Posted by altaterradilavoro on Apr 12, 2019
I giacobini si
ritennero patrioti e sostennero che la rivoluzione era a favore del popolo, per
risollevarlo dalla miserrima condizione, intanto però, ne fomentavano la
strage, ritenendo quindi che la felicità vada imposta dalle menti elette anche
a prezzo di un bagno di sangue.
Qualche esempio
di stragi di civili:
- 1300 persone furono uccise a Isola Liri e dintorni;
- Itri e Castelforte furono devastate;
- 1200 persone uccise a Minturno in gennaio, più altre 800 in aprile;
- gli abitanti della cittadina di Castellonorato furono tutti massacrati;
- persone passate a fil di spada:
- tutta la popolazione a Coglie.
In un dispaccio
del 21 gennaio 1799 dai giacobini napoletani allo Championnet, al fine di
invitarlo ad affrettarsi a marciare su Napoli per la loro salvezza, troviamo
scritto:
“NON LA NAZIONE
MA IL POPOLO E’ IL NEMICO DEI FRANCESI”
Questa
affermazione, scritta dai filofrancesi durante i giorni della rivolta dei
lazzari, con l’evidente paura di fare una brutta fine, dimostra che le poche
decine di giacobini della “Repubblica Napoletana” ben capivano che solo
l’arrivo immediato delle truppe d’invasione francesi poteva salvarli dalla
furia popolare.
Scrive Massimo Viglione: “Ma, proprio scrivendo quelle parole, essi
dimostravano, a se stessi ed alla storia, il loro totale isolamento da tutto il
resto del popolo. Il fare una distinzione fra la categoria di “Nazione” e
quella di “Popolo”, attribuendo la prima a se stessi, cioè poche decine di
giacobini, e la seconda, con valenza dispregiativa, a milioni e milioni di
individui di tutte le classi sociali, dall’ultimo dei contadini al Re, risulta
essere una testimonianza inequivocabile non solo dell’isolamento, ma anche
della loro utopia, e dimostra anche tutto il loro reale disprezzo per il
popolo, atteggiamento tipico di ogni casta intellettuale di ogni tempo e
luogo”.
La parte
continentale del Regno subì una spietata occupazione francese; i giacobini
napoletani istituirono un governo fantoccio denominato “Repubblica Partenopea”
che non fu riconosciuto neanche dalla Francia.
Tutti i beni, compresi gli scavi di Pompei, furono dichiarati proprietà dello
straniero che pretese anche forti indennità di guerra.
Un cardinale
della Chiesa, il principe Fabrizio Ruffo, di sua spontanea iniziativa chiese a
Ferdinando uomini e mezzi per liberare il Regno.
Ottenne, così, il titolo di Vicario plenipotenziario del Re, una nave e sette
uomini.
Ruffo mosse
inizialmente con altri sette uomini contro l’esercito francese e liberò il
Regno dagli eserciti napolconici invasori.
Non ha ricevuto dagli storiografi alcun riconoscimento per la sua azione, né il
suo nome appare nella toponomastica delle città o sulla fiancata di un
incrociatore.
Eppure quella del Ruffo fu un’autentica guerra di liberazione: all’inizio
dell’anno 1799 quasi tutta la penisola italiana era sotto la dominazione
straniera; nel mese di ottobre non vi era più un soldato francese in Italia.
Scrive il Viglione: “La grande marcia di riconquista del Regno effettuata dal
cardinale Ruffo va inquadrata nel contesto generale del vasto fenomeno
dell’Insorgenza. Mentre il Ruffo risaliva il Regno con il suo esercito, 38.000
toscani liberavano il Granducato, decine di migliaia di italiani affossavano la
Repubblica Cisalpina e riconquistavano il Piemonte al seguito degli eserciti
austro-russi; tutti insieme, infine, marciarono su Roma nel mese di settembre,
quasi in una gara a chi arrivava prima a mettere la bandiera su Castel
Sant’Angelo: e la gara fu vinta, ancora una volta, dalle truppe del cardinale
Ruffo, che per prime liberarono la capitale della Cristianità”.
Il popolo si
schierò a difesa delle istituzioni e della fede cattolica, l’insorgenza
popolare divampò in tutto il Regno, inarrestabile. “Probabilmente, chiunque
altro avrebbe rinunciato alla folle idea gridando all’ignavia dei suoi Sovrani.
