano Jonico, anni 22
9. Di Giacomo Pasquale, m. 8.7, di Sessa Aurunca, anni
23
10. Giannetto Antonio, m. 19.7, di Zarca (?), anni 30
11. Davarone Francesco, m. 25.7, di Avellino, anni 26
12. Carpinone Cosimo, m. 4.11, di Fossaceca, anni 31
13. Bononato Carmelo, m. 17.11, di Belvedere, anni 27
14. Melloni Antonio, m. 20.11, di Sersini (?), anni 24
ANNO 1865
1. Laise Nunziato, m. 25.1, di Cetrara, anni 24
ANNO 1864
1. Masareca Giuseppe, m. 20.1, di Basilicata, anni 22
2. Morino Santo, m. 29.1, di Mussano (Lecce), anni 26
3. Pastorini Andrea, m. 16.2, di Maregno (?), anni 27 4. Montis Salvatore, m.
24.4, di Tramalza (?)
5. Palermo Giovanni, m. 12.5, di Atripalda, anni 32
6. Cirillo Salvatore, m. 17.5, di Boscotrecase (Napoli), anni
32
7. Pellegrini Massimiliano, m. 11.6, di Colorno (?), anni 26
8. Mossetti Antonio, m. 5.7, di Montalbano Jonico, anni 22
9. Di Giacomo Pasquale, m. 8.7, di Sessa Aurunca, anni
23
10. Giannetto Antonio, m. 19.7, di Zarca (?), anni 30
11. Davarone Francesco, m. 25.7, di Avellino, anni 26
12. Carpinone Cosimo, m. 4.11, di Fossaceca, anni 31
13. Bononato Carmelo, m. 17.11, di Belvedere, anni 27
14. Melloni Antonio, m. 20.11, di Sersini (?), anni 24
ANNO 1865
1. Laise Nunziato, m. 25.1, di Cetrara, anni 24
2. Barese Sebastiano, m. 30.1, di Montecuso, anni 26
3. Catania Angelo, m. 11.2, di Ischitella, anni 22
4. Pessina Luigi, m. 21.2, di Gragnano, anni 27
5. Mossuto Giuseppe, m. 1.4, di Moriale, anni 25
6. Guaimaro Mariano, m. 8.4, di Sala Consilina, anni 30
7. Torrese Andrea, m. 11.5, di Avenza, anni 21
8. Colacitti Salvatore, m. 15.5, Montepaone, anni 24
9. Santoro Giuseppe, m. 20.5, di Sattaraco (?), anni 27
10. Tarzia Pietro, m. 31.5, di Valle d’Olmo, anni 24
11. Palmese Tommaso, m. 6.9, di Saviano, anni 24
12. Ferri Marco, m. 11.10, di Venafro, anni 24
ELENCO
COMPILATO A FENESTRELLE
Il giovedí 25 maggio 2000, alle ore
12,30, da:
– Antonio Pagano
– Pier Giorgio Tiscar
Questi
soldati del Sud finirono i loro giorni in terra straniera ed ostile, certamente
con il commosso ricordo e la struggente nostalgia della Patria lontana.
Erano
poco piú che ragazzi: il piú giovane aveva 22 anni, il piú vecchio 32.
Se non
fossero stati relegati a Fenestrelle probabilmente sarebbero divenuti
“briganti” e, forse, anche per questo motivo, furono relegati a
Fenestrelle, fortezza del liberale piemonte, dove, entrando, su un muro è
ancora visibile l’iscrizione:
“OGNUNO
VALE NON IN QUANTO E’ MA IN QUANTO PRODUCE” .
Motto antesignano del piú celebre e
sinistro slogan che si poteva leggere nei lager nazisti:
“ARBEIT MACHT FREI”.
Non deve
destare meraviglia l’abbinamento perché la guerra del risorgimento, come ha
giustamente osservato di recente Ulderico Nisticò, fu una guerra ideologica. E
la guerra ideologica non può che concludersi con lo sterminio del
“nemico”.
FRANCESCO MAURIZIO DI GIOVINE
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