Non il Ruffo, che veramente partì con quel che aveva, e sbarcò il 7 febbraio
1799 in Calabria nei pressi di Pizzo.
Quattro mesi dopo, l’esercito dei volontari della Santa Fede, o sanfedisti, era
composto di decine di migliaia di persone, ed entrava in Napoli da trionfatore,
restaurando la Monarchia borbonica.
Ruffo iniziò la riconquista della Calabria verso il mese di aprile, e in maggio
mosse verso il Nord, passando attraverso Matera, quindi Altamura, per dirigere
poi verso Manfredonia ed Ariano, ove giunse il 5 giugno, preparandosi a
marciare sulla capitale.
Liberò Napoli il 13 giugno dopo una tragica battaglia che rivide i lazzari in
azione al suo fianco.
Il 21 giugno
1799 i francesi e i collaborazionisti giacobini si arresero”.
Da buon cristiano concesse ai giacobini condizioni di resa più che
caritatevoli, ma l’ammiraglio Nelson, giunto a Napoli il 24 giugno 1799, non
riconobbe la capitolazione accordata dal cardinale Ruffo che fu messo a tacere.
Se non fosse stato per Nelson essi sarebbero potuti partire per la Francia, e
sarebbero stati dimenticati; senza saperlo egli li trasformò in martiri. Le
navi trasporto furono portate a tiro dei cannoni, i passeggeri erano come, topi
in trappola e i più noti furono imprigionati nelle stive delle navi inglesi.
Racconta il Viglione: “Ruffo fece di tutto per salvare i giacobinii napoletani.
Molti storici, nelle loro opere chiariscono senza ombra di dubbio come l’unico
vero responsabile della condanna dei giacobini fu Orazio Nelson con l’avallo
della Regina. E, in fondo, furono gli stessi democratici ad autocondannarsi.
Infatti, quando l’Armata giunse a circondare la capitale, il Ruffo in persona
entrò in contatto con i comandi giacobini, e promise che avrebbe loro messo a
disposizione navi regie per partire per la Francia.
I repubblicani ebbero anche da ridire, e pretesero dal Ruffo che desse pubblico
ed ufficiale riconoscimento alla Repubblica Napoletana, altrimenti non
avrebbero accettato l’offerta.
Il cardinale, con cristiana pazienza, andò anche oltre i suoi legittimi poteri
di Vicario del Re e riconobbe a nome del Sovrano la Repubblica”.
E chiarisce subito: “E’ chiaro che fece ciò solo allo scopo di salvarli. I
giacobini allora iniziarono ad imbarcarsi, ma nel frattempo giunse nel porto il
Nelson con la sua flotta, e fece subito sapere che il patto era infame e che
non ne avrebbe permesso l’esecuzione, anche a costo di decapitare il Ruffo!
Questi allora andò personalmente a protestare sulla nave dell’ammiraglio,
ricordandogli che aveva dato la sua parola e che era il Vicario del Re.
Ma il Nelson, forte dell’appoggio della Regina, rispose insolentemente tramite
la sua amante Lady Hamilton che non era dignitoso per un ammiraglio parlare
troppo a lungo con un prete cattolico.
Il Ruffo, benché umiliato, non si diede per vinto, e provò nuovamente a
convincere i giacobini a consegnarsi a lui, promettendo di farli fuggire via
terra.
I repubblicani però preferirono consegnarsi al Nelson, reputando che era meglio
fidarsi di un ammiraglio protestante piuttosto che di un prete cattolico.
Appena costoro si imbarcarono sulla nave, Nelson li fece arrestare tutti.”
La decapitazione
di suo cugino Luigi XVI e di Maria Antonietta, le sofferenze e l’allontanamento
da Napoli non predisponevano il Re alla clemenza verso i traditori, verso
coloro che avevano appoggiato l’invasore straniero, in nome di una “civiltà”
imposta con la violenza.
Fu istituita una Giunta di Stato che doveva giudicare i civili e una Giunta di
generali per i militari.
Di 8000 prigionieri:
- 105 furono condannati a morte, di cui 6 graziati;
- 222 furono condannati all’ergastolo;
- 322 a pene minori;
- 288 a deportazione;
- 67 all’esilio;
- tutti gli altri furono liberati.
Durante i pochi mesi della repubblica
vennero condannati a morte e fucilati 1563 legittimisti
da “La storia proibita – Quando i Piemontesi invasero il Sud”, AA.VV.,
Controcorrente, Napoli, 2001
fonte http://lazzaronapoletano.it/category/0003/0003-0003/
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Posted by altaterradilavoro on Gen 23, 2019
Dopo la caduta di san Giovanni d’Acri nel 1291, la speranza di
liberare il Santo Sepolcro non venne meno e i tentativi continuarono per quasi
un secolo, ad esempio nel 1365
Le Crociate finirono ufficialmente con la caduta di san Giovanni d’Acri, ultimo caposaldo cristiano in Terrasanta, nel 1291. Ma la speranza di liberare il Santo Sepolcro dalla morsa islamica non venne meno e i tentativi continuarono per quasi un secolo. L’ultimo di essi reca la data del 1365. Ne parliamo seguendo il bel libro [vedi in fondo all’articolo il video di presentazione del libro, N.d.BB] di Massimo Viglione “La conquista della mela d’oro. Islam ottomano e Cristianità tra guerra di religione, politica e interessi commerciali (1299-1739)” (Solfanelli, pp. 360, € 30).
Dopo la fallimentare crociata del Delfino di Francia, che nel 1346 arrivò solo a Smirne, il papa avignonese Innocenzo VI cercava qualche appiglio che permettesse di riprendere l’avventura. Glielo offrì Giovanni V Paleologo, imperatore di Bisanzio. Questi nel 1354 concluse la sua guerra civile contro il rivale Giovanni Cantacuzeno (che si era addirittura fatto aiutare dai turchi, i quali, grazie a lui, avevano preso la città di Gallipoli e con essa il controllo del Bosforo). Fu il Paleologo, vittorioso, a invocare la crociata e arrivò a offrire al papa la sospirata unione, dopo tre secoli, delle Chiese d’Oriente e latina. Obbiettivo, Gerusalemme.
IL TENTATIVO DEL PAPA
Il momento era tutt’altro che favorevole: Francia e Inghilterra erano impegnate nella Guerra dei Cento Anni, e l’Italia era squassata dalle guerre tra le signorie. Ma il papa provò lo stesso, incaricando il carmelitano Pierre de Salignac de Thomas di percorrere l’Europa e predicare la crociata. Questo personaggio fu per l’occasione fatto vescovo di Patti e Lipari, ed è stato canonizzato come san Pier Tomaso. Riuscì a coinvolgere Venezia, la quale mise a disposizione una flotta. Con queste navi, unite a quelle degli Ospedalieri, arrivò fino a Lampsakos, che era di fronte a Gallipoli e del pari in mani turche. Ma la cosa finì lì, perché nel frattempo le trattative per l’unione delle Chiese si erano arenate per la (solita) opposizione del clero bizantino. Il Thomas allora si portò a Cipro, regno di Pietro di Lusignano. Costui già combatteva i turchi nel sud dell’Anatolia e aveva conseguito qualche risultato. Nel 1362 propose al nuovo papa Urbano V di riprendere l’idea di crociata. Urbano, impensierito dai progressi turchi, aveva in animo di soccorrere l’impero bizantino assediato anche rinunciando all’unione religiosa. La sua preoccupazione in tal senso lo spinse a chiudere con una pace sfavorevole l’impresa, già vincente, dal cardinale Gil de Albornoz negli stati pontifici, così da impegnarne le truppe contro gli ottomani. Il Lusignano era davvero l’uomo adatto. Religiosissimo, era cresciuto nell’ideale cavalleresco e crociato. Si diceva che, un giorno, Cristo gli fosse apparso in visione e lo avesse invitato a fondare un ordine monastico-militare, l’Ordine della Spada. Girò l’intera Europa per il suo progetto, ma era troppo giovane e non ancora re, così rimase un sogno. Salito finalmente al trono, combatté i turchi in Anatolia e riuscì a strappare loro alcune città. Nel 1362 tornò a fare il giro delle corti europee nel “più grande viaggio diplomatico con finalità crociate mai effettuato”. Andò dai dogi di Venezia e Genova, da Edoardo III d’Inghilterra, contattò tutti i principi dell’Impero, fu dai re di Polonia e di Ungheria. Il re inglese gli donò una nave, il re di Francia, Giovanni II il Buono, accettò di prendere la croce, l’imperatore Carlo IV di Lussemburgo gli garantì il suo appoggio. Pietro girava con al suo seguito san Pier Tomaso e il trattatista Philippe de Mézières, un nobile che aveva dedicato la sua vita alla causa crociata: anche dopo la morte di Pietro di Lusignano continuò, mettendosi al servizio di Carlo V di Francia e cercando di organizzare un ordine militare che conglobasse il meglio dei precedenti ordini cavallereschi, la Chevalerie de la Passion de Jésus-Christ.
I SANTI CROCIATI
Da notare, en passant, che fior di santi hanno accompagnato le crociate, fin dalle prime, predicate da san Bernardo di Chiaravalle. Nel secolo successivo sarà la volta di san Giovanni da Capestrano, il difensore di Belgrado. Poi toccherà a san Lorenzo da Brindisi nei Balcani e infine al beato Marco d’Aviano, il difensore di Vienna. Pietro di Lusignano sembrava essere stato capace di suscitare un generale entusiasmo, come aveva fatto il papa Urbano II ai tempi della prima crociata. Un altro Urbano, Urbano V, concesse la bolla di crociata e le indulgenze relative. Ma la realpolitik ancora una volta ebbe il sopravvento e uno ad uno i vari regnanti si defilarono. Non avevano tutti i torti, data la situazione delle guerre europee. Comunque, furono diversi i nobili che si crociarono e Pietro da Lusignano poté contare su millequattrocento cavalieri, diecimila combattenti e centosessantacinque navi. Spie al soldo di Genova, però, rivelarono al sultano d’Egitto i piani dei crociati, e il Lusignano dovette cambiare musica in corso d’opera. Nelle precedenti crociate nessuno aveva remato contro, ma i tempi erano mutati. Nel Cinquecento e nel Seicento sarà il re di Francia l’alleato di fatto degli ottomani in chiave anti imperiale. La spedizione del 1365 scelse di attaccare Alessandria, ed ebbe successo. La città fu presa e sottoposta a saccheggio, ma dovette quasi subito essere abbandonata perché i veneziani vi avevano i loro fondachi e si rischiava che si mettessero a imitare i genovesi.
UNA GUERRA DI DIFESA
Fu questa l’ultima crociata iniziata con l’intenzione di liberare il Santo Sepolcro. Ma la guerra tra l’Occidente e i turchi continuava. Solo che da quel momento in poi sarebbe stata combattuta tutta in difesa. Urbano V, intanto, non demordeva. Subito sguinzagliò legati per la Cristianità, ma solo Amedeo VI di Savoia, il Conte Verde, rispose. Voleva unire le sue (scarse) forze a quelle del Lusignano ad Alessandria, ma i veneziani lo ingannarono, facendogli credere che il re di Cipro avesse già stipulato la pace col sultano. Così, il Savoia si dirottò su Gallipoli, nella speranza che il re d’Ungheria, Luigi, lo raggiungesse via terra. Intanto, Giovanni V Paleologo, di ritorno dall’Ungheria dove aveva chiesto aiuto, era stato fatto prigioniero dai bulgari. Il Conte Verde prese Gallipoli nel 1367, poi Varna, dove liberò l’imperatore bizantino. Ma aveva solo quattromila uomini e dovette tornare in patria. Se tutti i principi avessero aderito e se Genova e Venezia non avessero pensato esclusivamente ai loro affari, davvero i cristiani avrebbero potuto in quell’occasione arrivare a Gerusalemme. Ma il destino era avverso. Pietro di Lusignano morì assassinato nel 1369.
Rino Camilleri
fonte
http://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=5507
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Posted by altaterradilavoro on Giu 13, 2018
Parlare di «movimento cattolico», ossia di una presenza unitaria dei cattolici italiani nella società moderna, prima del 1870 è alquanto improprio. Tuttavia, il problema di un rinnovato rapporto tra fede e società si pone da molto prima, quanto meno a partire dalla Rivoluzione francese. Proprio la turbinosa dinamica di cambiamenti che il 1789 apre e che investe frontalmente tale rapporto si pone all’origine del movimento cattolico e costituisce l’alveo in cui esso si svilupperà in forme compiute.
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